George Harrison – All Things Must Pass 50th Anniversary Edition (Universal, 2021)

Il capolavoro di George Harrison vive una nuova vita grazie a questa anniversary edition, curata dal figlio Dhani e da Paul Hicks, la quale celebra il cinquantesimo dall’uscita e, a ben vedere, anche altri due anniversari: i venti anni dalla morte dell’autore e i cinquant’anni del Concert for Bangladesh. Hicks – musicista e ingegnere del suono – è da tempo impegnato, insieme a Giles Martin, agli studi di Abbey Road nel lavoro di preservazione dell’intero catalogo dei Beatles. Ed è membro della band Thenewno2, di cui Dhani Harrison è il chitarrista e il cantante. Quest’ultimo ha affrontato e coordinato il progetto della riedizione partendo da poche ma chiare necessità. Innanzitutto, “condurre” i brani originali di “All Things Must Pass” al presente, trattandoli in modo tale da renderli più puliti e contemporanei, sul piano del suono e, in generale, della produzione. Questo – come si può immaginare – ha significato soprattutto (ma non solo) riconsiderare il lavoro di Phil Spector, il quale aveva curato la produzione dell’album con il suo marchio di fabbrica “Wall of sound”. In secondo luogo, l’album (lo ricordiamo per amore dell’ordine narrativo, uscito nel novembre del 1970 e considerato da critica e pubblico il migliore tra quelli pubblicati dagli ex Beatles a ridosso dello scioglimento) “nascondeva” molto lavoro. Per questo i curatori hanno aperto lo scrigno, portando alla luce una buona parte del processo di realizzazione. Processo che – come spesso accade – ha compreso versioni alternative e demo registrate con alcuni dei musicisti che Harrison chiamò a raccolta, nei primi mesi del 1970, agli Abbey Road Studios. Come è noto, “All Things Must Pass” conteneva già nella sua versione originale il terzo LP “Apple Jam” (che si aggiungeva al doppio che conteneva i diciassette brani) di versioni strumentali. Insomma, il materiale era ingente anche in origine, ma l’edizione del cinquantennale è un’altra cosa. Anche in considerazione di ciò che Dhani Harrison considera le volontà del padre, il quale non fu mai convinto fino in fondo (come ha dichiarato più volte nel corso degli anni) della qualità dei brani compresi nell’album – qualità che imputava soprattutto ai riverberi di Spector – e proprio negli ultimi mesi della sua vita si impegnò, purtroppo non come avrebbe voluto, a curarne l’edizione del trentennale. Sulla scorta di queste considerazioni e dei molteplici “caratteri” dell’album – attraverso cui Harrison si emancipò definitivamente dai Beatles, inserendo ogni influenza a lui cara: dal folk al rock, dal cantautorato politico alla world music, al soul e al gospel – l’edizione del cinquantennale ha assunto, allora, i tratti di un grande ritratto dell’artista e del tempo in cui ha concepito il suo capolavoro. Se da un lato, infatti, con “All Things Must Pass” la storia dei Beatles si incrina ulteriormente dal suo interno – perché porta alla luce brani che Harrison aveva scritto a quei tempi e che non furono pubblicati perché considerati non all’altezza di quelli di Lennon e McCartney – dall’altro lato pone il chitarrista di Liverpool sul piedistallo dei grandi musicisti che, con una buona dose di coraggio e forza, anticipa visioni e forme della musica del decennio appena aperto. Per questo, nella sua edizione più completa – che comprende, tra le altre cose, quarantasette demo recordings (per la maggior parte mai pubblicate), outtakes e studio jams – il nuovo “All Things Must Pass” rappresenta anche un documento storico, la cui scrittura è affidata ai più grandi musicisti che in quegli anni calcavano la scena musicale mondiale. Tra questi, oltre a The Band e Delany & Bonnie, che hanno influenzato fortemente la scrittura di Harrison in quel periodo, possiamo citare: Bob Dylan (presente nell’album in diversi modi: Harrison vi include una sua versione di “If not for you”, pubblicata nell’album “New Morning”; con lui scrive, intorno al 1968, “I’d have you anytime” e a lui dedica “Behind that locked door”), Billy Preston (per il quale fu inizialmente scritta “What is life” e che pubblicò, sempre nel 1970, una sua versione di “All things must pass” con il titolo “All things (must) pass” nel suo album “Encouraging Words”), Eric Clapton (il quale incide parti indimenticabili di chitarra in brani come “Art of dying”, oltre a rodare, proprio in occasione delle session di registrazione dell’album, la collaborazione con i futuri Derek an the Dominos Bobby Whitlock, James Beck Gordon e Carl Radle), Leon Russel, Bobby Keys, Jim Price, Ringo Starr e Klaus Voormann. Oltre alle influenze rock, Harrison risente in modo profondo di una cultura spirituale che include, al di là delle specifiche dottrine, un forte sentimento di armonia e ricerca interiore, in alcuni casi ricondotto, attraverso soluzioni efficaci e non retoriche, alle esperienze personali di una pop star. Rientra in questa esperienza – che pratica fin da giovane e abbraccerà per tutta la vita – la sua grande passione per la cultura musicale indiana e, in generale, le riflessioni che hanno ispirato brani straordinari come “My sweet Lord” (un grande successo discografico, una grande rogna sul piano dei diritti, rivendicati dai Chiffons, ma soprattutto una grande sintesi della visione vedica ed ebreo-cristiana, oltre che una prova straordinaria di scrittura gospel), “Beware of darkness”, “Awaiitng on you all” e “Hear my Lord”. Nel corposo materiale che compone questa nuova edizione vi sono alcune perle che non si possono non segnalare. Non solo perché rispondono alle aspettative legate a un progetto così importante, ma perché riconducono George Harrison a sé stesso (se così si può dire). A quella formula basilare che scompare con la lavorazione e che può riemergere solo in casi come questi, dove si ridefinisce e si consegna a noi ascoltatori lo spazio del processo, del procedimento, dell’esecuzione primaria, fondamentale. In questo quadro, le versioni dei brani più famosi eseguiti con voce e chitarra, oppure con accompagnamento di batteria e basso elettrico, sono straordinarie. Mi riferisco soprattutto a “Wha wha”, “Run of the Mill”, “Beware of darkness” (comprese nella Day 2 demo), ma anche a brani strutturalmente e concettualmente differenti, come “Om Hare Om (Gopala Khrisna)”, “Ballad of Sir Frankie Crisp (Let it roll)”, “Apple scruffs” e “What is life” (Day 1 Demo). Tra le sorprese più belle vi è una versione rallentata di “Isn’t it a pity” (inclusa nella Session outtakes and jams/ take 27): il suo andamento uniforme e morbido riesce a concentrare, irradiandone i riflessi sull’album intero, la dolcezza straordinaria della scrittura e della melodia di George Harrison. 


Daniele Cestellini

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