Rocker selvatico con la passione per Neil Young e Bruce Springsteen, ma anche raffinato cantautore in grado di misurarsi ad armi pari con la migliore tradizione italiana, Alessandro Ducoli è alla costante ricerca di nuovi territori musicali da esplorare, coniugando l’amore per il songwriting con il suo lavoro al Parco dell’Adamello dove si occupa della gestione forestale di cui è un esperto riconosciuto anche a livello accademico. La sua personalità eclettica, al punto da sembrare schizofrenica, lo ha condotto nell’arco di oltre vent’anni di carriera a mettere in fila una nutrita, quanto affascinante discografia, cosicché non è affatto semplice tentare di rimettere ordine tra le diverse anime artistiche incarnate negli anni. Dopo aver debuttato con “Lolita” nel 1996 a cui è seguito nel 1999 “Malaspina”, ha dato vita al gruppo “Bacco Il Matto” con cui ha dato alle stampe “San Marco” e “Cercatori d’oro”, a cui ha fatto seguito l’esperienza de La Banda del Ducoli con “Anche io non posso entrare” e “Taverne, stamberghe, caverne” ed ancora, negli anni successivi, abbiamo apprezzato i pregevoli “Brumantica”, “Piccoli Animaletti” e “Sandropiteco”. Parallelamente, lo abbiamo ascoltato impegnato al fianco di Boris Salvoldelli in “Insanology” e nei diversi side-project My Uncle The Dog,“Degeneration Beat”, Spanish Johnny, Cletus Cobb, Lupita’s Project, The Bartolino’s, The Ducolis e Collettivo PK. In occasione della pubblicazione de “Il cotone”, il suo tredicesimo album come solista, abbiamo intervistato Alessandro Ducoli per ripercorrere con lui, le pubblicazioni messe in fila nell’ultimo decennio. Senza pretese di esaustività, ci abbiamo provato e ne è nata una conversazione a ruota libera, proprio come l’ultima di dodici anni fa.
L'ultima nostra intervista, per altro lunghissima, risale al 2014. Sono passati sette lunghi anni in cui da artista in continuo movimento non sei stato affatto fermo, ma anzi hai rilanciato con tantissimi nuovi progetti, libri e ristampe. Inutile che ti chieda di riepilogarci le puntate precedenti perché lo faremo man mano nel corso dell'intervista. Mi farebbe piacere, però, focalizzarmi su come si è evoluto il tuo approccio alla canzone d'autore in questi anni?
Si è concentrato sul concetto di “canzone”. Credo che la musica, almeno quella fatta di canzoni, si stia evolvendo in direzioni strane, sempre più caotiche, difficili da capire (in effetti ci sono cose di oggi facili da capire, ma appaiono assolutamente non considerabili per evitare quantomeno di alimentare un certo disgusto). In tutto questo casino ho scelto una sorta di esilio dove elaborare i miei concetti in totale libertà (che siano richiesti o meno mi interessa poco). Stare per conto mio mi aiuta nella rigorosa autocritica che ritengo fondamentale per evitare di cadere in facili economie di scala: molti appunti, un po’ di studio, un po’ di aggiornamento armonico-melodico-lirico e nessuna remora nello scartare quello che mi suona “già sentito”. Copiare altri è da infami, copiare da sè stessi è da finiti.
Uno dei tuoi lavori più emblematici "Degeneration beat" con il progetto Brother K che hai ristampato in cd e in vinile. Ci puoi raccontare questo disco?
Nasce da un’idea di Federico Troncatti, Boris Savoldelli e Andrea Bellicini (tre adorabili canaglie inclini al bullismo). Mi avevano contattato per partecipare a questo progetto di spontaneous prose. Sapevano che ero estraneo al blocco letterario “beat generation” (ho sempre preferito gli autori americani precedenti), ma mi hanno individuato come prototipo beatnik e soprattutto, proprio perché non contaminato dal mito della Beat generation, perfetto per le loro malsane idee. Mi hanno usato come cavia!!! A tutti gli effetti è stato un grande progetto che abbiamo realizzato in circa un anno con la supervisione di Nanda Pivano e Mark Murphy… quanto ci mancano adesso. Alla sua realizzazione hanno collaborato dei veri e propri mostri sacri del Jazz italiano, ma non siamo stati in grado di dare un seguito teatrale all’opera (era oggettivamente difficile programmarne la concreta realizzazione senza una produzione adeguata). Lo scorso anno grazie al sincero e, per dovere di cronaca, “unico” interessamento da parte di Jean Luc Stote di Radio Onda d’Urto, abbiamo ristampato l’opera e, nientemeno, prodotto un doppio vinile con curatissimo booklet che è stato presentato a Brescia in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Lawrence Ferlinghetti.
