Quattro silenzi discografici pesanti

Il secondo silenzio è quello di Jan Garbarek
. Dura da 13 anni. “Live At Dresden” risale al 2009 e la registrazione è addirittura antecedente di due anni. Non si può non notarlo anche in conseguenza della passata abbondanza di produzioni ECM (4). L’etichetta ha collocato negli anni sul mercato alcuni live, però il trio Magico (2012) risale al 1981, la partecipazione al concerto di Atene di Eleni Karaindrou (2013) al 2010 e quella all’Illiard Ensemble (2019) al 2014. Dunque, nessun disco originale ha seguito “Elixir” in duo con Marilyn Mazur (2008) dopo una strepitosa serie di capolavori sciamanici alla ricerca dello spirito del Nord. Davanti alle terre che hanno originato quel suo suono unico, che qualcuno ha definito essere in grado di  “disseppellire fantasmi viventi”, è impossibile non cadere in totale soggezione. Sono luoghi dove la Natura impera e viene chiamata l’Anticamera di Dio, i paesaggi esasperano al massimo la percezione della dimensione spirituale della realtà. Garbarek ha rappresentato un cantore moderno delle melodie dei ghiacci e le ha trascese, dapprima inspirando e poi espirando i suoi strumenti a fiato e consentendo in questo modo al tempo di vivere all’interno della musica che ne sgorgava. Partendo dalla tradizione medievale norvegese il suo stile e arrivato ai suoni mediterranei e balcanici dimostrando con i fatti di non appartenere esclusivamente a un paesaggio sonoro definito ma di essere un vero musicista folk contemporaneo. Incorporando nelle sue note delle sfumature epiche gitane, barocche, ispaniche, islamiche o arabe ha condiviso appieno lo spirito che guidava colui che in epoca moderna ha più di tutti e prima di tutti animato e impersonificato questa universalità: Don Cherry. Fu proprio lui negli anni Sessanta ad indirizzarlo verso la musica popolare delle proprie origini, anche se alla gente non interessava e alla radio non veniva trasmessa. Quelle composizioni così piene del “pianto malinconico del Nord” che sono il blues di questa parte d’Europa. Alla fine, anche la musica di Garbarek, inneggiando al cuore nudo anche se inquieto, allo spirito circolare e rituale, ha unito luoghi geograficamente distanti in una “comunione completa”. Pure quell’immagine di un Nord desolato e spettrale è stata sconvolta dalla “misteriosa limpidezza” dei suoi suoni. Nell’ambiente gelido che genera questa esigenza di vicinanza e condivisione, la voce del suo sassofono ha ammantato lo spazio interiore di chi lo ha ascoltato di una tale abbondanza di talento melodico da diventare esso stesso sciamano. 

Il terzo silenzio è quello di Annette Peacock
. Dura da 15 anni. Dal disco “4 Emilia-Romagna W/LV”,  lodevolissima iniziativa italiana che la portò su invito alla residenza creativa dell’Alboreto di Mondaino, dal 18 al 30 giugno 2007. La conturbante bellezza di questa enigmatica donna è sempre stata sconvolgente. Da quando convinse il marito Gary Peacock a non lasciare Albert Ayler per Miles Davis, a quando autodidatta componeva musica per il secondo consorte Paul Bley, oppure quando i ritratti glieli disegnava la moglie di Robert Wyatt, Alfreda (5). Ci fu un tempo in cui poteva permettersi di suonare in topless (6) o di mettere il proprio fondoschiena come copertina di un LP (7). In precedenza, era stata anche prima attrice olografica in un gallery show di Salvador Dalì a Broadway. Il tempo trasforma ma il tempo per Annette non ha presenza. La sua poetica afferma di ignorarne gli effetti, di rifiutarne l’obbedienza a leggi e influsso, preferendo esserne sorpresa più che schiava. La percezione del tempo è assolutamente soggettiva, quella della Peacock si esprime unicamente attraverso la sua musica dove è “vibrazione in movimento incorniciata dal silenzio”. I pochi dischi e concerti realizzati nel corso della lunga carriera dichiarano piuttosto la fede nel nontempo. Sono immersi in una musica intima pressoché priva di mappe emozionali da seguire. 
L’inafferrabilità di Annette è totale, come la sua ironia, non a caso negli anni ottanta aveva chiamato la propria casa discografica (dedita unicamente alla auto-produzione dei dischi a suo nome) Ironic Records. Uno di loro recava il titolo “Non Ho Sentimenti”. Ardito da leggere, impossibile da credere. Anche perché dalla storia con Paul Bley nacque a Roma, Apache Rose che a sei anni suonava il piano (8) all’interno del primo LP solista “I’m The One”, nel breve brano finale che guarda caso si intitolava “Mi Senti Mamma?” E tra quei solchi la sua vocina si ode chiederglielo più volte. La ragazza dev’essere poi cresciuta affascinante come la madre, se è vero che nel 1991 i Red Hot Chili Peppers le hanno dedicato un brano sessualmente assai esplicito. Il non misurare il tempo può rendere liberi perché scorre alla velocità del sogno e le stelle vengono rivestite di fantasia: “Il nemico reale è il tempo che tiene il tempo su di te con l’imperativa prospettiva dell’inevitabile”(9). Lontanissima da ogni compromesso col mercato, Annette vive da molti anni in un bosco a Woodstock . “L’amore è un mito, un’illusione che sembra reale. Una canzone estiva se n’è andata con l’arrivo dell’autunno e il mio cuore non batte affatto”.

