Max Manfredi – Il grido della Fata (Maremmano Records, 2021)

Max Manfredi tra elettronica, fate e sirene

Max Manfredi è tornato; è cambiato eppure è rimasto se stesso: la sua musica e la sua poetica della “parola” - che andrebbe studiata e spiegato usando lo stesso linguaggio simbolico che si usa nell’iconografia di una pittura – sono di nuovo con noi in questo ultimo album, “Il grido della fata”, uscito nel giorno del suo compleanno, il 7 dicembre del 2021; Blogfoolk ne ha approfittato, cercando una serie di risposte, che sono puntualmente arrivate. Ma, attenzione: sono le risposte di Max Manfredi e come se fossimo dentro un raffinatissimo gioco di posizione, ognuno ha fatto la sua mossa: al lettore lasciamo aperte tutte le infinite possibilità di senso e comprensione. 

Dove hai sentito la prima volta il “grido della fata” e come te la immagini? In realtà fa molto pensare a una sirena.
Il grido della fata l’ho sentito in un verso del poeta simbolista francese, dell’Ottocento, Gérard De Nerval. Ma era da un po’ che la fata mi prendeva di mira, discretamente: la mia canzone “Il regno delle fate” si compone già nell’album “Luna persa”, che è del 2007. Il verso in questione parla di “sospiri della santa e grida della fata”, modulate dal poeta “sulla lira d’Orfeo”. Profluvio di mitologie. Fata e sirena si sommano nella figura di Melusina, fiaba medioevale, e di Loreley, essere magico che abitava su una scogliera del Reno. Lì, col suo “Lied”, con la sua canzone, incantava i poveri marinai che venivano presi, secondo un
altro poeta, Heinrich Heine, da una “pena selvaggia”: dalla sensazione - dico io - di una appartenenza oscura e tradita, consegnandoli al destino di sfracellarsi sulle rocce, con le loro barche. Ora, la Loreley non si ferma lì: arriva fino ai cartoni animati giapponesi, alle canzoni dei Pogues, ai progetti della Marvel. Il mito trapassa i tempi, così come la canzone. Ma gli uomini non cantano “quel” canto. “Bisogna star molto cauti”, come dice la canzone (“I crauti” di Fausto Amodei). La cantilena della sirena fa presto a trasformarsi nell’effetto doppler delle sirene navali e sanitarie.

E quindi in questo lavoro, la citazione di Gérard de Nerval è puntuale o solo un’ispirazione, una fantasia che ti ha riportato nel tuo mondo “magico”?
Una provocazione che mi son fatta da solo. La fata è per me una funzione, il fattore che tiene insieme la realtà disgregandola: né realismo, né visione. Necessità della comunicazione come qualcosa di condivisibile, forse, ma non di necessariamente condiviso. Si può usare un linguaggio colloquiale anche per raccontare i sogni. I sogni non sono evasione, ma invasione.

E qual è il filo rosso che unisce le canzoni dell’album? In che arco temporale le hai scritte?
È proprio il tempo obliquo, il non tempo, quello per cui l’attimo della scrittura coincide con quello della lettura a distanza di secoli, quello per cui ogni poeta, ogni pittore, è nostro contemporaneo. Ma nello stesso tempo ha il suo “green pass” che lo colloca in un’epoca storica precisa. Le canzoni di questo album sono databili in parte a pochi anni fa, a volte a più di trent’anni fa. Sono state riprese, abbandonate, corrette, dimenticate, innestate ad altre frasi, verbali e musicali. Sono miti, appunto, racconti, fotografie, film.

Per quanto vi sia uso dell’elettronica, le canzoni hanno comunque un passo “classico” e un effetto ipnotico. Qual era la tua intenzione reale?
Rendere viva l’elettronica, che a torto alcuni vedono come un freddo escamotage stilistico. E, attraverso questa, più evocativa la composizione.