In quell’occasione è stato anche realizzato uno spettacolo con la collaborazione di Umberto Petrin (credo ci sia anche un documento video sul tubo). Sembrava esserci la possibilità di promuoverlo anche su altri palcoscenici ma non c’è stato alcun seguito. Ci sono quasi abituato.
In occasione dei vent'anni dalla pubblicazione hai ristampato "Cercatori d'oro", uscito con il moniker Bacco Il Matto. E' un disco che ha resistito benissimo al tempo e presenta un suono particolarmente curato. Come si inserisce questo disco nel tuo percorso artistico e quanto è stato importante come spartiacque per le produzioni successive?
“Bacco il Matto” è stato il mio “American Dream”… il “nostro”: Bacco il Matto comprende anche Nicola Bonetti. Erano anni in cui il Rock’n’Roll aveva ancora significati elevati, extramusicali, compresi quelli che suonavano come “scorretti”. Quello che oggi molti chiamano rock mi sembra roba da banchetto di lusso del discount (preferisco la birra in offerta): viene lucidata a dovere e prodotta per sembrare quello che non è… Non è polemica, è una presa d’atto. E non ho nessuna presunzione nel sostenere quello che credo sia meglio per qualcuno, sono solo molto consapevole di quello che è meglio per me. Per quanto riguarda quel disco, siamo riusciti a “rilucidare” “Cercatori d’oro” perché, a differenza di “San Marco”, non era stato registrato interamente su nastro. Eravamo all’Arki Studio dove su bobina erano registrate solo batterie e Hammond, il resto era passato dagli amplificatori direttamente dentro un computer. Siccome oggi si può mixare in forza di una sostanziale evoluzione della strumentazione d’uso comune, ma soprattutto si possono fare editing e mastering di ottima qualità senza rivolgersi a studi legittimamente molto costosi, abbiamo pensato di dare nuova luce al materiale prodotto. La stessa operazione su “San Marco” è in programma, ma è molto più costosa… Ci servono più tempo e risparmi. Per me “Bacco il Matto”, ma soprattutto “Cercatori d’oro”, è stato un progetto fondamentale. I “cercatori d’oro” che ci sono quell’album, ma anche in “San Marco”, sono quelli di Jack London, quelli che ne hanno trovato poco. Tutto diventa metafora, e la ricerca dell’oro qualcosa di più complesso del bieco desiderio di ricchezza
fine a sé stesso. Sono canzoni che descrivono esattamente quello che eravamo: forza e follia (forse mischiate male, ma era così che doveva essere). Ovviamente si tratta di album figli dell’approccio da discepoli del suono Crazy Horse/E-Street Band che sognavamo di mettere nei nostri concerti… E devo dire che ci riuscivamo in maniera anche molto efficace. Se ne accorse anche Chip Taylor che, con lo zampino di Mauro Eufrosini, ci regalò l’inedito “Raffaella” che chiude l’album. Vorrei però spendere due righe per ricordare Roberto Ortolan, mancato recentemente, che ci giudò in quel meraviglioso sogno come un vero fratello maggiore. La decisione vera di riaprire quel progetto è stata presa forse per riconoscere fino in fondo il suo lavoro e la sua amicizia. Un vero cercatore d’oro.
Veniamo, ora, ad uno dei tuoi dischi più belli di sempre il doppio "Sandropiteco", pieno zeppo di belle canzoni e nato ovviamente in collaborazione con Valerio Gaffurini che da sempre ti asseconda nelle diverse declinazioni del tuo ego musicale. Ci puoi raccontare com'è nato questo disco? Quali sono state le ispirazioni alla base dei vari brani?
