Massimo Ferrante – Canzuni (Felmay, 2021)

Il nuovo album di Massimo Ferrante si intitola “Canzuni” e si incastra alla perfezione nella dimensione sognante ma anche pragmatica di un musicista che ha tenuto sempre la testa alta, leggendo e interpretando la storia di tutti, ma soprattutto cantando la sua storia. La scaletta comprende brani che richiamano fatti storici e recenti ma, soprattutto, personaggi fondamentali della nostra cultura: Pier Paolo Pasolini, Ciccio Busacca, Matteo Salvatore, Otello Profazio, Rina Durante, Ignazio Buttitta ecc. I brani raccolti nell’album sono proposti con voce e chitarra: nulla è lasciato al caso, così come nulla può essere frainteso. Sono stati rintracciati nell’archivio di tutti, quello delle canzoni popolari italiane (si potrebbe dire suditaliane, ma non è fondamentale ai fini della comprensione dell’album), e riconducono noi ascoltatori a un patrimonio musicale e “letterario” inestimabile. Che comprende storia – anzi storie multiple e spesso coerentemente sconvenienti – ma anche politica, relazioni, potere, sfortuna, forza, animo. Insomma, l’insieme di ciò che definisce, in modo più o meno esplicito, un lungo processo culturale. Che, grazie al cielo, non è stato soltanto scritto. Ma anche raccontato da chi non avrebbe potuto farlo in modo diverso. Cantato, da chi ha creduto nell’efficacia del ritmo e della melodia. Ricantato, ritrascritto, ricollocato da chi, come Massimo, rimarca la necessità di una lettura rinnovata, che assume sempre i tratti di un’azione poetica, ovvero politica. Ascoltando “Canzuni” abbiamo sin da subito capito che c’era molto di cui poter parlare, al di là della forma che i quattordici brani selezionati hanno assunto in questa nuova raccolta del musicista di origini calabresi. Per questo abbiamo pensato di lasciare all’autore lo spazio di un vero e proprio approfondimento, dal quale è emersa una buona parte delle componenti più rappresentative dell’album. Il risultato è piacevole, oltre che stimolante, perché definisce in modo più netto lo spazio entro cui si genera il progetto stesso di “Canzuni”. 
Allo stesso tempo ricombina l’ordine dei riferimenti, allineandoli l’uno con l’altro attraverso lo sguardo (analitico ma soprattutto) poetico di un artista che ha dei punti di riferimento chiari e dichiarati. Insomma, ancora una volta Massimo Ferrante ha dimostrato di disporre delle migliori parole per raccontarci il suo racconto. E noi ascoltatori ascoltiamo ammirati, ancora una volta (per fortuna), la versione cantata di storie poeticamente vere. 

“Canzuni” riconduce tutto a voce e chitarra, con splendide melodie e testi straordinari. Già questo potrebbe bastare per una presentazione di questo tuo nuovo album. Fissa un momento particolare del tuo percorso e anche una dimensione particolare, entro cui ha preso forma il progetto?
“Canzuni” nasce dall’esigenza di fare qualcosa a livello artistico-lavorativo in un periodo molto difficile per chi, come me, vive con i proventi che arrivano  solo dalla musica. Eravamo in piena pandemia e, dopo un periodo di smarrimento, avevo incominciato anche una collaborazione con una cooperativa sociale che si occupa di distribuzione di prodotti della terra (favorivo l’incontro tra domanda e offerta). Una cosa che mi piaceva ma… mancavano i concerti, la musica. La cosa più semplice è stato pensare a un lavoro che coinvolgesse solo me: chitarra e voce, che oltretutto era assente nella mia produzione discografica. Per me la cosa più naturale: sono nato così, artisticamente parlando. Intorno ai 25 anni ho incominciato a suonare nei locali la canzone d’autore e i canti popolari accompagnandomi con la sola chitarra. All’epoca si portavano molto le basi, io le odiavo. Ho fatto un crowdfundig su Produzioni dal basso che è andato oltre le aspettative e ho registrato al Mareká studio di Napoli con l’amico, grande ingegnere del suono e strepitoso musico, Piero De Asmundis (vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio…).

