L’opera di Angelo Frascaria di cui tratterò in questo articolo, Essere stati quaggiù. Il canto all’altalena nel paesaggio sonoro di San Nicandro Garganico (con due cd audio allegati, Edizioni del Rosone) riveste molteplici motivi di interesse.
In primo luogo restituisce i risultati di un’ampia ricerca sul campo incentrata su un significativo repertorio di canti tradizionali (Canzónë dë ndràndëla), funzionale al lasciarsi oscillare sull’altalena – pratica in molti casi collegata al “gioco” del corteggiamento – che, fino alla metà del secolo scorso, veniva eseguito nel periodo compreso tra il Sabato Santo e la Pentecoste, secondo uno specifico modello performativo. L’indagine, durata 10 anni, dal 2006 al 2016, è stata effettuata a San Nicandro Garganico ed ha coinvolto oltre 80 informatori.
A partire da questi repertori, Frascaria affronta più complessivamente il vasto patrimonio etnomusicale della cittadina garganica, dal secondo dopoguerra oggetto di numerose e qualificate indagini, a cominciare da quella, per molte ragioni “fondativa”, di Alan Lomax e Diego Carpitella del 1954. Successivamente se ne interessarono – solo per citare i più importanti – ancora Diego Carpitella con Ernesto de Martino nel 1958, Remigio De Cristofaro, Ettore De Carolis, Leo Levi – che si concentrò, sempre con un’attenzione specifica alle pratiche musicali, sulla singolare vicenda degli ebrei “autoconveriti” (su cui si può consultare lo splendido libro dello storico inglese John A. Davis, Gli ebrei di San Nicandro, Giuntina 2013; ed. or. 2010) – e Giovanni Rinaldi con Paola Sobrero, che documentarono in particolare il repertorio del Ditt, rappresentazione drammatica in versi dialettali eseguita a Carnevale. Insomma, un luogo molto ben studiato, anche se solo in parte tali preziose ricerche hanno avuto poi una pubblicazione dignitosa.
Nel primo capitolo, l’autore offre una ricostruzione affascinante e minuziosa di tali campagne di documentazione, attingendo a fonti ricche e variegate, con alcuni approfondimenti molto significativi, come quello relativo alla storia dell’uso della chitarra battente a San Nicandro, le cui tracce si perdono nella prima metà degli anni quaranta del Novecento, ricomposta attraverso memorie orali, cronache, articoli di giornale e vecchie foto. In seguito all’uscita dall’uso di tale strumento, per conservarne almeno parzialmente i repertori, alcuni suonatori adattano progressivamente la chitarra “francese” alle suonate “a battente”.
Successivamente, viene condotta una vera e propria ricognizione geografica del canto sull’altalena, un fenomeno di recente documentato sul Sub Appennino Dauno, con specifico riferimento al periodo carnevalesco (cfr. Patrizia Balestra, Sciamboli e canti all’altalena, Squilibri 2010) e in particolare a Volturino, dove è attestata la presenza degli sciàmbulë, a Biccari con gli nzammarùchëlë, in cui la coppia di “dondolanti” è formata per lo più da donne, e a Motta Montecorvino con gli sciàmbëlë. Ma repertori simili sono stati registrati anche a Fossalto in Molise (cfr. Mauro Gioielli, Le altalene cantate della tradizione molisana, Il Quotidiano del Molise, 18 febbraio 2019), in Basilicata (a Grottole, Pisticci, Ferrandina, Stigliano e Tricarico) e in Abruzzo (Civitella e Civitella Messer Raimondo nel teatino). Inoltre, incrociando occorrenze bibliografiche e d’archivio, ne sono state trovate tracce in altri centri della Capitanata e della terra di Bari, poi in Italia meridionale da Pontecorvo fino al cosentino, ma anche Estonia, Finlandia, Russia, Grecia, Spagna, Marocco.