Alberto Terrile, il fotografo genovese, aveva ascoltato “Artemisia absinthium” cogliendo alcuni aspetti delle canzoni che a molti erano sfuggiti. Mi aveva parlato di come suoni e parole riuscissero a costruire “immagini”. Disse che ogni canzone poteva essere una fotografia e mi chiese se fossi interessato a un progetto di musicoterapia che stava seguendo per il comune di Genova: ricostruire “Alice nel paese delle meraviglie” con i pazienti disabili seguiti da Laura Dalla Dea. Il Vol. II dell’album è la colonna sonora di quel bellissimo progetto. Non è stato difficile scriverlo, a parte una prima lunga fase di approfondimento delle opere di Lewis Carrol e, soprattutto, del legame tra le sue “visioni” e i suoi disturbi clinici. La scrittura dei brani è stata abbastanza immediata: alcune melodie e armonie lasciate in sospeso, alcune nuove melodie, una settimana di ferie e poco altro (oltre a dei catalizzatori non troppo “dominanti”). L’amplificazione incontrollabile di oggetti e pensieri può essere pericolosa, ma anche molto divertente. Negli anni Sessanta e Settanta questo gioco era abitualmente guidato da un approccio lisergico, con
risultati anche assoluti. Senza LSD credo che si possano raggiungere ugualmente buoni risultati… sotto certi aspetti, e dal mio punto di vista, anche più interessanti. È stato un vero e proprio trip. Il Vol. I, invece, era già nelle idee precedenti, ero quasi pronto a registrarlo prima di conoscere Alberto. Non è stato difficile dargli unitarietà di suono rispetto al Vol. II e costruire un concept sulla nostra irrisolvibile confusione umana. Non chiedermi cosa significhi perché non saprei spiegarlo… mi sembrava una buona chiusa di capoverso.
Com'è nato il Lupita's Project con cui hai dato alle stampe il travolgente "We Are Done" che hai stampato anche in vinile e in una versione estesa con 26 brani?
Ho sempre confessato di avere una tassa, più o meno annuale, da pagare al rock, inteso in tutte le sue forme, ed è l’unica che pago volentieri. I Lupita’s Project credo siano il tributo più alto, non sono una tribute band, sono una band che paga tributi… La scrittura blues, in parte folk e in buona parte rock, a mio avviso, presuppone meccanismi lirici che devono essere colti negli stilemi anglo-americani (non solo musicali…). Quando faccio queste operazioni posso esprimere la mia maturazione lirica come più mi piace: semplificandola all’osso senza perdere significato, oppure nascondendolo. Una roba così, come vuole il blues. A parte tutto, io non sono un musicista, ma ho buona dimestichezza con la lezione di quelli che chiamo maestri: De Gregori, Neil Young, Springsteen, Bennato, eccetera. Per cui ho concentrato lo studio della chitarra e dell’armonica su quello che mi serve per assecondare la mia necessità di scrittura. Aggiungici il fatto che quando sono su un palco preferisco concentrarmi sulla voce e sullo spettacolo e viene fuori come sia facile trasformare questa necessità in una band. Peraltro, con il lusso di poter coinvolgere musicisti che ritengo perfetti per costruire con loro quello che vogliamo che sia il nostro suono. Con i Lupita’s abbiamo fatto due album ufficiali, ma buona parte di loro erano già stati coinvolti negli album rock successivi agli Spanish Johnny (Marlon Richards, Velasco, Cosswho). Abbiamo diviso le strade quando ci siamo accorti che per suonare non era più necessario avere delle buone canzoni, ma delle buone conoscenze (a qualsiasi livello di scala).
Ci siamo ritirati in rispettivi ruderi in mezzo alle foreste più scure pensando di raggiungere il rango di Druido. Non ci siamo ancora riusciti… Forse è il momento di tornare alla città.
"I Never Shoot An Indian" mette insieme i due capitoli del progetto "SpanishJohnny" e "Easylove" e compendia il tuo lato alternative-country/americana. Facendo un passo indietro, nel tempo, ripercorriamo queste due esperienze artistiche?