Nunzio Ruggiero, nelle note introduttive all’album, richiama la tradizione del cantastorie ma anche quella del cantautore. Senza approfondire la questione e evitando una sua trattazione tecnica su cui comunque sarebbe interessante riflettere con un artista come te, si potrebbe dire che sono figure accomunate dalla passione per il racconto. 
Che in alcuni casi sembra anche un’urgenza, e quasi sempre un dovere. Sei d’accordo? E quali differenze riscontri tra questi due modi di narrare?
Parlando di un lavoro chitarra e voce è facile l’accostamento alla figura del cantastorie e al cantautore. Per quanto mi riguarda non sono mai stato portato alla scrittura, ovvero ho provato a scrivere qualcosa ma il risultato non mi ha mai convinto e, forse sbagliando, mi sono impegnato  sempre e solo nella interpretazione delle canzuni. Nel mio “riproporre” sono stato sempre attratto dai testi più che dalla musica e mi hanno sempre affascinato i vecchi cantautori (De Andrè, Guccini, Tenco, Bertoli, per citarne alcuni), ma anche Ciccio Busacca, Matteo Salvatore, Otello Profazio, Domenico Modugno, che forse è quello che più incarna la sintesi tra il cantastorie e il cantautore. Non ho mai amato, nell’arte in genere, gli “esercizi di stile”, per cui ritengo che i cantautori così come i cantastorie abbiano quasi un dovere morale di raccontare la vita del popolo. Quindi l’arte non fine a sé stessa ma in funzione sociale. Ho inserito in “Ricuordi” (album pubblicato con Felmay nel 2006), facendo una forzatura rispetto a un lavoro su canzoni tradizionali, “Rosso Colore” di Pierangelo Bertoli, perché ho sempre pensato che quella canzone potesse essere stata scritta da Matteo Salvatore o qualsiasi atro cantastorie.

Ci sono brani in scaletta che percorrono delle direzioni ben precise. Li hai selezionati seguendo un progetto definito, oppure sei stato trascinato dai richiami, dai “mondi”, dalle relazioni che evocano? MI riferisco, ad esempio, a “L’occhiu di lu suli”, in apertura dell’album, oppure alle due “strine”: “Strina du judeo” e “Strina campagnola”, in relazione alle quali emergono storie, informazioni e
nomi importanti nell’ambito della cultura popolare.
“Canzuni” è pensato come una sorta di “il meglio di… per chitarra e voce”. Le tematiche trattate sono quelle che mi stanno più a cuore, quelle che sento più vicine. Amo i testi delle canzoni, più che la deriva ballereccia (fatemi passare il termine) della nuova musica popolare o presunta tale. “L’occhiu di lu suli” nasce dalla esigenza di un calabrese di cantare una tammurriata. Era il periodo della mia collaborazione con Daniele Sepe. E abbiamo pensato di prendere dei versi del Canzoniere Italiano di Pier Paolo Pasolini. Ho scelto quelli che più mi piacevano nell’ambito della sezione Calabria, senza tenere conto dei paesi di provenienza. La cosa simpatica, per modo di dire, è che condividendo il palco con un artista calabrese sono sbucati fuori gli stessi testi con le stesse sequenze di strofe, ma sotto forma di tarantella… tradizionale. Le strine sono dei canti benaugurali che si fanno nel periodo tra Natale e Capodanno nel cosentino. Ne ho registrata una tradizionale con sorelle, cognati, cugini e amici nella sala parrocchiale di Joggi, il mio paese, ed è stata inserita in “Ricuordi”. Sempre nel mio paese, dove fanno un bel festival autonomo che si chiama “Joggi Avant Folk”, giunto alla XXIII edizione, ho avuto il piacere di ascoltare un poco di anni fa una strina molto particolare, inserita in uno spettacolo teatrale. Era la “Strina du Judeo”, cantata da Gerardo Vespucci. Mi piacque molto e incomincia ad informarmi sulla provenienza del canto. Era una strina di Lago (strine atipiche che si possono dividere in sociali, contestative, di denuncia, umoristiche ecc.). Questa, che è la più antica di quelle conosciute, viene universalmente accreditata al dott. Nicola Palumbo, dietro commissione di Francesco Martillotto, scritta tra il XIX e XX sec. e successivamente intitolata, appunto, “Strina du Judeo”. 
L’Università degli studi della Calabria ha pubblicato “Le strine Atipiche di Lago”, un libro di Ottavio Cavalcanti (Rubbettino Editore). Una precisazione che non risulta nel libro di Cavalcanti è che la quartultima, terzultima e penultima strofa della canzone sono state inserite agli inizi degli anni ‘70 del XX sec. da Giulio Palange, che faceva parte della Compagnia Calabrese di canto popolare, poi divenuta Collettivo Dedalus. Notizia appresa da Checco Pallone. Operazioni del genere capitano nell’ambito popolare. “La Ceserina”, che è un canto dal carcere, contiene un’interpolazione fatta per politicizzare il canto, sempre agli inizi degli anni’70 del XX sec. dal Nuovo Canzoniere Salentino di Luigi Lezzi e Rina Durante. Succede anche che si adottino titoli antichi di canzoni che contengono testi molto più recenti. Il titolo della canzone inserita nel mio lavoro, “Stu pettu è fattu cimbalu d’amuri”, che è contenuta in un disco dal titolo “La terra del rimorso” del 1979 del gruppo Pupi e Fresedde, di cui faceva parte Pino Di Vittorio , pubblicato dalla casa discografica. Divergo, è preso da una testo inserito nel libro “La Fonurgia Nova” del gesuita Athanasius Kircker del 1673. Per maggiori dettagli rimando al libro di Vincenzo Santoro “Il Tarantismo Mediterraneo. Una cartografia culturale” (Itinerari, 2021).Ritornando alle strine. La “Strina Campagnola” l’ho appresa a Piadena da Rudi Assuntino- cantante, autore, regista che viene dalle esperienze di fine anni Sessanta di riproposizione e studio del canto popolare e sociale molto vicino al Canzoniere Italiano. Portavo in giro un po’ di anni fa, e l’ho fatto anche alla Festa della Lega di Cultura di Piadena, un laboratorio sul canto sociale calabrese, nel quale avevo inserito la “Strina du Judeo” . Lui mi parlò e… cantò una strina che faceva parte di uno spettacolo curato dai compagni di servire il Popolo, il cui autore potrebbe essere Enzo Lo Giudice.

