Giacomo Sferlazzo – Marinmenzu (Autoprodotto, 2021)

Ci sono album che, per loro stessa natura, nascono prepotentemente liberi, senza nessun confine (anche musicale) immaginabile, come una specie di fiumana musicale - parafrasando Verga - che trascina tutto quello che incontra davanti, spinta solo dall’esigenza più straripante di comunicare qualcosa. Sebbene non legata direttamente al mare, la metafora rende bene l’idea della potenza di “Marinmenzu”, nuovo lavoro di Giacomo Sferlazzo. Addentrarsi nel suo mondo compositivo e letterario non è impresa facile, ma va tentata: ogni sua manifestazione artistica, probabilmente anche in virtù del suo essere, comunque, uomo di mare, è permeata da una inarrestabile volontà di raccontare e raccontarsi. Il disco, il cui titolo dalla duplice lettura rimanda al “mare immenso” o al “mare di mezzo”, arriva a tre anni di distanza dal precedente “Arrispigghiativi” e rappresenza l’ottavo capitolo di una carriera discografica ormai pluridecennale. Ad aprire l’album è la monumentale “La leggenda di Andrea Anfossi”, una vera e propria cantata in siciliano in due parti, per circa mezz’ora complessiva, che racconta delle peripezie di Andrea Anfossi, uomo di mare che, fatto prigioniero dai saraceni, riuscì a far ritorno ad Arma di Taggia, suo paese natale, fuggendo da Lampedusa, luogo della sua cattività. Grazie ad una rudimentale imbarcazione, su cui issò come vela una tela, trovata sull’isola, con sopra l’effigie della Madonna, una volta messosi in salvo, fece costruire, come ex voto, il Santuario, per l’appunto, della Madonna di Lampedusa. Questa lunga cantata racchiude tutti gli umori, i suoni e gli odori che accompagnano e scandiscono questo viaggio lungo il “mare immenso”: si va dai sapori antichi del cuntu dei cuntisti, con la sua metrica serrata ed incessante, agli altissimi squarci dei friscaletti e delle ciaramedde, per continuare con i colori del Nord Africa, cadenzati da una vorticosa tempesta ritmica di darbuka e bendir e contrappuntati dai ricami di oud, duff e tar-hu, ad episodi segnati dal semplice incastro fra chitarra acustica e voce. A fare da perfetto contraltare al sapore antico del racconto di Andrea Anfossi troviamo “Come un mare gravido di sogni”, che vede la partecipazione di O’ Zulu, dai 99 Posse con furore, un vero e proprio spoken word a nuances elettroniche, in cui la trama ruvida del tappeto di elettronica, squarciata dai contrappunti di tromba e violoncello, si sposa perfettamente con un testo non meno duro: “Un’isola violata nel profondo delle viscere/con un muro davanti che sembra l’unico paradiso dove andare a schiantarsi/Così nei giorni della passione di Cristo/Il vento sanguinava dopo aver partorito mostri”. A seguire troviamo “Give me the oil and take the slaves”, che monta, su un tappeto musicale segnato dal sapore arabo di bouzouki e riqq, un emotivamente devastante cut-up di messaggi vocali che ragazze e ragazzi africani prigionieri nei lager libici hanno spedito, nell’ambito del progetto “Exodus - fuga dalla Libia”, a Michelangelo Severgnini. Un pezzo coraggiosissimo, che, nel mettere al centro le voci di chi vive quotidianamente quegli inferni in terra, diventa un vero e proprio j’accuse verso il parlare a vanvera di immigrazione. Con “Live in Alivi” si ritorna al flusso narrativo che è il fil rouge di questo lavoro: un poema, diviso in quattro parti (“Un uomo parla agli ulivi”, “Cristo tra gli ulivi”, “Un soldato israeliano parla agli ulivi”, “Gli ulivi parlano all’umanità”), che racconta, seguendo le trame di un recitato appassionato, dello sradicamento degli ulivi palestinesi, perpetrato dai soldati israeliani. Poema che, musicalmente, attraversa panorami che vanno dal free-jazz all’afro beat, fra linee di basso dai groove vorticosi e dinamici, pattern di batteria infuocati, trame arabeggianti tessute da oud e tar-hu, profondi e gravi tappeti di tromba e trombone e gli improvvisi squarci del sax imbizzarrito di Daniele Sepe. “Questa gente di Palestina ha radici simili alle nostre. Noi siamo la loro identità, perché siamo la stessa cosa. Anche voi siete la loro identità, ma non lo volete vedere. I vostri signori vi hanno reso schiavi della loro pazzia. I vostri signori vi comandano e voi eseguite. Voi uccidete bambini, vecchi, donne, uomini. Noi benediciamo questi morti con il suono del vento che passa tra le nostre foglie” sono solo alcuni dei versi di un testo che è una palla di cannone, per potenza delle immagini raccontate, carica interpretativa, e messaggio. A chiudere l’album ci pensa “Lac” (in traduzione, “Un lago è un’isola d’acqua/ Un’isola è un lago di pietra/ Ciò che separa non è l’ostacolo all’unione/ Ma il suo prologo contundente”), poesia dello stesso Sferlazzo, tradotta in francese da Gerard Gourmel, ed interpretata da Chiara Locardi, a sua volta anche arrangiatrice della parte musicale del brano, composta da suoni campionati di lavatrice e da un pattern di percussioni, che regalano alle parole un’atmosfera densa e viscosa, a tratti quasi industriale ed asfissiante. Siamo di fronte ad un lavoro coraggiosissimo, che, proprio per la sua ostinata assenza di confini, è politico nel senso più alto e completo del termine: rivendica, innanzitutto, l’importanza del racconto, rimettendolo al centro e sottintendendogli, come condizione necessaria, quella di un ascolto consapevole ed attento. Altra scelta di campo è l’esplorare una infinità di mondi musicali, di suoni, di atmosfere, di linguaggi, interpretati sempre a partire dalla tradizione, per arrivare a riletture personali e mai banali. E, infine, è politico il messaggio civile che manda, quello racchiuso nell’enorme e crudo racconto di un sud, uno dei tanti sud del mondo, che, nonostante le sue catastrofi, è unito da un immenso mare di mezzo.


Giuseppe Provenzano

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