Le avventure di Cletus Cobb (il nome che mi affibbiò Andrea Bellicini quando iniziammo il progetto My Uncle The Dog) lo uso per assecondare avventure che mi fanno pensare di essere un Tom Sawyer italiano nei territori polverosi del roots rock. Una visione romantica in cui, anche con l’uso di un inglese scorretto (con correttori di bozze che mi aiutano a definire dove un errore è tollerabile, o addirittura voluto, se vuoi “fare l’americano”), ho pensato di scrivere una colonna sonora per alcune cose che stavo sviluppando a livello letterario come “Dog Tale” e “Le bambole malate”. I riferimenti springsteeniani e quelli neilyoughiani, ma anche quelli lirici del primo blues e del folk di protesta, sono stati il motore di tutta quell’avventura. Mettici anche un po’ di letteratura più o meno per ragazzi. Non solo quella americana… amo anche Salgari! Insomma, il gioco è nato in maniera abbastanza naturale.
Insieme a The Bartolino's hai inciso "I sigari fanno male" altra perla della tua produzione artistica....
Il mio aspetto cantautorale forse più elevato, se di elevazione possiamo parlare, credo sia proprio quello legato ai Bartolino’s. Con Mario Stivala, cervello dei Bartolino’s, la collaborazione artistica ha avuto inizio nel 1996 con alcune idee che poi sono diventate canzoni in “Malaspina” e in “Anche io non posso entrare” (“Primo treno per Roma”, “Omicidio consentito”, “Arrivederci ancora”). Successivamente abbiamo scritto “Brumantica”, “Artemisia absinthium”, “Piccoli animaletti” e “I Sigari fanno male”. C’è anche “Cronaca blu” è stato scritto, ma non abbiamo ancora ragionato su come produrlo.
Mario è un musicista completo che riesce a propormi soluzioni armoniche e ritmiche che io non sono in grado di suonare. Il voicing della chitarra è molto più complesso di quello del pianoforte, in un certo senso è anche più intrigante, e Mario credo che sappia perfettamente cosa mi serve. Mi propone delle bozze armoniche, e per me scrivere parole e melodie, oltre che un gioco, è un modo intrigante per provare a certificare di aver imparato la lezione dei grandi maestri italiani. L’unica difficoltà sta nel non cadere nello “stiloso” (credo si dica così), aggiungendo alla lezione “italiana” la propria personalità. Penso di esserci riuscito, ma non devo essere io a dirlo. Il significato del nome “quelli di Bartolino”, supremamente al singolare, è tutt’ora un segreto.
"Gufi, allocchi, barbagianni e altre giovani streghe" si inserisce nel medesimo sentiero ma ti avvicina al teatro-canzone... Il progetto degli “strigiformi” descrive la mia indole forse più attuale e concreta: quella legata al Teatro Canzone.
La mia carriera artistica oggi è legata filo diretto a Valerio Gaffurini con cui scrivo e produco tutti gli album a firma Alessandro Ducoli da “Sandropiteco” in poi (oltre ad altre robe più o meno confuse). Questo album ci è stato suggerito da un’associazione di picareschi audiofili di Imola (Audio Divino) e dall’Azienda Vinicola Bragagni di Brisighella che ci ha dedicato la Barbagianna dopo aver ascoltato la canzone “Un piede nella fossa e quell’altro sulla vanga”… Abbiamo scelto di produrlo nella maniera più diretta e immediata che sappiamo fare: in duo, voce e pianoforte. Comprende, oltre ad alcune versioni dal vivo di brani più o meno “storici”, la rivisitazione adulta del mio primo demo: Rosso. Le canzoni assolutamente acerbe dei primi anni Novanta sembrano essere maturate in buone botti.
Del 2018 è "Diavoli e contrari" nel quale l'aspetto poetico sembra indirizzarsi verso l'introspezione e la riflessione....
