WOMEX 21, Porto, 27-31 ottobre 2021

Cinque le venue dei concerti serali, il Teatro Sá Bandeira, per l’offWomex, mentre il Coliseu Stage, il settecentesco Teatro Nacional de São João (ha ospitato il Lusofónica Stage) e il Teatro Municipale Rivoli sono stati riservati alla selezione ufficiale. Infine, l’Ard Cub ha accolto il DJ set notturni. All’Alfândega do Porto, l’ex-dogana riconvertita in centro congressi, sede della fiera, si è tenuta la matinée degli showcase, che in maniera raccolta portano on stage, preceduti da una presentazione curata da giornalisti o musicologi, alcuni artisti che rappresentano uno stile o un mondo culturale. Qui, abbiamo apprezzato la giovane strumentista scozzese Brìghde Chaimbeul, originaria dell’isola di Skye, suonatrice di Smallpipes, la cornamusa a mantice dal suono scuro e ovattato. Dall’incedere ipnotico della piccola cornamusa all’austerità del duo di Sahid Pashazade, la cui pietra angolare sono i modi classici del mugham azero interpretati con il lito tar e il tamburo nagara. Il virtuosismo ha segnato il set di Tolgahan Çoğulu (chitarra microtonale) e Sinan Ayyildiz (saz a doppio manico). Il duo propugna un makam di gusto jazz, ibridando i modi classici anatolici con l’improvvisazione. Da seguire gli sviluppi della proposta di Ebo Krdum, cantante e chitarrista del Darfur, rifugiato in Svezia dal 2010, che si è esibito con una band svedese della quale è membro il polistrumentista Ale Möller (flauti e mandola), uno dei padri nobili del

