Giuseppe Picchi, suonatore popolare “glocale” acclamato sui palchi europei

Una vita tra campagna ed esecuzioni spettacolari
Al momento sono in corso ricerche per approfondire la conoscenza dei dati anagrafici. I testi da noi finora consultati permettono di desumere che Picchi fosse nato intorno al 1830-31; la data di morte non è ancora conosciuta. Gli ultimi riferimenti biografici (a noi noti) sono relativi al 1866, anno in cui si sposò con una ragazza milanese di diciotto anni, e al 1867, anno in cui sono state accertate sue esecuzioni al Teatro Municipale di Piacenza e, successivamente, in quello di Vicenza. Rispetto al matrimonio è stato scritto che «… Il parroco cantò messa solenne, durante l’offertorio Picchi eseguì le variazioni sul “Carnevale di Venezia”, mentre alla fine seguì la Marcia reale (Il Pungolo, 24.11.1866)».
Picchi nacque nel borgo di Pecorara Val Tidone. Ben presto la famiglia si trasferì a Sant’Albano di Bobbio (Val di Nizza) e in seguito, quando Giuseppe aveva tre anni, giunse a Milano, nel citato borgo di Crescenzago (sulle rive della Martesana), immortalato dal pittore Domenico Asperi alla fine del Settecento.  
In diversi testi, per motivi non precisati, Picchi venne erroneamente citato come suonatore-contadino/pastore sardo. Inoltre, venne segnalato come costruttore nell’ “Index of Musical Wind-instrument Makers”, di Lyndsay Langwill.  Notizie più precise sono contenute in due contributi di Attilio Repetti (“Bollettino Storico Piacentino”) scritti, nel 1944 e nel 1945, con i seguenti titoli: Un piacentino abilissimo suonatore di zufolo: Giuseppe Picchi; Ancora di Giuseppe Picchi, il “Cieco di Bobbio”. È verosimile che Repetti riprese numerose informazioni biografiche da un nutrito articolo di Luigi Galli, pubblicato ne “Il Cispadano - Giornale di Scienze, Lettere, Arti e Industria”, il 22 marzo 1855. Egli elogiò senza risparmio le doti del suonatore lombardo, dopo averne udito le esecuzioni presso il Teatro Comunitativo di Piacenza. Tra le utili informazioni fornite da Galli, evidenziamo l’abitudine del Picchi ad ascoltare le musiche eseguite dalla banda locale e dall’organista della chiesa, che poi riportava a orecchio sul proprio flauto, suonato con passione e impegno.
Rapetti informò che il suonatore, dall’età di sette anni, ebbe modo di imparare su “… uno di quei zuffoli di legno tornito … dotati di soli tre fori che si potevano acquistare nel secolo scorso dai comuni banchi di fiera per la tenue moneta di cinque centesimi”. Da solo imparò a suonare “… e inconscio del grado di perfezione a cui era salito, prese a ramingare di casolare in casolare, di villa in villa, mendicando l’obolo o un tozzo di pane”. Il vicentino Antonio Poletti, nei testi talvolta citato come professore di fisica e meccanica, comprese il suo talento e convinse il suonatore a studiare musica e il “clavicembalo”. Ciò gli permise di «… suonare a un tempo lo zuffolo con la mano destra e ad accompagnarsi sulla tastiera con la sinistra». Sempre secondo le informazioni riportate da Rapetti, Picchi iniziò a calcare le scene a Milano, presso il Teatro Re, nel 1854. Da allora, si esibì in numerosi teatri della regione e della Penisola. Veniva fatto suonare soprattutto negli intermezzi di azioni teatrali. Presto la sua fama si diffuse, per cui venne invitato a suonare anche all’estero. Strepitoso successo ebbe a Londra, nel 1856, dove fu acclamato e recensito da diversi importanti giornali. In “The Illustrated London News” venne riportato un ritratto serigrafato. 
Nel contributo scritto da Guizzi, sono state inserite diverse riproduzioni di locandine e manifesti dei concerti di Picchi, in alcuni dei quali è possibile vedere la figura del suonatore e del suo mentore, talvolta nominato come «caval. Poletti, prestidigitatore del Palazzo di Cristallo di Londra», capace di dare «… esperienze di magia naturale, senza alcun apparecchio». In altre locandine, viene riportata la litografia del flauto usato nei concerti. 
Guizzi e Biella hanno potuto appurare che il flautino di minute dimensioni (da alcuni, definito “tibia rusticale”) era sicuramente del tipo di quelli realizzati nella Valle Imagna, dove “sivlì” viene denominato il flauto a tre fori, “sivlòcc” quello a sette fori.  Di tali strumenti, Guizzi ebbe modo di scrivere, sin dai primi anni Ottanta, quando stava organizzando con Roberto Leydi la “Mostra degli Strumenti Popolari” (1983-1985), di cui è stato scritto nei “Quaderni di Etnomusicologia” (“Culture Popolari”, numero 4).  
