E’ trascorso poco meno di un anno dalla pubblicazione del pregevole “Non avrai altro Dio all’infuori di me spesso mi ha fatto pensare. La buona novella di Fabrizio De Andrè, 50 anni dopo” e, seguendo la cadenza temporale a cui ci ha abituato, Mario Bonanno torna in libreria con “Il nemico non è. I cantautori, la guerra e il conflitto sociale”, corposo saggio edito da Edizioni PaginaUno nel quale, prendendo in prestito un verso de “Il monumento” di Enzo Jannacci, viene ricostruito il contesto storico-culturale in cui si è mossa la canzone d’autore tra gli anni Sessanta e Settanta, in relazione ai conflitti sociali e alla critica alla guerra. La prosa affabulatrice di Bonanno, unita ad una ponderosa ricerca tra fonti storiche e giornalistiche, ci conduce attraverso i dischi e le canzoni di due generazioni di cantautori. L’autore nell’introdurci alla trattazione pone in evidenza il cambiamento rivoluzionario che interessò la canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni del boom economico. Laddove, infatti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale si diffusero brani in Italia brani dai testi romantici e densi di rassicurante retorica, a partire dagli anni Sessanta lo scenario mutò e sulla spinta del folk revival americano, il Nuovo Canzoniere Italiano diede impulso alla canzone di protesta e al recupero dei canti di lavoro della tradizione popolare. Emersero figure di ricercatori, musicisti e cantautori come Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Paolo Pietrangeli e Pino Masi che con il loro dischi cantarono le proteste di studenti ed operai nel Sessantotto, segnando il passo nella canzone italiana del decennio. Parallelamente, dalla vitale scena musicale milanese, animata da Giorgio Strehler, Dario Fo, Nanni Svampa e I Gufi arrivò la riscoperta delle canzoni della mala, portate al successo da Ornella Vanoni. Scorrendo le classifiche di quegli anni, si coglie però qualcosa di diverso e forse sorprendente per chi non li ha vissuti in prima persona, esclusi i dischi di canti politici, “Tutti morimmo a stento” di Fabrizio De André e “Dio è morto” di Francesco Guccini, tra i dischi più venduti spiccano Mina, Lucio Battisti, i gruppi beat come Dik Dik e l’Equipe 84, Gianni Morandi e Albano. Insomma, la colonna sonora di fine anni Sessanta fu diversa, ma l’influenza che ebbe nella canzone d’autore degli anni Settanta fu straordinaria e prorompente. Vide la luce, infatti, una generazione di cantautori che legarono la loro poetica alla realtà che li circondava, opponendosi al disimpegno e alle logiche di mercato, ma soprattutto cantando le istanze e le lotte di una generazione. Bonanno coglie tutto ciò con grande efficacia, riportando i testi dei brani più emblematici, commentandoli con il suo proverbiale acume ed approfondendoli in rapporto agli eventi storici che segnarono quegli anni. Fabrizio De Andrè con “Storia di un impiegato” del 1973 colse lo spirito profondo del decennio precedente, evidenziando il divario crescente tra società civile e potere, l’incedere sempre più intenso della crisi che segnò successivamente gli anni dell’austerity. Una pietra miliare, dunque, non solo nella produzione del cantautore genovese ma anche nella canzone italiana, essendo un affresco in musica di un momento cruciale della nostra storia, finendo per anche per anticipare l’escalation di violenza degli anni di piombo. Bonanno ci guida, così, attraverso i dischi di Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli e Edoardo Bennato, mettendo in risalto il ruolo centrale giocato dalla canzone d’autore a livello sociale negli anni Settanta. Allo stesso modo, non manca una profonda riflessione sul conflitto tra potere e individuo, oggi svanito quasi nel nulla, ma all’epoca molto sentito. Molto dettagliata è anche l’analisi del movimento del Settantasette con le interviste con Claudio Lolli, Eugenio Finardi e Gianfranco Manfredi che completano un volume da leggere con grande attenzione.
Salvatore Esposito