Il disco dei “diavoli” è un album per me “amaro” e allo stesso tempo “dolcissimo”. C’è dentro la presa di coscienza di come vanno certo cose (e di come sia molto probabile che vadano in direzione opposta a quella che pensavi), ma c’è dentro anche la ferma convinzione che me ne frega sempre meno. È un disco d’amore (aiuto!), e un disco amoroso può contenere concetti paralleli all’amore che riguardano anche te stesso, quello che sei diventato: cinquanta anni fa un uomo era fatto e finito a vent’anni, oggi i margini sono maggiori… Sto scherzando. Dopo l’avventura con i Lupita’s Project, io e Valerio volevamo fare due dischi romantici perché molti dicevano che stavo sempre lì a raccontare cose strane, e non si capiva cosa volessi dire. Ho pensato di fare “Divanomachia” e “Diavoli e contrari” nel tentativo di chiarire che anche io sono uno che si innamora, ma temo di non esserci riuscito. Figuratevi quando ho provato a dire che anche Valerio, sotto certi punti di vista, è romantico anche lui. Forse abbiamo aggiunto dubbi a gente già dubbiosa di suo. Del resto, Valerio dice che anche a lui frega molto poco di cosa passa e di cosa non passa. Dice: “noi suoniamo la nostra. Se vogliono altro, ci sediamo anche noi ad ascoltare e berci qualcosa”. In effetti dice anche altre cose, ma qui è opportuna una censura. Posso, però, dirti che la sua definizione di Rock’n’Roll credo sia la più completa mai riportata in cronaca.
"Free Your Dog" e il più recente live "Defence" svelano il tuo lato punk-rock con la copertina che è un bell'omaggio ai Ramones. Come nasce questa ulteriore esperienza musicale?
Il cognome Ducoli è molto diffuso in Valle Camonica e ci sono anche molti musicisti, tutti migliori di me. Abbiamo pensato di fare una band per poter dire “i Ramones mica erano Ramone… i Ducolis sono tutti Ducoli”. Si tratta di un progetto di puro godimento Rock’n’Roll in cui il “pluritritato” concetto di American Dream ce lo siamo soffritto per condire i casoncelli. Luca Ducoli è un vero rocker e scrive in maniera fulmicotonica. C’è, poi, la “Sezione Meco” ovvero i Domenico della sezione ritmica che è un carrarmato. Io sono stato accolto nella combriccola per scrivere testi e qualche rough blues. Credo che la summa di quello che si siamo detti prima sulla questione degli stilemi lirici di rnr, folk e blues, in questo
progetto abbia raggiunto degli ottimi livelli (lo spero). Nei due album ci abbiamo messo tutti i nostri “local hero” e, visti da vicino, non hanno nulla da invidiare a quelli di qualsiasi altra latitudine. Comunque, c’è voluta una pandemia globale per fermarci. Ma siano autoimmuni…
In "20 Km di paura" esplori con il Collettivo PLK i territori del rock e non solo, il tutto con l'aggiunta di synth, ritmi in levare e testi imperdibili come "L'ultimo stronzo”...
Il progetto PLK nasce da un’idea di Gerardo Cardinale che stava collaborando con Robi Gobbi a un progetto reggae. Mi hanno proposto di scrivere un paio di testi e in quell’occasione mi ha proposto alcuni “blocchi” di canzoni realizzati interamente con una tastiera Korg Trinyti. Mi è piaciuta l’idea di trasformare in canzoni delle suite per orchestra interamente suonate con basi elettroniche anni Ottanta ed è nato l’album più strano che ho fatto. Ho lavorato al progetto lirico partendo da un concetto di “paura” diverso da quello che si potrebbe pensare: la paura di cui si parla in questo disco è quella che ti aggredisce quando la tua libertà è in bilico. Non temere, niente di serio, solo un tentativo di analizzare la situazione sociale in cui ci stiamo muovendo. Viviamo in un mondo dove è molto facile essere classificati come inadeguati, anche solo per risolvere il dubbio che tu possa anche essere quello più adeguato. Difficile da spiegare… Comunque si tratta di un progetto in cui le parolacce non sono state censurate. A tutti gli effetti mi ha consentito di aggiungere al romanticismo anche una buona dose di libertà critica, forse dichiarata esplicitamente nel brano di chiusura “Mario Gregario”.
Andiamo, ora, alla scoperta di "Sette bicchieri quasi uguali. Vita di Titta Colleoni". Com'è nata l'idea di questo libro?
