La Municipàl – Per resistere al tuo fianco (luovo/Artist First, 2021)

Mi piace sempre immaginare la musica (e, più che altro, la scrittura della stessa) come materiale resistente. L’accezione è relativamente partigiana, e non è riferita solo alle canzoni schierate o politiche: spesso si diventa resistenti tramite il “semplice” atto della scrittura stessa, quando, cioè, un pezzo riesce a raccontarsi mantenendo, al contempo, una narrazione nitida del circostante a fare da sfondo. È un elemento che c’entra con la capacità fotografica che la forma-canzone stessa può avere, e che, in casi del genere, abbina alla classica abilità letterariamente fotografica, anche una abilità storicamente fotografica, che fa quasi da documento storico della sua contemporaneità, quale che essa sia. Parlo di resistenza e di capacità fotografiche perché sono due degli elementi che compongono “Per resistere al tuo fianco”, ritorno discografico de La Municipàl, che arriva a due anni di distanza da “Bellissimi difetti” ed a sei dall’esordio di “Le nostre guerre perdute”. Nuovo lavoro, questo del duo salentino, che prosegue nel segno di un pop-rock raffinato ed elegante, aperto proprio dalla title track, uno strumentale scandito inizialmente da un languido synth, su cui poggiano chitarra e basso. L’entrata della batteria è la definitiva scintilla che fa scoccare il crescendo finale, sottolineato anche dai cori. Un riff di chitarra elettrica, contrappuntato da synth a tinte noir e rimarcato da una profonda linea di basso, trascina “Per resistere alle mode”, brano che diventa, in qualche modo, il manifesto di questo nuovo capitolo musicale firmato Carmine ed Isabella Tundo, con quel “Resteremo al buio per sentirci meglio/perché le mode cambiano e tu resti fermo/a cercare le risposte dritto nello specchio” che suona decisamente programmatico. A seguire c’è “Se io fossi come te cambierei il mondo”, traccia dall’afflato duplice, con le strofe dai colori quasi foschi ed i ritornelli che aprono melodicamente. Splendida la linea di basso, che fa da collante fra i vari elementi, in una dinamica sorretta ritmicamente dallo strumming della chitarra e squarciata dai fraseggi blueseggianti della chitarra elettrica, così come perfettamente riuscito è l’incastro vocale fra Carmine ed Isabella. “La terza stagione di Dark” è un piccolo gioiellino di cupezza musicale, con uno scurissimo muro di synth su cui si abbatte una densa linea di basso, mentre gli arpeggi di chitarra e piano addolciscono, alternativamente, il clima tempestoso. Brano che è un ottimo esempio di capacità fotografica: il crescendo che accompagna il ritornello è un turbine sonoro che si sposa perfettamente con quel “Perché a volte la mia testa si sbriciola/sulle rughe del tuo collo e precipita/Quando ti cerco nel buio/dentro un loop temporale/a volte vorrei sparire/ dentro un’altra stagione”. “Finisce qui” è, letteralmente, la proverbiale “quiete dopo la tempesta”, non solo nei temi trattati, ma anche nella sua struttura musicale: uno strumming leggerissimo, quasi accennato, di chitarra classica, che poggia su un lievissimo tappeto di synth, incontra un pattern ritmico fragile e soffuso, mentre un arpeggio di chitarra elettrica fa da elemento di dinamismo. N “L’Orsa Maggiore” (“Alzo gli occhi al cielo e tu sei lì come una stella polare/ il nibbio sta cantando, lo ascoltiaemo un po’/l’aurora sta arrivando e presto arrossirò/l’estate sta finendo ed io mi sento sempre un bambino”) tornano timbri più movimentati e tirati, con un interessante incastro fra lo strumming dell’acustica e l’arpeggio, poi fraseggio, dell’elettrica, sostenuti da un basso vorticoso, ed una deflagrazione di synth ed elettronica che esplode nel ritornello. “Al diavolo” è quasi la diretta continuazione del pezzo precedente: clima infuocato, scandito da un basso martellante e dalle schitarrate elettriche, che si sposano perfettamente con un testo rabbioso ed incessante. A seguire troviamo “Quando crollerà il governo”, probabilmente l’episodio più bello del disco, già dal suo saper miscelare così bene venature da cantautorato classico (la chitarra classica che fa da traino ritmico di tutta la canzone) a sonorità più alternative ed elettroniche (fra synth, e- bow e spruzzate di elettronica). Il testo è l’esatta concretizzazione di quanto detto all’inizio, con il racconto di una vicenda personale, con i suoi tempi ed i suoi momenti, cui fa da sfondo il tempo storico universale: la riuscita dell’operazione letteraria è di altissimo livello, e regala versi come “Un altro ottobre se n’è andato/con un treno verde e blu/Era un intercity sgangherato/Sai, le frecce fanno schifo al sud”, o anche “Ma quando crollerà il governo/Ti prego non crollare più/Perché le band si sciolgono/Ed io mi sento fuori posto senza te/E me ne resterò qua giù/A marcire con gli ulivi/Che quasi non ci sono più/E a scrivere canzoni tristi/Per sentirmi meno inutile/Ma cosa poi ne vuoi sapere tu”, per chiudere con i versi che, forse più di tutti gli altri, identificano l’intero lavoro, “Faremo finta di volerci bene/O ci vorremo bene ancor di più/ Diventeremo i vecchi del paese/Che si ribellano ai fascisti e che resistono al moderno”. “Fuoriposto” è una canzone dall’atmosfera paludosa, a tratti asfissiante, resa perfettamente da un densissimo tappeto di sintetizzatori ed elettronica, da cui emerge, a fatica, un arpeggio di chitarra acustica. Un altro bell’incontro fra acustico ed elettrico si concretizza su “Canzone d’addio”, che vede una potente linea di basso ed uno strumming di chitarra acustica a rincorrersi lungo le trame ritmiche del pezzo, mentre i fraseggi distorti dell’elettrica bucano la base melodica costruita da sintetizzatori ed elettronica. A chiudere l’album è “Che cosa me ne faccio di noi”, che si lega a filo diretto con il precedente, fino a diventare, in qualche modo, la prosecuzione. Un bel crescendo, che parte da una tastiera solitaria, incontra un basso inarrestabile, e finisce con una schitarrata elettrica, costituisce, probabilmente, il passaggio più classico dell’intero lavoro, su cui, però, poggiano degli splendidi voli letterari: “Che cosa me ne faccio/ se non ci capiamo più/ Se a volte dentro al cuore ho una svastica/ che punge dentro al petto e mi lacera i polmoni/ e vorrei strapparla fuori/ pisciarla in faccia a quei signori”. In conclusione, come accennato sopra, il ritorno di Carmine ed Isabella Tundo porta in dote un lavoro intenso in molti dei suoi passaggi, una sorta di anabasi e catabasi sentimentale, con un uso intelligente ed elegante dell’elettronica, e con una scrittura che, nei suoi elementi più fotografici e, a tratti, evocativi, trova il trait d’union con il mondo più puramente cantautorale. Insomma, un album ben scritto, ben cantato, ben suonato e ben strutturato. 


Giuseppe Provenzano

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