La Valle Imagna vanta una lunga tradizione artigianale, soprattutto nel campo della lavorazione del legno e della costruzione di strumenti a fiato (per questo da taluni è denominata la “Valle dei sifoi/sioi”). In merito, pare opportuno citare il saggio di Piergiorgio Mazzocchi e Valter Biella, “I flauti della Valle Imagna” (ARPA, Bergamo, 1985). Tra gli artigiani, Guizzi citò in particolare Antonio Quarenghi (di Rota Dentro) e Fortuno Angelini (di Brumano), dal quale Valter Biella riuscì ad apprendere i segreti costruttivi degli strumenti a fiato locali.  Avendo come riferimento quanto scrisse Rapetti, Guizzi evidenziò che Picchi era consapevole dell’inadeguatezza degli strumenti da bancarella, in quanto se ne fece costruire cinquanta solo per lui. Dopo aver subito il furto di tali strumenti, scrisse Rapetti, se ne «… fece fabbricare altri 2000, fra cui ne scelse 18 di varie tonalità che conservò poi gelosamente». Come ricercatori pensiamo che duemila flauti costruiti appositamente per un suonatore “semi-professionista” di successo non possano essere volatilizzati. Verosimilmente, conducendo approfondite ricerche locali potrebbe essere ancora possibile scoprire importanti novità rispetto a tali strumenti. Uno di questi manufatti organologici venne donato dal Picchi alle Istituzioni musicali di Bologna, a seguito di una delle sue acclamate esecuzioni. Ora è conservato presso il Museo dell’Accademia Filarmonica della stessa città. Negli anni in cui il suonatore si esibì pubblicamente, in Inghilterra, alcuni artigiani, sull’onda dell’enorme successo ottenuto dal Picchi, decisero di costruire un mini flauto a becco, che poi denominarono, come scritto in precedenza, “picco pipe”.  Rispetto alle informazioni iconografiche, Guizzi riuscì a verificare che presso la “Raccolta Civica Bertarelli” di Milano è presente una nutrita cartella visiva interamente dedicata al suonatore lombardo. Una stampa che merita menzione proviene dalla litografia Pietro Bertotti di Milano, realizzata su disegno di Giuseppe Elena, nella quale Picchi è intento a suonare in ambiente agreste, accompagnato dal fratello alla chitarra (3-4 corde?), davanti a due bambini e a una donna con in braccio un lattante. 
Nel contributo del 2009, l’organologo non si limitò a mettere in ordine i dati storico-musicali e strumentali, ma volle integrare una serie di considerazioni generali, riferibili a ricerche organologiche (Dore, Sachs, Baines, Galpin ecc.) e a riflessioni storico-antropologico-sociali, utili per meglio comprendere i motivi relativi al successo del suonatore popolare in ambito borghese e teatrale-operistico. Dato il periodo in cui fu attivo, non vi sono registrazioni relative alle esecuzioni strumentali di Giuseppe Picchi, ma solo recensioni sparse in diversi giornali locali, nazionali e internazionali. Rispetto al successo, oltre alla bravura tecnica ed espressiva (pare riuscisse a ottenere un’estensione melodica di tre ottave oltre a una serie di suoni imitanti fenomeni naturali), devono aver contribuito la condizione patologico-visiva del suonatore, le sue umili origini, il gusto per il rustico e l’esotico (adattato agli stilemi del “mondo urbano e borghese”), la tendenza a spettacolarizzare un suonatore popolare atipico e (non ultime) le caratteristiche morfologiche del minuto aerofono (lungo 8-10 cm), poco conosciuto e utilizzato solo in ambito agreste-pastorale. Picchi si era formato secondo tradizione orale, tuttavia per essere accettato e ben valutato dal pubblico dell’epoca, nei concerti si cimentò in trascrizioni di arie di successo tratte da opere melodrammatiche, scritte da compositori italiani come Verdi, Rossini, Bellini e Paganini.
Grazie alle meritorie ricerche condotte da Febo Guizzi, Valter Biella e Piergiorgio Mazzocchi, molte informazioni etnomusicali sono emerse nel corso degli ultimi decenni sul musicista lombardo e sulla costruzione dei flauti della Valle Imagna, ma riteniamo ci siano alcuni aspetti della vita biografica di Giuseppe Picchi che meritino di essere approfonditi.  Da cui l’invito, soprattutto ai giovani ricercatori, per indagare e scartabellare adeguatamente negli archivi, nelle biblioteche e sul territorio. Potrebbe essere un modo per dare risalto all’ormai dimenticato suonatore lombardo, rivitalizzando al contempo le ricerche condotte da Febo Guizzi, i cui studi continuano a brillare nel circoscritto cielo dell’organologia italiana. 

Paolo Mercurio

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