Rachele Andrioli – Leuca (Finisterre, 2022)

Consapevolezza dell’appartenenza a una terra proiettata nel Mediterraneo, collaborazioni con grandi nomi della musica salentina, studi della tradizione salentina e di canto jazz, apertura verso mondi musicali extraeuropei e didatta nei laboratori di tecnica vocale, vena cantautorale ma anche esplorazione e uso delle risorse elettroniche nelle performance live come one-woman-band: è il profilo di Rachele Andrioli, che in pochi anni si è ritagliata un ruolo di primo piano nell’ambito delle nuove proposte artistiche dal Salento. Il fascino del Finibus Terrae alimenta “Leuca” – dal nome del suo luogo di origine – questo primo album da solista della cantante, autrice e percussionista, che è anche lo sviluppo dello spettacolo “ìSola” portato in scena negli ultimi anni da Andrioli, in una tensione persistente tra tradizione e trasformazione, con testi e musiche inedite alcune interpretazioni molto personali di brani d’autore che la portano lontano dal proprio lido sonoro e linguistico. Prodotto da Erasmo Treglia per Finisterre, registrato da Valerio Durante (ospite anche come chitarrista), l’album è frutto anche della complicità di Redi Hasa, Coro a Coro, e Mauro Pellizzari. Un personale racconto poetico ed emozionale, irradiato dalla grande forza vocale della artista salentina, che ne parla a “BlogFoolk”.

Com’è nata la tua passione per le musiche tradizionali? 
È nata come nasce un amore, non saprei spiegare come, forse potrei spiegare quando.cEro molto piccola e cantavo sempre, qualsiasi cosa. Poi un giorno, avrò avuto cinque o sei anni, in una piazzetta ho visto una persona che suonava il tamburello. Non ricordo questa persona ma ricordo bene il suo tamburello: era pesante e grande per me che ero piccola. Ho passato l'intera serata a fissare lo strumento e a desiderare di suonarlo.

Nel tuo percorso artistico spiccano le collaborazioni con Officina Zoé, Giro di Banda e Tarantavirus con Cesare dell'Anna e il fortunato duo con Rocco Nigro. Quanto sono state determinanti queste esperienze per te?
Officina Zoè è stata un'esperienza importante poiché ero molto piccola, avevo 14 anni, e con loro salivo sui palchi, quelli grandi, e visitavo città di cui a stento conoscevo il nome, e vivevo emozioni che non avrei potuto conoscere in altro modo. Cesare Dell'Anna, Rocco Nigro, Redi Hasa, sono musicisti che frequento ancora e con cui ancora rinnovo l'anima e scopro nuova musica. Per il resto, tutte le esperienze, quelle di spicco e quelle vissute in una stanza universitaria con la chitarra scordata di qualche amico, sono state per me determinanti.

Come è nato il progetto “ìSola”?
Il progetto "ìSola" è nato in un’estate piena di musica, un momento di tanti cambiamenti interiori ed esteriori, quando tra un concerto e l'altro, nonostante il flusso "estivo" di impegni che si sovrapponevano, io tornavo a casa e non ne avevo ancora abbastanza: mi sedevo al centro di una stanza vuota, la riempivo di pedali e strumenti e suonavo, cantavo ancora e ancora.

Quando hai cominciato a dare corpo a “Leuca”? In che misura ha attinto a dimensioni rituali e quali?
“Leuca” era in cantiere da molto tempo: l'idea di utilizzare il fascino del rito e dell'espressione intima dei sentimenti era già la linea di questo lavoro. Gli ho dato corpo durante il lockdown, perché la lontananza da casa, seppure di pochi chilometri, ha reso possibile stabilire un legame amichevole con l'immaginazione. Quando scrivevo, o cantavo, mi sentivo più vicina al mare e potevo raggiungere tutte le suggestioni e i colori che desideravo solo chiudendo gli occhi. In più, vivo nel quartiere "Leuca", a Lecce, la strada che mi porta verso casa.

