Antonio Vivaldi, tradizione musicale veneta e italiana di successo e senza tempo

La vita in musica
La vita musicale di Vivaldi fu intensa, come testimoniato dal ricco catalogo, che comprende, al momento, circa ottocento opere, segnate con il codice “RV”, “Ryom Verzeichnis”. Numerose composizioni vennero scritte per il Pio Ospedale della Pietà, nel quale operò una quarantina di anni anche se non in modo continuativo. I contratti con l’Ospedale venivano rinnovati annualmente. All’epoca, si lavorava siglando contratti temporanei come strumentisti, insegnanti, compositori di musica strumentale, religiosa o melodrammatica. Inoltre, si cercava di vendere le proprie opere ai mecenati o agli editori, non necessariamente operanti nella città. A Venezia, Vivaldi si affermò come violinista, insegnante, compositore e impresario, tuttavia la città non sempre si mostrò generosa con lui, come attestato anche da una lapide incisa in suo onore: “In questo luogo sorgeva la cappella musicale del conservatorio della Pietà, dove il genio di Antonio Vivaldi, allora non pienamente compreso, operò quale maestro de concerti dal 1703 al 1740, donando a Venezia e al mondo l’incomparabile ricchezza della sua musica, di cui “le Quattro Stagioni” sono il fiore e il suo suggello. Il suo tempo è venuto” (per comodità di lettura, abbiamo aggiunto la punteggiatura).
Figlio di Giovanni Battista Vivaldi (nato a Brescia) e di Camilla Calicchio (di origini lucane), Antonio Lucio nacque a Venezia, il 4 marzo del 1678 (“hebbe l’acqua in casa per pericolo di morte dalla comare allevatrice”, si legge nell’atto di battesimo). Successivamente ricevette il primo sacramento nella chiesa di San Giovanni in Bragora. Ebbe tre sorelle e due fratelli (altri perirono in tenera età), ma solo lui, primogenito, seguì le orme del padre, il quale operava come barbiere e (“sonador”) violinista. Ricevette gli ordini minori clericali nel 1693 ma, soprattutto a causa della salute cagionevole, nel corso della vita mantenne i voti, senza di fatto prestare effettivo servizio presbiteriale. Così si espresse in un’epistola inviata a Guido Bentivoglio d’Aragona, nel 1737: «Sono venticinque anni ch’io non dico messa né mai più la dirò, non per divieto o comando, come si può informare Sua Eminenza, ma per mia elezione, e ciò stante un male che io patisco a nativitate, pel quale io sto oppresso. Appena ordinato sacerdote, un anno o poco più ho detto messa, e poi l’ho lasciata avendo dovuto tre volte partir dall’altare senza terminarla a causa dello stesso mio male. Ecco la ragione per la quale non celebro messa». Venne soprannominato il “prete rosso”, per via del colore dei suoi capelli. 
Venezia era allora un fiorente centro commerciale, culturale e turistico. Erano attivi numerosi teatri, per alcuni dei quali (in particolare il Sant’Angelo) Vivaldi scrisse melodrammi con alterno successo. La loro riscoperta è abbastanza recente e ha contributo alla rivalutazione del musicista veneziano non solo come specialista di musica strumentale e religiosa.  Nel corso degli anni, presenziò a sue opere eseguite in diverse città, quali Vicenza, Trieste, Brescia, Firenze, Milano, Roma, Napoli, Vienna, Amsterdam, Monaco, Mantova. In quest’ultima città si trasferì per due anni (1718-1720), prendendo servizio presso il Langravio Filippo d’Assia-Darmstadt, in qualità di “maestro di cappella di camera”.  Qui conobbe la cantante Anna Giraud (Girò), che divenne allieva prediletta nonché una delle maggiori interpreti dei suoi melodrammi. Allusivi e irridenti riferimenti a Vivaldi (il cognome venne anagrammato) sono riscontrabili nel libello satirico “Il teatro alla moda”, scritto da Benedetto Marcello, nel 1720, quando il nostro compositore era particolarmente attivo anche come impresario in ambito operistico. Un influente conoscente francese, Charles de Brosses, nel 1739, di lui scrisse (in traduzione libera): «Con grande sorpresa, ho scoperto che non è così stimato come meriterebbe di essere in questo paese, dove tutto segue le mode, dove abbiamo ascoltato le sue opere per troppo tempo e dove la musica dell’anno precedente non produce più introiti (“n’est plus de recette”)». A seguito di una serie di vicissitudini personali e finanziarie, nel 1740, Vivaldi si congedò definitivamente dall’Ospedale della Pietà. Pochi anni prima era deceduto il padre, con il quale aveva sempre vissuto a Venezia. Vendette diverse composizioni per compensi modesti, ma indispensabili per potersi recare a Vienna (maggio 1740), dove sperava di ottenere il supporto del mecenate Carlo VI il quale, però, morì nell’ottobre del 1740. Subito dopo scoppiò la guerra di successione. Vennero chiusi i teatri e per Vivaldi sfumò ogni aspettativa lavorativa, compresa quella di mettere in scena la sua ultima opera “L’oracolo in Messenia” (RV 726). A Vienna, passò a miglior vita il 28 luglio del 1741. Del luogo e della data precisa del suo decesso si venne a sapere solo nel 1938, in seguito ad accurate ricerche d’archivio condotte dal musicologo Roberto Gallo. 