Il Titta!!!! Pensare che Keith Richards sia un sopravvissuto fa venire quasi tenerezza se si conosce il Titta. Me lo hanno presentato qualche anno fa e mi ero quasi commosso per via del pianoforte di “Non farti cadere le braccia”. Mi hanno chiesto di scrivergli una biografia perché hanno apprezzato il mio stile
abbastanza diretto. Ho accettato: è stata un’odissea. La vita del Titta è un vero e proprio viaggio tra ciclopi, guerre, sirene, maghe e maghi. Ed è tutto vero. Mi ha permesso di osservare da dentro molti aspetti della musica italiana che amo, e non solo degli anni Settanta. E poi di chiedergli opinioni dirette e sincere sui più grandi personaggi del suo tempo come Battiato, De André, Bennato, il Banco, Pagani, Rocchi, eccetera. Personalmente, un lavoro che mi ha riempito d’orgoglio. In questo caso: la pandemia globale ha aggiunto ulteriore epicità al nostro viaggio.
"Carne e ossa" è, invece, un imperdibile retrospettiva autobiografica...
Non ho mai apprezzato fino in fondo i cantautori che si pubblicizzano il libro scritto nella pausa che precede il “prossimo disco”. Per cui ho sempre tenuto pressoché nascosta la mia parte letteraria. Comunque, scrivo in parallelo a un album e molti racconti sono citati come “colonne liriche”, scritti come una sorta di analisi in prosa di quello che dovrebbe essere la singola canzone. A volte sono cose a sé stanti, altre volte non saprei come descriverle. In ogni caso quello che riguarda tutta la parte “letteraria” è raccolta in alcuni volumi distribuiti per conto loro, non necessariamente collegati all’aspetto musicale. Per quanto attiene Carne e ossa, è un romanzetto che chiude la sezione dei “Racconti dei continenti”. Si tratta, com’è facile intuire anche dal titolo (e del sottotitolo “adorabili cannibali”), di un racconto molto crudo… ma con finale a sorpresa. Mi serviva per fissare il mio punto di vista attuale. Ora sto prendendo nuovi appunti, ma vorrei accumulare un po’ di vita per poter scrivere cose nuove. Credo che, nella musica come nella letteratura, a volte sia importante riconoscere in chi scrive un certo grado di vissuto. Non lo so…
Il tuo ultimo album "Il cotone" è un disco di alto profilo cantautorale e forse il tuo lavoro più compiuto in questo senso…
L’idea era quella di realizzare un disco con formazione allargata rispetto ai lavori precedenti a nome Alessandro Ducoli. In effetti il minimalismo di “Divanomachia” e di “Diavoli e Contrari” sarebbe stato
difficile da ripetere, per cui, con Valerio abbiamo pensato di fare un disco più “suonato”, quasi pop, nel senso più nobile del termine. Avevamo già registrato quasi tutti gli interventi a febbraio dell’anno scorso, poi il casino della pandemia ha mischiato le carte in tavola. L’abbiamo editato e finito a febbraio dell’anno appena trascorso, nella speranza che finisse il problema del distanziamento sociale, ma non è andata così. Del resto, faccio molta fatica a capire cosa stia succedendo anche perché al distanziamento sociale c’eravamo già abituati prima del virus… Avevamo pensato, poi, di pubblicarlo a settembre, ma abbiamo preferito rimandarlo ancora. È un lavoro riuscito e pensarci ogni giorno non fa altro che aumentare l’amarezza. Anche perché io ho bisogno di fare concerti per riuscire a ripagare i musicisti che mi aiutano a fare dischi, e oggi ho persino paura anche solo a chiamarli.
Concludendo. Quest'anno l'Inter ha vinto lo Scudetto e qualche sera fa anche la Supercoppa Italiana... segni di speranza dopo un biennio nero senza concerti. La tua attività live sta ripartendo?
Per me Conte è uno solo: Paolo. Sto semplicemente aspettando, non avendo un management ed essendo un po’ stanco di contattare personalmente i locali dove si suona dal vivo. Capiranno anche i lettori che dover dire “questa è roba forte, devi farla suonare da te”, appare un po’ patetico se poi ci devi aggiungere che quella roba è tua. Abbiamo già dovuto, dolorosamente, rimandare l’uscita del nuovo album e finché non si saprà con maggiore chiarezza come fare a promuoverlo non è semplice fare programmi. I concerti mi servono per dare credibilità artistica alla mia attività e, non è davvero facile capire fino a che punto si potranno organizzare una decina di serate normali e, soprattutto, con quale band. Nessun gestore sa cosa succederà e tutto questo caos non aiuta a programmare nulla. Inoltre, la gente che ci sta indicando la via (obbligata), ha la stessa faccia che hanno quelli che non sanno dove stanno andando… Comunque, a breve devo suonare alla Fucina di Podenzano a una serata organizzata da un Inter Club per Nicola Berti. Con lui, dopo essermi asciugato alcune lacrime, avrò modo di parlare anche dell’Inter che sarà. VIVA!