Qual è il tuo rapporto con il Capo di Leuca e in che modo ha ispirato il tuo nuovo album?
Il Capo di Leuca è il luogo in cui sono nata e cresciuta. Ho passato l'infanzia tra odore di mare, biglie trovate tra la terra dei giardini e delle campagne, enormi ulivi che assistevano alla vita di tutte le 
generazioni, strade di "chianche", basolato e giochi per strada. Crescendo ho assistito, come quegli ulivi, al cambiamento della mia terra. Probabilmente ho anche contribuito a questo cambiamento, attivamente per quanto riguarda l'aspetto musicale. De Finibus Terrae: così veniva chiamata Leuca dai pellegrini che credevano che da lì in poi il mondo terminasse. Così la terra lascia spazio al mare. E così gli abitanti di una Finisterre vengono condizionati inevitabilmente da ciò. Emigranti e spettatori di approdi, romantici e riflessivi ed esposti alle tempeste. Il Capo di Leuca ha ispirato il mio album perché tutto intorno e dentro di me suggeriva di percorrere questa strada, di omaggiare la mia terra e di immergermi nel concetto di fine, di principio, di circolarità.

Due elementi saltano agli occhi: la dimensione della solitudine e quella del cerchio (nella copertina, ma anche nel finale del video di “A Pedreira” che condividi con Elsa Corre): vorresti parlarcene? 
Quando sono da sola sul palco porto con me tutto, emozioni, persone, paure, incertezze. Tutto questo mi permettere di riconoscermi, di darmi un'occasione di miglioramento. La circonferenza, figura geometrica nella quale non è dato distinguere il principio dalla fine, simbolo di eternità e di perfezione, movimento circolare, il concetto di ciclicità determina anche un limite separatore tra l'interno definito e l'esterno
infinito. Il simbolismo del Cerchio è strettamente legato al luogo sacro dove si concentrano le energie materiali e spirituali, è l'evocazione del rituale, è il simbolo della Donna. È condivisione e tanto altro. Sono sempre stata attratta dal cerchio ed anche quando lavoro da sola immagino intorno me un "portale".

Qual è il tuo rapporto con i diversi strumenti che suoni nell’album?
Non nascondo la difficoltà a convivere con la dualità scaturita dall'istinto primordiale del canto e l'utilizzo di elettronica e strumenti di supporto. L'incontro tra queste due realtà, mi spinge però a rinnovare continuamente le mie creazioni o le mie interpretazioni.

Come ti sei avvicinata alla loop station e che uso ne fai nel disco e dal vivo? 
L'utilizzo che ne faccio è esclusivamente di supporto ai brani che porto in scena, è accessorio ed essenziale ma pensato per arricchire alcuni momenti. Nell'album vi è il medesimo principio ma in maniera naturale, non ho utilizzato loop ma registrato le mie voci.

"Fimmana de mare" è un tema autobiografico? In che modo è fonte di ispirazione questo mare, da 
sempre luogo di connessioni, di apertura verso l’altro ma anche di tragedie immani e di egoismi nazionalisti?
“Fimmana de mare” è un concetto di comunità che include. Si manifesta quando gli uomini partono per le guerre, quando si raccoglie mentre gli uomini cacciano, quando si emigra su un gommone, quando si può governare la corrente nonostante tutto, quando si festeggia insieme, si vive e si canta senza forzatura alcuna, da Elena di Troia fino alla donna del Mali che non ha mai visto il mare e ne avrà per sempre un ricordo traumatico.
 
Riprendi la celebre “Luna Otrantina” di Daniele e Rina Durante. Che rapporto hai con il folk revival storico del Salento?
Sono praticamente nata nel folk revival, Siamo coetanei e dovrei rispondere a questa domanda tra una ventina d'anni!
 
A cominciare dal titolo dell’album, sei attratta esteticamente e musicalmente dai “Finisterre”, mediterranei e celtici?
Si, ne sono attratta. Fin dove è arrivato l’Impero Romano, e oltre, sono inevitabilmente condizionata dalla cultura occidentale che ci circonda. E dai limiti territoriali che essa impone...
 
Apri orizzonti autoriali differenti, riprendendo Enzo Avitabile, Nusrat Fateh Ali Khan e Victor Jara. Cosa li accomuna? Cosa è scattato che ti ha spinto a interpretare loro canzoni?
Queste canzoni hanno significato molto per me, e poi mi attraevano fortemente. Avitabile perché fa da filo rosso all'arte mediterranea. Ali Khan per la poetica sufi del mondo mediorientale, proprio accanto a noi. Jara, un amore forte, trasognante per l'oltreoceano e la nostra parentela rivoluzionaria.