A San Nicandro il canto sull’altalena si eseguiva dal Sabato santo alla Pentecoste. L’altalena era sospesa alla trave di casa, in direzione dell’ingresso, e ospitava una coppia di ragazze che si alternavano cantando, verso dopo verso, un’ottava di endecasillabi, attinta da un vasto repertorio di testi verbali chiamati sunetti. Le prime testimonianze, con testi e trascrizioni musicali, si trovano negli studi di alcuni folkloristi pugliesi (Michele Vocino e Saverio La Sorsa). Analisi dei canti sull’altalena, corredate a volte da interviste, sono allo stesso modo presenti nelle raccolte storiche, dalla Lomax-Carpitella in poi.
Facevano parte di questi repertori canzoni d’amore e canzoni di ingiuria, sotto diversi e significativi aspetti analizzate da Frascaria. L’altalena, in occasione della scampagnata del lunedì di Pasqua, veniva issata su un albero e potevano trovarvi posto un uomo e una donna. Tale pratica “pasquale” fu mutuata anche dalla già citata comunità “neoebraica” capitanata da Donato “Levi” Manduzio, ed era eseguita durante la Pesach e in altre feste del calendario ebraico, con singolari testi a tema religioso epurati dalla funzione di corteggiamento. I canti sull’altalena erano diffusi anche in altri centri del Gargano (si trovano testimonianze a Monte Sant’Angelo e a Peschici), a volte in periodi diversi e con specifiche varianti.
Il terzo e quarto capitolo sono dedicati ad approfondire la struttura e le modalità di funzionamento del canto sull’altalena nel contesto popolare di San Nicandro. I momenti in cui venivano praticati erano fra le poche occasioni in cui gli “amanti” potevano comunicare: il canto diventava così lo strumento privilegiato per il corteggiamento. L’altalena veniva montata in casa, e alla fune si appendeva l’asse per lavare i panni. Potevano “dondolarsi” coppie dello stesso sesso o miste, e intorno si svolgeva una vera e propria festa, con familiari e vicini. Fuori si radunavano i ragazzi che si candidavano a spingere l’altalena e i giovani innamorati per ascoltare la voce dell’amata, in un “gioco d’amore” che viene spesso ricordato dagli anziani con molta nostalgia. Nei canti si ricorreva a testi d’amore e d’ingiuria, di celebrazione della bellezza femminile, di lagnanza dell’amante respinto, scherzosi e satirici.
Ad arricchire ulteriormente il lavoro di Angelo Frascaria sono i due cd allegati, con una preziosa selezione di musiche e canti esemplificativi del ricchissimo patrimonio etnomusicale sannicandrese: canti lirici, canti narrativi, repertori “delle barberie”, ballabili, serenate, tarantelle, canti della Settimana Santa eccetera, tutti con trascrizione in dialetto e traduzione in italiano (e su cui scrive delle preziose Annotazioni Walter Brunetto). Quelli con maggiore profondità storica risalgono al 1966, relativi alla ricerca di Remigio De Cristofaro; seguono materiali degli anni sessanta e settanta fino a documenti più recenti. Straordinaria anche l’imponente appendice di 117 foto storiche, che documentano aspetti e contesti della vita cittadina, ma soprattutto occasioni festive, rituali e musicali della comunità.
Relativamente a questa tradizione, si può infine segnalare una interessante e problematica connessione – non riportata da Frascaria – con alcuni rituali legati al tarantismo e attestati in Dalmazia, sull’altra sponda dell’Adriatico, di cui ho trattato nel mio recente Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale (Itinerarti). La riporta Alberto Fortis, geologo e naturalista padovano del Settecento, che realizzò diverse visite nella antica Dalmazia (attuale Croazia), i cui risultati confluirono nell’opera Viaggio in Dalmazia, pubblicata nel 1774. In un capitolo dedicato agli “insetti nocivi” del territorio di Traù, località della costa, Fortis scrive di “una spezie di tarantola, similissima a quella di Calabria e di Puglia”, “conosciuta sotto il nome di pauk”, che “nella stagione ardente” colpisce frequentemente i contadini. Il rimedio usato “per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori prodotti dal veleno del pauk” è di “mettere gli ammalati a sedere su d’una fune non tesa, ben raccomandata da’ due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore; rimedio analogo alla danza de’ tarantolati pugliesi.”
Vincenzo Santoro