Il quarto silenzio è quello di Tom Waits
. Dura da undici anni. Nessuno lo presumeva così lungo, si può ben dire che all’uscita dell’ultimo disco “Bad As Me” era assolutamente “sulla cresta dell’onda” e apprezzato ovunque da sconosciuti e colleghi. La copertina di quest’ultimo disco (come dei precedenti Bone Machine e Blood Money) era opera di Jesse Dylan, il primogenito di Bob. E Leonard Cohen nell’inverno 2008 ne parlava così: “Tom Waits che canta, lo sento, sono in un teatro e ho fatto uno spettacolo davanti a un folto pubblico, non riesco a vederlo, sono nel mio camerino ma lo sento, la sua musica è così bella e originale, tanto migliore della mia...magari potessi farla anch'io. Poi comincia a cantare, magnifico, scendo per ascoltarlo, mi aspetto di vedere una folla adorante ma canta in un piccolo teatro pieno a metà...ce ne andiamo insieme, mi mette il braccio intorno alla spalla, ha un bell'aspetto, un po' malconcio, ma in pieno possesso di sé.” Una miriade di canzoni con testi, musiche e voce formidabili a raccontare con quelle sue movenze quasi tetraplegiche e strumenti poco convenzionali, storie come quella di Edward Mordrake che condusse i pochi anni della sua vita immerso nella musica e con una seconda faccia femminile dietro la nuca. Un viso  dalla bocca forzatamente chiusa ma dagli occhi bene aperti e lacrimanti. Oppure come quella di Johnny Echkardt che, nato senza corpo, camminava sulle mani ma seppe diventare nonostante tutto un pittore, pianista e attore. O ancora quella del grande uovo umano Humpty Dumpty che sa che nella sfera onirica tutto è possibile ma niente esiste e che bisogna avere la forza di immaginare tutto quel che si ama e non temere ciò che si cela dentro di noi. E così anche se il destino è di sparire al risveglio, realtà e sogno si sovrappongono perché la vita potrebbe anche essere irreale, come l’immagine sfuocata che talvolta Tom propone di sé. Tutto ciò è assai poco “americano” e non stupisce dato che le origini di Waits sono irlandesi da una parte e norvegesi dall’altra. Senza considerare che la sua genetica materna è composta esclusivamente da stimati professionisti e quella paterna al contrario da disadattati, alcolisti o affetti da psicopatologie. Forse anche da questo trae origine questa irresistibile capacità di commuovere fin nel profondo con una “voce da regno dei più o da festival del sottosuolo, così piena di granchi, di ragni, di rane”, come cantava Claudio Lolli nel lontano 1977. Ogni canzone di Tom Waits contiene un mondo di ombre e di inquietudini, il suo buio non nasconde mai il vuoto, ogni personaggio e ogni nota narrano meraviglie dall’ultimo derelitto all’angolo fino al Gesù che ammonisce “Il cuore è il paradiso ma la mente è l’inferno”. Speriamo che prima o dopo tornino da noi, Tom Waits...e anche Gesù!

Flavio Poltronieri

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(1) Il cui primo brano “Stay Tuned” è una composizione di Anja Garbarek, figlia di Jan.
(2) Si tratta del film thriller-horror psicologico “Don’t Look Now” (1973), tradotto in italiano A Venezia...Un Dicembre Rosso Shocking, tratto da un libro di Daphne Du Maurier, con protagonista Julie Christie grande amica di Alfreda, regia di Nicolas Roeg e musiche di Pino Donaggio.  
(3) “Free Will And Testament”, “Shleep”, 1997.
(4) L’etichetta discografica ECM ha realizzato moltissimi dei dischi e delle collaborazioni di Jan Garbarek. Manfred Eicher, dopo aver prodotto un tributo alla musica della Peacock ad opera del trio di Marilyn Crispell (1997) ha insistito lungamente per avere in catalogo anche un disco di Annette riuscendovi infine nel 2000 con “An Acrobat’s Heart”.
(5) Il disco in questione è “I Have No Feelings”, 1986. Interessante notare che nel ritratto di copertina la mano non è rifinita, cosa di cui l’autrice del disegno si scusò. Ricordiamo che Robert Wyatt partecipò al concerto al sintetizzatore della coppia Paul Bley/Annette Peacock alla Roundhouse, Chalk Farm Road di Londra a cavallo degli anni 70. Durante il decennio seguente Annette che viveva dal 1973 nella capitale inglese, frequentava spesso col terzo marito Jeremy, la coppia Robert e Alfie a Twickenham, i due saranno anche padrini della loro figlia. 
(6) Alla Town Hall di Londra nel 1972.
(7) “Been In The Streets Too Long”, 1983. 
(8) Anche Annette iniziò a suonare il pianoforte della madre di nascosto all’età di cinque anni. 
(9) Tratto da Annette Peacock di Flavio Poltronieri, Musiche N°8, estate/inverno 1990, Registro Stampa Tribunale di La Spezia n° 14 del 3-10-1989. 

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