folk scandinavo. È arrivata da lontano, da Okinawa, Aragaki Mutsumi, cantante e suonatrice di liuto snahin, la quale si è avvalsa anche di un apparato visual per condurci alla scoperta delle musiche e dei paesaggi delle isola del Mar Cinese Orientale. Non tacciateci di campanilismo se definiamo trionfale il recital di Maria Mazzotta, accompagnata alla fisarmonica da Antonino De Luca. L’artista salentina ha raccolto consensi unanimi tra gli addetti ai lavori per la sua presenza vocale forte e gentile, la rotondità di timbro e la versatilità che la contraddistingue, consentendole di raccogliere in più bacini canori, dalla canzone tradizionale a quella folk, fino al repertorio d’autore. Passando al cartellone principale, va osservato che la sovrapposizione di esibizioni, le procedure di accesso ai luoghi e di uscita dagli stessi, determinate dalle misure di controllo sanitario, nonché la pioggia insistente caduta su Porto per diversi giorni, hanno creato difficoltà in più a chi ha deciso di cedere alla bulimia sonora womexiana precipitandosi da uno showcase all’altro. Passando in rassegna quanto ascoltato, vogliamo iniziare dai live act più assimilabili a tradizioni folkloriche. Abbiamo scoperto Morgan Toney, esponente della first Nation di Nova Scotia che fonde il suo retaggio con la tradizione violinistica di Cape Breton. Sempre dal Canada, il trio Grosse Isle indaga gli incroci tra l’universo francofono quebecchese e quello 
degli irlandesi emigrati oltre oceano nel XIX secolo. Magnetica la ritualità terapeutica dello zar offerta dall’ensemble egiziano Mazaher (voci e tamburi), che per alcuni addetti ai lavori riapre il mai sopito dibattito su quanto si sviliscano manifestazioni tradizionali a carattere rituale messe su un palcoscenico. Tra le produzioni più radicali, da segnalare il mood prog-psych-folk del trio sud coreano Dongyang Gozupa (batteria, basso e cetra yanggeum) e quello balkan-funk-prog-impro dei serbi Naked, protagonisti di uno dei set più caldi della kermesse. Insomma, a smuovere passionalmente il pubblico internazionale è soprattutto chi rimescola linguaggi diasporici o è testimone di stratificazioni multiculturali: è il caso degli apolidi Ayom, viaggiatori tra Atlantico nero, Brasile, Africa lusofona e Mediterraneo, del suono gnawa-oriented Electric Jalaba o della world cool (pure troppo) dei Bokanté, mentre tenue è apparsa la proposta smooth e intimista dei Boi Akih. Non ci sono sembrate all’altezza di edizioni precedenti le proposte dal Centro Africa, ma abbiamo accolto con curiosità il virtuosismo un po’ circense dei sei musicisti ugandesi del Nakibembe Xylophone Troupe alle prese con l’embaire, uno xilofono gigante suonato simultaneamente. 
Per chi scrive, il vertice emozionale è stato raggiunto da due gruppi. In primis, il quartetto marocchino-francese Bab L’Bluz, guidato dalla carismatica front-woman Yousra Mansour. Fanno confluire ritmi gnawa, chaabi e hassani, elementi berberi e subsahariani che incontrano, felicemente, funky, rock e blues. Standing ovation pure per il trio svedese Northern Resonance, combinazione di inusitati strumenti: viola d’amore, hardangerfele, violino baritono e nyckelharpa. Per chiarire le coordinate di questo tripudio di archetti, diciamo che si tratta di un chamber folk che esalta le intersezioni timbriche create da bordoni, corde che vibrano per risonanza e passaggi improvvisativi. Cambiando scenario, va detto che hanno fatto ballare le connessioni mediterranee della pizzica di un altro salentino, Antonio Castrignanò, e divertito non poco le peregrinazioni sonore slave, ebraiche e rom del nutrito combo ucraino Hudaki Village Band. Trovandoci in Portogallo, non poteva che essere folta la presenza lusofona. È sempre un piacere ascoltare il veterano cantautore Vitorino, mentre, d’altra parte, abbiamo conosciuto il personalissimo sound del trio di O Gajo, suonatore della viola campaniça alentejana. Ancora, hanno preso la scena con padronanza le chanteuse Lucia de Carvalho e Neuza, la prima di origine angolana, la seconda capoverdiana. 
Sempre legato al retaggio dell’arcipelago atlantico Miroca Pais, cantante e polistrumentista dal potente groove. Gustosa la ricerca dell’ottetto Bandé-Gamboa. Rileggono canzoni classiche che hanno accompagnato l’indipendenza di Guinea Bissau e Capo Verde nel nome e nel segno del pensiero dell’intellettuale e politico Amilcar Cabral, irrobustendo gli stili locali funana e gumbé con stilemi latino-americani e panafricani. Non si è potuto fare a meno di omaggiare un altro veterano, il bahiano Mateus Aleluia, mentre gli appassionati di chitarra non hanno mancato i set dell’altro bahiano Lucas Santtana e di Daniel Casares con il suo flamenco contemporaneo. Un altro recital fascinoso dalla marcata teatralità è stato proposto da Lina_Raul Refree che sostituiscono le corde, elemento strumentale caratterizzante del fado, con piano, synth e innesti elettronici dark e minimali. Sempre in tema di forza scenica sorprende il performer asturiano Rodrigo Cuevas, mentre il trio galiziano di pandereteiras Tanxugueiras è apparso molto poco incisivo nella performance che giocava sull’incontro tra elettronica, peraltro un po’ datata, ritmi e polivocalità tradizionali. Tutte donne anche le basche Amak che mischiano voci, adufe e trikitixa attingendo a materiali tradizionali e originali. 
Ancora donne, ma questa volta dalla Bassa Slesia: le polacche Kosy mettono insieme quattro donne di diversa estrazione artistica – folk, jazz, classica e teatro d'avanguardia – per riscoprire repertori dimenticati della musica tradizionale regionali con voci, tamburi sciamanici, percussioni, armonium e violini. Quanto al mondo arabo e mediorientale, esso è stato rappresentato dalle flessuose tessiture della flautista siriano-francese Naïssam Jalal & Rhythms of Resistance che toccano modi arabi, jazz e classicismo, dal quintetto femminile Atine alle prese con composizioni che attingono alla musica d’arte persiana e dal sestetto di Amir Amiri, suonatore di santur iraniano-canadese. Approdando in America Latina, segnaliamo la proposta dello trio femminile La Perla con il florilegio di repertori colombiani, la destrezza della suonatrice cubana di tres Yarima Blanco e il folklore futurista digitale della diva argentina di residenza newyorkese Sofia Rei, accompagnata da un band di gran tiro e da troppo robuste dosi di basi che riproducono strumenti della tradizione andina. Se è vero che di anno in anno il Womex manda segnali politici attraverso i temi trattati nelle conferenze e la programmazione cinematografica, non meno motivata di istanze sociali è la scelta della personalità a cui conferire l’Artist Award. 
Nel 2020, nell’Ungheria sovranista di Orbán, era stata l’artista Mónika Lakatos Rom Oláh a ricevere il riconoscimento, quest’anno è toccato a un’altra esponente di una minoranza a lungo discriminata, Aynur, cantante e compostrice curda, nata in Turchia ma residente in Olanda. Personalità vocale duttile, folklorista impegnata fin da giovane nella valorizzazione dei repertori tradizionali curdi, Aynur ha ricevuto il Premio nella domenicale cerimonia conclusiva al Tivoli, che ha gratificato anche il network di Global Music Match e le venti più importanti label world music, scelte sulla base della presenza di loro produzioni nella Transglobal World Music Chart e la World Music Chart Europe. Dopo la consegna dei Premi, Aynur si esibita accompagnata da piano, bağlama, clarinetto, contrabbasso e percussioni, conducendo un set raffinato ma vibrante al contempo, che coniuga espressioni musicali del Kurdistan e stilemi jazz. Il World Wide Music Expo resterà in terra lusitana il prossimo anno, sposandosi nella capitale: “Te vejo em Lisboa”.


Ciro De Rosa

Foto di Yannis Psathas, Jakob Crawfurd e Ric Van Nieuwland courtesy of Womex

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