Ducoli – Il Cotone (Cromo Music/I.R.D., 2022)
Ad un anno di distanza dalla pubblicazione di “Io che sono solamente un servitore”, nel quale erano raccolte le canzoni e gli appunti scritti per la rassegna “Goy de cuntala” dedicata alla canzone dialettale, Alessandro Ducoli torna con “Il Cotone”, tredicesimo album solista in carriera, nel quale ha raccolto dodici brani autografi, scritti nell’arco di un anno tra il 2018 e il 2019 ed arrangiati in collaborazione con il sodale di sempre, Valerio Gaffurini (piano, programming, excetera). Inciso, tra il Cromo Studio e i Mac Wave Studio di Paolo Costola, l’album vede la partecipazione di Nicola Mazzucconi (basso), Alberto Pavesi (batteria), Stefano Grazioli (fiati), Eugenio Curti (chitarre) e Stefania Martin (voce e cori). Rispetto ai lavori precedenti dove si coglieva quello che è stato definito come “romanticismo approssimativo”, questo nuovo lavoro coglie ed esalta il lato più poetico e raffinato del songwriting di Alessandro Ducoli, svelandoci le nuove coordinate di un cammino intrapreso con le atmosfere minimal di “Divanomachia” nel 2016 e proseguito con il crepuscolare “Diavoli e contrari” del 2018. Nuove latitudini da esplorare, insomma, da cui ha preso vita quello che il Ducoli stesso ha definito come “un lavoro sfacciatamente romantico”, ma che andando a fondo si scopre essere una raccolta di canzoni sull’amore declinato in tutte le sue sfaccettature, un lavoro come se ne ascoltano troppo pochi di questi tempi e che ci riporta indietro nel tempo alla migliore stagione della canzone d’autore italiana. Ad impreziosire il tutto è la voce intensa ed espressiva del cantautore bresciano, incorniciata da arrangiamenti diretti, essenziali ma allo stesso tempo curati nei dettagli in cui chitarre, pianoforte e Hammond sono supportati da una impeccabile sezione ritmica. Il disco si apre con “L’addizione” una ballata rock dalla melodia sinuosa, a cui seguono la brillante title-track guidata dai fiati di Grazioli, e la superba “Il grande mistero” uno dei brani più belli di tutto il disco per costruzione musicale e per interpretazione. La melodia vagamente dixieland di “Brixia Mundi” ci introduce al singolo “Strega comanda colòr…”, il ritratto in chiaroscuro di una donna sconosciuta e bellissima, in grado di “togliere il fiato”. Se “La calma piatta” cattura per il suo ritmo trascinante, la successiva “Succo di mela” è una canzone d’amore nell’originale cifra stilistica di Ducoli, impreziosita da un Hammond che ne guida la tessitura melodica. Le atmosfere jazzy de “Gli angeli non sono normali” ci conducono verso il finale con la bella sequenza in cui ascoltiamo la gustosa “L’esistenza”, il lirismo de “Il divenire” e la riflessiva “Ero quello che ero” che chiude un disco di grande spessore, meritevole di quell’attenzione da parte della critica che troppo spesso ha mancato di riservare ai dischi di Alessandro Ducoli. L’uscita del disco è stata anticipata dal videoclip di “Strega comanda color…”, realizzato da Wladimir Zalesky con la collaborazione del fumettista Andrea Santonastaso, e dal docu-film che ripercorre le fasi realizzative dell’album e del quale sono stati pubblicati già sei estratti.
Salvatore Esposito
Foto di Andrea Migliari (1,2), Cinzia Scarsi (3,4,5), Davide Ferrazzi (6), Wladimir Zaleski (7,8), Paolo Brillo (9, 10)