Pianista e compositore statunitense, considerato uno dei massimi improvvisatori della scena jazz internazionale, Craig Taborn sfugge a qualsiasi etichetta artistica che, semplicisticamente, si tenti di applicargli, e questo per la sua straordinaria duttilità stilistica e tecnica e per la costante tensione nella ricerca di nuove frontiere da esplorare. Tutto ciò è il frutto di una stratificazione di esperienze artistiche al fianco di strumentisti del calibro di James Carter a Roscoe Mitchell, Dave Holland, Chris Potter e Vijay Iyer, ma anche di una solida formazione accademica che gli ha consentito di misurarsi ad armi pari con i suoi riferimenti artistici, sin da giovanissimo. Nel corso degli anni la sua discografia si è arricchita di album di grande spessore da quelli con il gruppo Heroics in cui a spiccare era la sua abilità nell’utilizzo dell’elettronica, a “Chants” in trio con Thomas Morgan e Gerald Cleaver per toccare quel capolavoro che era “Avenging Angel”, opera prima in solo che raccolse unanimi consensi da pubblico e critica, rispecchiando il multiforme immaginario sonoro del pianista americano. A dieci anni di distanza da quest’ultimo e ad un anno dalla pubblicazione di “Compass Confusion” del suo quintetto Junk Magic, Taborn pubblica il seguito di “Avenging Angel” dando alle stampe “Shadow Plays”, concerto completamente improvvisato e registrato dal vivo nel marzo 2020 alla Konzerthaus di Vienna. Presentato in cartellone non casualmente come "Avenging Angel II”, questo nuovo album in solo vede il pianista statunitense immergersi in un infinito universo fatto di suoni, forme, colori e silenzi da cui prende vita la sua vibrante ispirazione creativa. Rispetto al disco di dieci anni fa, l’ispirazione ha conservato la sua febbrile creatività aprendosi ad una ricerca ancor più metafisica che si concretizza in sette brani per oltre settanta minuti di musica straordinariamente visionaria, in cui non vi è mai alcuna concessione al virtuosismo fine a sé stesso. Ogni traccia si sviluppa su idee progettuali ben precise che sono la base di partenza per un instant composing geniale e dalla natura mutevole in cui si susseguono ardite esplorazioni ritmiche e timbriche. Ad aprire il disco è l’ostinato di “Bird Templars” tutta giocata su equilibri instabili e che prosegue per diciassette minuti in cui si alternano prepotenti vertigini sonore e silenzi. Se in “Discordia Concors” emerge un tema di matrice orchestrale in cui spicca la sontuosa ricerca armonica e melodica, la successiva “Cospiracy of Things” ha una struttura bop che si snoda tra incursioni nel free ed aperture verso la melodia. Si prosegue con la ballad sperimentale “Concordia Discors” in cui non mancano imprevisti ritmici e melodici e la sontuosa title-track che ci conduce verso il finale con le atmosfere quasi psichedeliche di “A Code With Spelle” e l’immaginifica incursione nel free jazz di “Now In Hope” che suggellano un disco dalla statura del classico, un documento sonoro prezioso che avrebbe meritato anche un compendio video.
Salvatore Esposito
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