Paolo Benvegnù – Delle inutili premonizioni. Vent’anni di misconosciuto tascabile Vol.2 (Officine della cultura/Materiali Sonori, 2022)

Un anno fa, avevamo lasciato Paolo Benvegnù alle prese con “Delle inutili premonizioni. Vent’anni di misconosciuto tascabile Vol.1”, una sorta di breviario poetico nel quale rileggeva dodici brani del suo songbook in una nuova ed affascinante veste acustica. A breve distanza da quest’ultimo, lo ritroviamo con il secondo capitolo di questo progetto, finanziato con un una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso, e nato dall’esigenza di fare ritorno alla propria essenza musicale, alla passione per la new wave che ha rappresentato e rappresenta una importante fonte ispirativa. Insomma, se il precedente era stato una summa del Benvegnù “in cammino”, questo nuovo album è il racconto dei primi passi, della partenza con tutto l’insieme di ricordi, riferimenti, radici, ascolti e vita. In questo senso, a sintetizzare lo spirito che anima l’album è molto eloquente è la scelta del sottotitolo “A Collection Of Oldies” che suona come un invito a sfogliare con lui il libro dei ricordi per immergersi in un viaggio a bordo di una ideale macchina del tempo. Ad accompagnare Paolo Benvegnù (voce, chitarre e sintetizzatori) troviamo i fidati: Luca Baldini (basso), Gabriele Berioli (chitarra), Daniele Berioli (batteria) e Saverio Zacchei (trombone) che contribuiscono in maniera determinante alla brillante definizione del sound. Suggestivo è l’ascolto del disco, destrutturare la tracklist e seguire l’ordine cronologico in cui hanno preso vita i vari brani riletti per l’occasione dal cantautore milanese. Tutto ciò, ci consente di cogliere le diverse sfumature con cui i brani vengono riletti in rapporto allo sviluppo della scena new wave a partire dagli inizi degli anni Settanta. Si parte, dunque, con la superba resa di “Do the strand” dei Roxy Music di Bryan Ferry, Phil Manzanera e Brian Eno impreziosita dall’intreccio nervoso delle chitarre elettriche e sostenuto da potente sezione ritmica. Dal 1980 arrivano ben tre brani con “The puppet” di Echo And The Bunnymen proposta con una splendida dicotomia fra i riverberi languidi delle chitarre e una linea di basso desertica, una dilatata “Atmosphere” dei Joy Division giocata sull’arpeggio della chitarra elettrica in cui si inserisce una malinconica linea melodica di trombone, e “To cut a long story short” degli Spandau Ballet, meno new-romantic e più incisiva dal punto di vista ritmico con la potente linea di basso a sostenere la chitarra elettrica. Le trame vorticose delle chitarre elettriche e il trombone incorniciano “Mexican Radio” dei Wall of Voodoo del 1982, mentre dal 1983 arrivano altri tre brani indimenticabili ovvero una nervosa “Change” dei Tears for Fears con una incessante sezione ritmica ed un dedalo di elettronica quasi frastornante, una glaciale “Blue Monday” dei New Order e la ripresa in chiave noir di “Hold back the dream” di Jim Carroll con le distorsioni delle chitarre a scorticare una plumbea linea di basso addolcita dagli interventi del trombone. “Heaven” dei The Psychedelic Furs ci porta nel 1984 fra chitarre dai riverberi taglienti, bassi profondi e synth, mentre dal 1998 arriva quella piccola delizia che è la misconosciuta “Royal Sucker” dei belgi Venus, una danza sferzante di chitarre, synth e bassi oscuri. Arriviamo, poi, nel 2011 con “I spit roses” che omaggia il genio totale di Peter Murphy del periodo post-Bauhaus, e si snoda lungo affreschi acidi tratteggiati dalla chitarra elettrica, da un basso ruvido e dalle galassie aperte da synt e trombone. Non manca un tributo alla scena new wave italiana con “Hotel Plaza” (“Amo i tuoi fiori come nevrastenie”) da quel gioiellino che era “J’accuse… amore mio” del 1980 dell’immenso Faust’O. Benvegnù ce ne regala una versione tersa, aperta dai sintetizzatori e scandita da un basso avvolgente, forse meno nervosa dell’originale, ma ugualmente densa. Insomma, questo Vol.2 è un disco che merita un enorme plauso, consegnandoci non solo una importante lezione di storia della musica, ma anche un disco per nulla scontato sotto il profilo concettuale e musicale. Del resto, sarebbe stato molto facile pescare a piene mani tra le hit di Talking Heads, Cure, Television, Siouxsie and the Banshees e Simple Minds e, invece, Paolo Benvegnù ci ha regalato una serie di perle, forse poco note, ma senza dubbio da riscoprire attraverso le sue magistrali interpretazioni e gli eleganti arrangiamenti confezionati per l’occasione. 


Giuseppe Provenzano

Posta un commento

Nuova Vecchia