Tra i nomi importanti non possiamo non citare Ignazio Buttitta, chiamato in causa con “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali”.
Il disco l’ho chiuso con i versi del grande poeta siciliano Ignazio Buttitta. Mi sono sempre appassionato al suo modo di scrivere e non a caso ho voluto fare diventare canzone “Lingua e Dialettu”, una poesia con
cui introducevo il “popolare italiano” nell’ambito di un concerto che facevamo con un gruppo che si chiamava Quattro Quatti agli inizi del 1990-91. Il testo è stato musicato dal buon Antonello Paliotti. In “Canzuni” ho però inserito “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali”, che avevo già cantato in “Jamu” (uscito con Felmay nel 2009), riprendendo la versione di Otello Ermanno Profazio che racconta dell’assassinio, ad opera della mafia, del sindacalista Salvatore Carnevale - il quale si era battuto contro i privilegi dei latifondisti - avvenuto a Sciara il 16 maggio 1955. Mi piace ricordare anche la versione di Cicciu Busacca con musica di Nonò Salamone.

Tra i brani più suggestivi vi sono “Serenata”, “Klama” e “Melissa”. Testi e argomenti diversi, ma melodie ugualmente avvolgenti che, forse più di altre, accomunano l’immaginario musicale di cantautore e cantastorie. Sei d’accordo?
Sono d’accordo per “Klama” e “Melissa”. Non tanto per “Serenata”, ma solo perché mi piace pensare il cantautore che scrive su tematiche sociali, anche se il più delle volte non è così. “Klama” è frutto della penna del compianto Franco Corlianò di Calimera (area grecanica del Salento). Scritto in griko salentino, parla della disperazione (pianto) di una moglie per la partenza del marito, costretto ad emigrare… per ingrassare, col suo lavoro, il padrone. “Melissa”, scritta da Otello Ermanno Profazio, mi ricorda il modo di “raccontare” di Ignazio Buttitta. La canzone parla dell’occupazione del fondo Fragalà a Melissa, in Calabria, e la repressione della polizia di Scelba (ministro dell’Interno). Ci furono tre morti e quindici feriti. 
I morti furono Francesco Nigro, Angelina Mauro e Giovanni Zito. Era il 29 ottobre del 1949(lu vintinovi ottobri di lu quarantanovi). Tragedia passata alla storia come la strage di Melissa. La “Serenata” l’ho ascoltata la prima volta durante un concerto insieme a Daniele Sepe e Franco Sansalone in un club napoletano. Ce la fece ascoltare Cristina Vetrone. Esistono due serenate simili. La prima è del 1908, “Nun T’affaccià”, di L. Fragna e Di Capua, l’altra è del 1918, “‘O Festino”, di P. Vento e E. A. Mario. Quest’ultimo è l’autore della “Tammurriata Nera”. La più recente è quella di A. Ciervo, a cui mi rifaccio io.

Per concludere, e ricondurre lo sguardo dell’artista alla contemporaneità, vorrei che ci parlassi di “Pagella di scolaro in fondo al mare”, poesia di Masullo che tu hai musicato per questo album.
Come già detto, non mi sento molto portato alla composizione, ma questa è stata una vera e propria richiesta di Angelo De Falco ‘o professore dei Zezi, con cui suono e canto ormai da tredici anni. Doveva essere inserita nel repertorio “Zezesco”, ma per ora esiste solo la versione fatta in “Canzuni”. La poesia del rimpianto Aldo Masullo mi piacque subito, principalmente per la immediatezza della scrittura, senza fronzoli, quasi una non-poesia. Scritta di getto dopo quell’immane tragedia dell’immigrazione avvenuta nel Canale di Sicilia-Mare Mediterraneo - il Nostro mare nel 2015, dove persero la vita 1000 persone: donne, bambini, uomini e, tra questi, un ragazzo del Mali di 14 anni, di cui purtroppo non si conosce il nome, con la sua pagella con ottimi voti cucita nella giacchetta. Sarei felice se questa canzone diventasse di dominio pubblico e quindi cantata spesso a memoria della disumanità dilagante. Un’ultima cosa: ancora non l’ho registrata alla SIAE. 