Negli ultimi anni è nato il progetto "Coro a Coro”, che collabora anche a “Leuca”: un laboratorio corale al femminile che raccoglie molte cantanti. Ci puoi raccontare questa esperienza di didattica e condivisione?
Il coro a coro pone come obiettivo valorizzare il concetto di genere e la multiculturalità, utilizzando come bandiera la propria voce. È una delle esperienze più entusiasmanti della mia vita, che mi formano quotidianamente. Il laboratorio è in continua evoluzione, e diviene anche un live pieno di energia condivisa, cultura e svago.

Quali sono i progetti che hai attualmente in cantiere?
Vorrei coltivare ancora di più ciò che già faccio, vorrei collaborare con molte realtà tenendo vivo il mio desiderio di condivisione.


Alessio Surian, Salvatore Esposito e Ciro De Rosa

Rachele Andrioli – Leuca (Finisterre, 2022)
Il fascino del “Finibus Terrae” alimenta questo nuovo progetto di Rachele Andrioli, cantante, autrice e percussionista: primo disco solista dopo tante condivisioni in gruppo e in coppia. L’estremo lembo del Salento, dove i mari si incontrano e si scontrano, è il punto privilegiato di osservazione, ma anche la metafora della comunicazione tra terre e genti che porta con sé un senso di sospensione e di mutevolezza.Voci, scacciapensieri, tamburi a cornice, corde e archi (il violoncello di Redi Hasa) danno vita a un racconto intimo e corale al contempo che è anche evocazione del rito ed “espressione intima dei sentimenti”. Un marranzano apre “Te spettu”, entrano voce e tamburi a fissare la cornice ritmica e linguistica salentina del canto che narra di una donna il cui marito è emigrato, il violoncello di Hasa alimenta la tensione dell’attesa e le voci femminili in coro (Coro a Coro) conferiscono un profondo respiro femminile nella parte finale del brano. Nella prossimità fonetica e semantica tra “amareggiata” e “mareggiata” è racchiusa appieno la poetica di Andrioli: il motivo (“L’amaraggiata”) riprende il tema delle migrazioni, procedendo in forma di call & response con una fisionomia subsahariana (e la solidità portata dalla chitarra acustica baritona di Valerio Daniele. Come nei suoi recenti spettacoli dal vivo, Andrioli (voce, canto armonico e tamburi a cornice) è sola nella minimale ma intensa “Preghiera del capo”. La successiva “Fimmana de mare”, primo singolo che ha fatto da apripista all’album, si muove su percussionxi (tamburi a cornice, darbouka e battito di mani) e procedure polifoniche (quattro voci femminili che si uniscono a Rachele). Il violoncello di Hasa (che ha curato l’arrangiamento) puntella una versione intima di “Luna Otrantina”, classico di Daniele e Rina Durante: è un modo giusto e partecipato di connettere lo storico revival salentino con la contemporanea sensibilità musicale del tacco d’Italia. Di “De finibus terrae”, Andreoli condivide la scrittura con la poetessa salentina Eleonora Ines Nitti Capone. Qui, è il Coro a Coro che si unisce alla cantante in un motivo che nelle prassi canora richiama il mondo galiziano (un altro finisterre) e le polivocalità bulgare. “Dove cresce il noce è nata la mia voce”, si canta nell’incipit della canzone, evocando la memoria dei suoi primi passi da cantante, in un passaggio si cita il movimento coreutico salentino (“Balla nina”) e si esprime il tributo al patrimonio arboreo della sua terra. “Leuca” è in antitesi con la coralità del brano precedente: Andrioli canta in solo giocando sul moltiplicarsi della sua voce. In solitudine è anche per “Tutt’eguale song’e criature” di Enzo Avitabile, con cui la cantante si allontana dai luoghi nativi. Per contro, la coralità ritorna in “Mast Qalander” dell’immenso Nusrat Fateh Ali Khan (dove c’è anche la darbuka di Marta Maggioni) con cui il viaggio prosegue fino a raggiungere l’America Latina per “Manifiesto”, canzone di Victor Jara che calza a pennello con il timbro dolce e potente della cantante che ha scritto un testo suo in italiano ispirato direttamente all’originale dell’indimenticato autore cileno. La circolarità aperta da “De Finisbus terrae” si chiude nella plurilingue “Finisterrae”, che vede la partecipazione di altre due donne dei “bout du monde”, la bretone Elsa Corre e la galiziana Ugia Pedreira, il Coro a Coro e le corde di Maurizio Pellizzari (saz e kamaléngoni). 


Ciro De Rosa

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