Il volto di Vivaldi 
Federico Maria Sardelli, direttore d’orchestra, compositore e artista, è componente dell’ “Istituto Italiano Antonio Vivaldi” e responsabile del “Catalogo Vivaldi”. In modo accurato, in “Il volto di Vivaldi” (2021), ha analizzato vari dipinti e le rappresentazioni grafiche nei quali è stato ritratto il compositore veneziano. Nel testo, arte e musica s’incontrano, delineando i contorni della società dell’epoca e le vicissitudini umane del compositore, afflitto da seri problemi salutari. Prendendo spunto dagli studi condotti da Roger-Claude Travers (1982) e da Giuseppe Gullo (ha in corso una specifica pubblicazione), Sardelli ha potuto evidenziare che Vivaldi fu verosimilmente affetto dalla IRDS (“Infantile Respiratory Distress Syndrome”), la quale causava un sottosviluppo dei polmoni e un affaticamento respiratorio considerevole, nei pochi nascituri che riuscivano a sopravvivere. Negli anni, la situazione peggiorò e il compositore fu impossibilitato a fare sforzi fisici. Negli spostamenti necessitava di accompagnamento. Peraltro, è noto il documento autografo nel quale scrisse “… io vivo quasi sempre in casa, e non esco che in gondola o in carrozza, perché non posso camminare per male di petto ossia strettezza di petto”.
Quali opere/ritratti sono attendibili e direttamente riferibili al volto di Vivaldi?  Capitolo dopo capitolo, l’autore ha riportato un po’ di ordine anche in merito a false notizie che sono state diffuse negli ultimi decenni e a doverose precisazioni rispetto a riproduzioni più o meno veritiere di raffigurazioni originali. Volendo sintetizzare, quanto ad affidabilità fisiognomica, Sardelli pone in primo piano il cosiddetto ritratto di Bologna (dove è conservato e dove è stato ritrovato nel 1938), eseguito verosimilmente a Venezia da un pittore al momento ignoto, il quale raffigurò Vivaldi dal vivo quando aveva 25-30 anni.  Particolarmente attendibile, inoltre, è la prima caricatura del pittore Pier Leone Ghezzi, realizzata nel 1723, a Roma, e conservata presso la Biblioteca Vaticana. Una seconda caricatura dello stesso pittore (simile alla prima) è conservata a Mosca, presso il Museo di Belle Arti Puskin, di Mosca.  È prendendo spunto dalla prima caricatura che Sardelli ha potuto realizzare un suo dipinto a olio su tavola, nel 2003: “Mi son sempre chiesto - egli scrive - cos’avrebbe potuto fare Pier Leone Ghezzi se, invece di eseguire il suo veloce schizzo a penna, avesse avuto a disposizione la tavolozza con i colori a olio e un poco più di tempo. Ho provato dunque a “incarnare” quella diafana caricatura cercandone i volumi e un po’ di realismo, anche se in dissonanza col suo carattere iperbolico”. Altra importante raffigurazione presa in considerazione è quella realizzata, nel 1725, da François Morellon de La Cave, la nota “Effigies Antonii Vivaldi”, incisione originale su rame, riportata in antiporta all’edizione dell’ Op. VIII, pubblicata ad Amsterdam, da Michel Charles Le Cène. Scrive Sardelli: «Per quanto problematico e non esente da difetti, il ritratto di Vivaldi inciso da La Cave divenne in tutta Europa l’effige ufficiale del compositore, grazie alla sua divulgazione alla testa di edizioni di grande successo. E fu questa l’immagine di Vivaldi che dette origine a copie e repliche fino al primo Ottocento». Tra le copie, più o meno rispettose dell’originale, lo scrittore evidenzia, in particolare, quelle realizzate “post mortem” da James Caldwall (1776), da Lambert “le jeune” (1818-1819) e da un anonimo viennese (con acquerello monocromatico e penna a inchiostro nero), intorno al 1830. Un altro ritratto del compositore si deve a un anonimo, vissuto nel XVIII secolo, probabilmente un monaco appartenente agli ordini minori della città di Bologna. Sardelli è categorico rispetto a quello che viene denominato il “ritratto