Massimo Ferrante – Canzuni (Felmay, 2021)
Ascoltare “Canzuni” – nuovo album-raccolta di Massimo Ferrante – significa bagnarsi nel mare della musica popolare. Significa immergersi nelle acque profonde e limpide di una narrativa che continua, con audacia e fermezza, a trascrivere il presente, a rimarcarne pregi e difetti, dissipandone frivolezze e menzogne. Massimo Ferrante – che qui non ci soffermeremo a catalogare come cantautore o come cantastorie e che inviteremo a percepire, invece, come una voce decisa e chiara della canzone popolare più viva del nostro paese – ci aiuta a comprendere che, nella doppia prospettiva insita nella raccolta/elaborazione delle musiche orali, l’azione più importante è l’ascolto. Perché è qui che si deve ricondurre il processo intero della ricerca: insieme a quello della comprensione dei contenuti che vengono selezionati. L’ascolto organico, studiato, pensato, contestualizzato, presuppone sempre la ricerca. Così come, in un quadro che si definisce gradualmente dentro il canto e le parole, presuppone progettazione: un altro processo complesso al quale noi ascoltatori non possiamo certo guardare con il solo approccio analitico, ma anche con una sorta di fiducia devozionale, di adorazione, di trasporto. Perché ci conduce al godimento di un lavoro compiuto, di un racconto curato, accurato e che, qui e ora, ci può apparire (appagare perché) coerente. Lo stesso Ferrante – che, come molti in questo periodo, arriva a comporre l’album a causa della sospensione dell’attività concertistica – ci dice che il suo viaggio nasce e termina nello stesso punto, la musica popolare, ma anche che lo spazio da attraversare è praticamente infinito. Quest’altro concetto/dimensione non dobbiamo interpretarlo in termini quantitativi: questo aspetto Ferrante lo lascia, forse più di altri, in secondo piano, come ci dimostrano i “ritorni” in “Canzuni” di alcuni brani già presenti in altre sue pubblicazioni. Dobbiamo interpretarlo in termini qualitativi, in riferimento cioè ai significati che assumono, via via negli anni, gli elementi, i dati che l’artista reinterpreta nel suo assemblaggio. Come emerge chiaramente in più passi dell’intervista, Massimo Ferrante è interessato ai fili che sono stati tessuti dentro la trama larga del canzoniere popolare. E, allo stesso tempo, agli interventi (esterni e interni) che costantemente ne integrano forme e significati, a volte impoverendo e altre arricchendo il testo, ma sempre infoltendo il contenuto. Insomma, il canovaccio, sebbene sia riconoscibile, si trasmette attraverso trasformazioni significative (verrebbe da dire che non è mai lo stesso). E l’operazione di un artista come Ferrante si comprende, nella sua integrità, proprio in questo spazio vitale della canzone popolare. Non è solo una questione di contenuto. A volte è anche un merito della forma che i brani assumono nelle interpretazioni. Lo dico perché lo scorrere delle quattordici “canzuni” genera i riflessi di una grande passione, di una sorta di eccitazione pienamente trasmessa. A ben vedere questa esaltazione e questo entusiasmo convivono nelle due fasi principali del lavoro di Ferrante: la ricerca e la riproposta. E ritornano come elementi circolari nell’equilibrio di una produzione musicale diretta, basilare quanto profonda. Una volta riconosciuti come elementi fondanti del suo percorso artistico (Ferrante è spinto dalla passione dell’indagine, della documentazione, e trasmette passione attraverso un canto e una musica irresistibili), delineano un nuovo e indispensabile profilo dei brani. Che, proprio attraverso il processo dell’interpretazione, rientrano in circolo in quel canzoniere infinito. Chi ascolta l’album è attratto proprio da questa grazia, da questo equilibrio fondamentale: da un’articolazione che è liberata dal passato, perché efficacemente ancorata al nostro presente, definito qui dall’impronta unica di un artista. La dimensione sonora nella quale Massimo incastra questo procedimento è data dalle sole chitarra e voce: nulla in musica è più convincente e, allo stesso tempo, evocativo.     


Daniele Cestellini

Foto di Massimo Lazzaro

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