Come hai costruito la squadra di lavoro e come siete approdati al lavoro finale?
Puro artigianato e, aggiungerei, mentalità da principianti, aperti alla meraviglia e alla sperimentazione, senza velleità. E al risultato finale siamo approdati attraverso un lungo lavoro di scoperte, rifacimenti, correzioni, telefoni senza fili e DAD fra me, il gruppo di Vibrisse e il compositore e chitarrista Fabrizio Ugas. Fra l’altro, un work in progress assoluto, in quanto nel suo formato “Scrigno”, che fa uso della realtà aumentata - ed è tuttora in preparazione - si prevede la possibilità di intervenire e fare intervenire sull’opera una volta già stampata, e addirittura già acquistata! Una vera rivoluzione nell’idea di “disco”. E vedi, anche qui, dal passato classico del vinile (che prima o poi produrremo) al futuro di un’applicazione non ancora in uso, passando per il presente del cd.

Le tue canzoni si “vedono”, come prima cosa: sono fasci di luce che proiettano un’immagine. È una tua caratteristica. Anche laddove il senso non arriva chiaro (e non importa nemmeno che accada). Quali sono le ispirazioni che ti fanno scrivere una canzone?
Il senso arriva come una direzione, il fascio di un proiettore, appunto, le mosse di un caleidoscopio. Il linguaggio poetico è giocoso, non funzionale, se non, appunto, alla sua stessa ipnosi. 
Non perché sia indecifrabile, ma perché decifrabile in tanti modi e secondo relazioni e letture diverse.

Quanto l’amore per le parole, per i giochi nel linguaggio, per le assonanze, incide nella composizione di un tuo testo? Intendo dire: sacrifichi un senso per una rima geniale, oppure resti fedele al pensiero?
Seguo un pensiero che però ha la licenza di delirare, cioè uscire dal solco. Questo succede normalmente quando parliamo, è a fatica che riusciamo a mantenere la lentezza di un ragionamento. Quel che ci sembra un flusso logico è in realtà una serie di intuizioni, contraddizioni, ripetizioni, inclusioni ed esclusioni. I giochi di parole fanno parte del tessuto connettivo del discorso, in quanto l’inconscio è sempre lì sotto. Il lapsus cosciente, o calembour, non è una scelta, la scelta consiste semmai nel farne a meno.

Come hai interpretato – anche da un punto di vista esistenziale, ma ovviamente soprattutto da un punto di vista culturale – il tuo ruolo di cantautore nella vita (sempre ammesso che tu lo abbia considerato un ruolo)? E come lo interpreti ora? Qualcosa è cambiato?
Mai pensato che fare il cantautore fosse un ruolo, al di là della funzione che possono attribuirti. È anzi un modo di detestare il ruolo, invece che contestarlo. Dal punto di vista culturale ci troviamo in un paesaggio all’apparenza piatto, abbattuto, ma pieno in realtà di apparizioni e trabocchetti, come un “Carnival”, un luna park in un deserto.  Non ho mai pensato che fare il cantautore significasse mettersi pazientemente a fare la fila lungo un’infinita scia di immortali, magari da imboscato. 
Peggio ancora, sgomitare per avere diritto di cronaca poetica nel mondo contemporaneo. La canzone d’autore è diventata materia accademica e questo è giusto.  Ma chi la fa non si può permettere questi discutibili allori. Allori con cui, per tornare alla Germania ottocentesca del poeta Heine - contemporanea della nostra Italia contemporanea - “sempre più è usanza ornare le teste dei maiali”.

Un’ultima domanda: Max Manfredi che musica ascolta nel 2022?
Dipende con chi vado in macchina! Ieri ad esempio eravamo sul jazz e quello che chiamerei un  easy listening di gran classe (tipo roba recente di Herbie Hancock, mica pizza e fichi!). Se invece vado in un supermercato a fare la spesa, è probabile che senta (ascoltare no, perché sono occupato a scegliere i prodotti) quella che oggi viene chiamata “musica di merda”. L’ascolto della musica per me è sempre occasionale. Non ho un impianto e i dischi che mi regalano non so dove sentirli. Ma la pratica discografica ha fatto sì che l’ascolto abituale di materiali musicali da supporti non ottimali, tipo il telefonino, non mi abbia pregiudicato la capacità di orecchiare, quando è il caso, ad esempio in sala di registrazione, anche alla qualità dei suoni.