di Piacenza”, di cui s’iniziò a scrivere nel 1976 e che, per ragioni oggettive, non ritiene configurabile con il volto di Antonio Vivaldi. Più cauto, invece, è il suo giudizio rispetto a una miniatura su rame, rinvenuta, nel 2018, da un antiquario di Dordrecht, nel quale è possibile scorgere la somiglianza di alcuni tratti somatici tipici di Vivaldi, tenendo a riferimento la citata incisione di La Cave. Avvincente rimane il capitolo dedicato agli affreschi di Giambattista Tiepolo nella chiesa della Pietà a Venezia, nel 1754. Sulla scorta degli studi e di un’intuizione della instancabile ricercatrice Micky White (opera principale: “Antonio Vivaldi, a life in documents”, Fondazione Giorgio Cini, Studi di Musica Veneta, Quaderni Vivaldiani, vol. 17, 2013), è stata posta l’attenzione su un dettaglio de “L’incoronazione della Vergine”, nel quale viene rappresentata solo la parte superiore del volto di un uomo (dal naso ai capelli di colore rosso), intorno al quale sono stati dipinti diversi angeli e cherubini suonatori di strumenti. Secondo la White, il volto potrebbe essere proprio quello di Antonio Vivaldi. Tenendo conto della data in cui venne realizzato l’affresco, Sardelli chiarisce: «In conclusione: pur non avendo nessuna certezza, possiamo cedere al piacere di aver scoperto un altro ritratto di Vivaldi, dipinto non dal vivo ma dalla viva memoria».  Comparando i diversi ritratti presi in considerazione, per Sardelli «è chiaro che Vivaldi fosse un tipo aperto, ben disposto, lieto. E così desiderasse vedersi rappresentato. La sua musica luminosa, vivace e piena di gioia di vivere lo conferma appieno». Già, la Musica, il centro della sua esistenza, che abbiamo volutamente tenuto sullo sfondo, rimandando il lettore all’ascolto diretto delle sue opere, molte delle quali sembravano destinate all’oblio. Una musica che oggi, più di ieri, viene apprezzata da ascoltatori sparsi in ogni parte del globo. Una musica che, in buona parte, è ancora tutta da (ri)scoprire. La musica di Vivaldi piace perché è scorrevole, melodica e intensamente ritmica, con forti tratti descrittivi, presenti non solo nelle sue opere più famose. La vera riscoperta del compositore è avvenuta dopo alcuni secoli dal suo decesso. Nella sua rinascita troviamo conferma di come sia importante osservare e analizzare i fenomeni sincronici con cautela e spirito critico. A maggior ragione nel nostro tempo, sfacciatamente globalista, caratterizzato da fervore collettivo nei confronti del progresso tecnologico e dai processi pletorici e infodemici della comunicazione. Nel nostro tempo, si nota sempre più la tendenza a rendere ogni produzione culturale labile e passeggera, destinata in breve a essere soffocata dalle imminenti novità, dalla nebulosa del “nuovo” che avanza. Tuttavia storia e tradizione (e non solo queste) ci insegnano che non è proficuo farsi influenzare dalle mode del momento, men che meno quando si tratta di fenomeni musicali, la cui vitalità è legata sia agli aspetti tecnici e compositivi sia alla interpretazione che gli esseri viventi sanno dare in un preciso momento storico. La musica del passato vive nell’attimo in cui viene eseguita, immediatamente rinasce e acquista carattere di contemporaneità. Per dirla con Claude Lévi-Strauss “la musica è una macchina per sopprimere il tempo”, potenzialmente immortale, senza tempo, aggiungiamo noi, pensando a quella del Magister Antonio Lucio Vivaldi, la cui biografia senza le sue composizioni diventerebbe come un corpo senz’anima. La sua musica è legata alla tradizione veneta, nella quale ebbe modo di affermarsi e (pur tra numerosi impedimenti) di essere tramandata nel corso dei secoli: una tradizione colta che - oltre a essere memoria e ricordo - vive dinamicamente nel presente. 

Paolo Mercurio

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