Max Manfredi – Il grido della Fata (Maremmano Records, 2021)
Il Grido della Fata è un album superbo. La tentazione di chiuderla qui - limitandosi a invitare i lettori direttamente all’ascolto - è molto forte, perché il rischio di perdersi nel tentare di raccontarlo è altissimo. A volte, leggendo certe recensioni, capita di non riuscire proprio a capire di cosa si stia parlando, anche se in realtà a questo dovrebbe servire una recensione: preparare all’ascolto. Quasi sempre il compito è semplice e lineare: si rivela un sound, si scopre il segreto di un arrangiamento, si trova la chiave di un discorso. Ma Max Manfredi è un’altra cosa. Gioca un’altra partita rispetto a tutti gli altri cantautori, anche a quelli che fanno canzone d’autore ai massimi livelli (ce ne sono ancora tanti, per fortuna); il cantautore genovese, infatti, riesce nello stesso momento a stupire, eppure a restare una certezza. Artista della parola e “cultore della materia” armonica (si permetta anche a noi, coi nostri poveri mezzi, di giocare con il linguaggio…), stavolta si è davvero superato. Ricordando la quasi perfezione di “Luna persa,” in effetti, sembrava quasi impossibile che potesse riuscire a mantenere quell’altissimo discorso poetico, scardinando suoni e sicurezze verbali: le immagini di Luna persa erano chiare e nitide, erano delicate ed eleganti, umane; erano cioè di questo mondo. Stavolta invece - complice un uso sapiente dell’elettronica, che non sovrasta i tantissimi strumenti acustici presenti nel disco, ma serve sostanzialmente ad accompagnare chi ascolta in mondi paralleli – le immagini sono ipnotiche, i suoni altrettanto, come il grido di questa fata-sirena che rischia di farci naufragare in continuazione. Ogni volta che si pensa di aver afferrato un senso, ecco che lo si perde e lo si insegue: sembra di trovarsi a Zobeide, città invisibile di Italo Calvino, nata per volere di alcuni sognatori che nella notte hanno inseguito una fanciulla bellissima (la nostra fata?) e che poi hanno cercato di ritrovare alla luce del giorno, finendo per costruire un groviglio di strade inestricabili. Ecco: meglio evitare un eccessivo sforzo di comprensione, ascoltando questo album. Molto più giusto è immaginare di ritrovarsi in vari mondi paralleli – realtà aumentate magari (argomento questo molto caro a chi ha costruito, insieme con Max, il suono dell’album, cioè Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci, e forse anche a chi ha dato il tocco finale e totale: Fabrizio Ugas) – che si muovono e entrano ed escono dalla scena cantata: ci sono momenti di Medio Evo e altri di futuro lontanissimo e i personaggi che incontriamo sono incollocabili nello spazio e nel tempo. A volte ci sembra di riconoscere un paesaggio, ma poi lo perdiamo dentro la voce della fata, che forse grida, forse canta, forse tace. L’ascolto di questo album, insomma, è come un viaggio sulle montagne russe, in un luna park. E sono montagne di poesia. Un termine, “poesia”, troppo spesso usato a vanvera e abusato in un mondo dove tutto finisce per vendersi un tanto al chilo. Ma qua ci sta più che bene, perché Max Manfredi usa parole e suoni in un modo personale del tutto inimitabile: ogni parola si accorda ad uno specifico suono ed è simbolo di qualcosa di nuovo e diverso, da decifrare, da decriptare, o solo da sentire, permettendo alla nave di naufragare. Per chi ama la musica di Max Manfredi, infine, la sicurezza di un approdo dopo il naufragio, perché la finezza dell’album è anche nella capacità di ricreare atmosfere assolutamente “familiari” e abituali nel sound del cantautore genovese, malgrado, al di là o addirittura forse grazie proprio all’elettronica, anche se può risultare strano; eppure è così ed è chiaramente voluto. Insomma, è tutto molto pensato, curato e reso impeccabile. In questo senso, raffinato risulta il booklet e bellissima la copertina di un fotografo d’eccezione come Renzo Chiesa.


Elisabetta Malantrucco

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