Nel suo tour lungo il versante orientale dell’Africa del 2009, Omar Sosa e l’ingegnere del suono Patrick Destandeau fissarono numerose registrazioni di gran strumentisti locali in sette Paesi. Ora, l’infaticabile giramondo pianista cubano, con i suoi fedeli musicisti Christophe ‘Disco’ Minck e Steve Argüelles, ha realizzato un album che è una sorta di “pellegrinaggio alle fonti”, dove la sua curiosità musicale si traduce in straordinari dialoghi tra timbri, lingue e repertori. Omar Sosa (pianoforte, percussioni, kalimba e voce) interagisce con i malgasci Rajery (valiha e voce) e Monja Mahafay (marovany, lokanga e voce), lo zambiano Abel Ntalasha (kukumbu e voce), il kenyota Olith Ratego (nyatiti e voce), il sudanese Dafaalla Elagh Ali (tambur), l’etiopico Seleshe Damessae (krar e voce), il burundese Steven Sogo (umuduri e voce) e il mauriziano Menwaar (ravanne). Abbiamo raggiunto il compositore di Camagüey per approfondire questa nuova sorprendente fusion.
Come definiresti “An East African Journey”?
Ho sempre considerato tutta la musica che ho generato fino ad oggi un pellegrinaggio verso la musica africana, come ho detto in altre occasioni, non mi vedo fare musica che non sia legata all’Africa. Lei e il suo meraviglioso, ricco e squisito mondo musicale è senza dubbio la più grande fonte di ispirazione nel mio mondo creativo.
“An East African Journey” è la conclusione di un momento della mia vita e il punto di partenza per continuare a scoprire le mie radici e la magia della musica e dell’arte africana.
Hai studiato percussioni a Cuba e hai detto che il pianoforte ti ha dato la possibilità di suonare ottantotto tamburi. Quale il tuo approccio alla musica con cui interagisci?
Penso sempre alle percussioni e al ritmo quando faccio musica. Ho sempre sentito di essere un percussionista a cui piace suonare il piano e ha trovato un modo di esprimersi attraverso questo strumento che considero il più completo di tutti perché in 88 tasti hai tutta l’orchestra quasi dentro lo strumento.
Si può considerare un ulteriore passo nella sua idea di integrazione delle culture?
Ho sempre creduto che la diversità è sviluppo e l’integrazione senza dubbio ci fa conoscere meglio i nostri simili e quindi possiamo capire meglio i nostri diversi mondi culturali che spesso segnano le differenze ancora di più in questi tempi dove l’individualismo ci allontana costantemente dalla magia dell’apprendimento collettivo, dell’integrazione e della conoscenza di altre culture: qualcosa che dovrebbe far parte del sistema di istruzione obbligatoria in tutto il pianeta. Penso che ci renderebbe più tolleranti e meno arroganti come esseri umani, perché daremmo semplicemente
il valore che – a mio modesto parere – merita qualcosa chiamato spirito e sembra che non sia una priorità in questo mondo che fino ad oggi abbiamo costruito o distrutto insieme…
Tutto è iniziato nel 2009 con il documentario "Souvenirs of Afrique", cosa è successo da allora?
Tutto è iniziato quando l’Alliance Française, la mia agenzia di booking 3D Family di allora e il mio ufficio di management negli Stati Uniti hanno organizzato un tour in otto paesi dell’Africa orientale per presentare il progetto “Afreecanos”. Dal primo momento una delle mie priorità è stata quella di trovare un modo per registrare i musicisti tradizionali in ognuno dei paesi che avrei visitato e poi la casa di produzione Barking Dog si è interessata a seguire il progetto, culminato nel documentario “Souvenirs of Africa”. Oltre a registrare i musicisti in ogni paese, l’idea era anche quella di poter suonare e condividere con loro, cosa che è stata possibile in Sudan e in Etiopia. Avendo fatto le registrazioni in Africa allora, ciò che mancava era mettere i nostri colori… . All’inizio la mia inclinazione era di lavorare su questi temi con un’orchestra d’archi femminile, ma ogni volta che mi sedevo a scrivere sentivo che non era necessaria tanta informazione, fondamentalmente perché la musica registrata già brillava da sola. Il che mi ha fatto rinunciare e supporre che non ero pronto per una tale avventura sonora, finché un giorno del 2018 a Parigi con Steve Agüelles (il mio produttore) nel suo studio, più una buona bottiglia di vino naturale e un buon formaggio abbiamo deciso all’unisono che la filosofia del progetto sarebbe stata minimalista, dove “Less is More”. Così quello che mancava allora era di mettere il nostro apporto, tenendo conto della filosofia scelta e insieme a Christophe “Disco” Minck (contrabbasso, Moog analogico, sinth ed effetti modulari), Steve Argüelles (batteria e percussioni) e un pianoforte del 1873. In soli tre giorni abbiamo messo le nostre specie ed è venuto fuori
l’An East African Journey” che, immagino, abbiate tra le mani in questo momento. Indubbiamente, si è trattato di un’esperienza bella e indimenticabile.
Qual è stata la sua più grande scoperta musicale in quella parte del mondo?
La scoperta è stata la varietà di strumenti a corda che ho potuto incontrare e i diversi percorsi melodici che ho sperimentato ascoltando questi meravigliosi musicisti. È stata un’esperienza totalmente arricchente data la varietà dei percorsi sonori.
Come hai proceduto in termini di comunicazione musicale e interazione con la musica che stavi ascoltando?
Sono sempre aperto a nuove sonorità e senza dubbio questa opportunità di trovare musicisti in diversi paesi è stata come un sogno che si è avverato. La mia interazione è stata fondamentalmente quella di aprire le mie orecchie, aprire la mia anima e lasciare che ogni nota entrasse dentro di me con totale normalità e naturalezza proprio come è entrato il vaccino per il COVID con la differenza che ho sempre voluto e voglio che quella musica entri e resti nelle mie viscere, perché sento che è parte integrante del mio essere. D’altra parte il vaccino è entrato per necessità… Ha, ha, ha!
Non hai suonato vis-à-vis con gli artisti. Come siete riusciti a iniettare lo spirito di una vera session?
Quando musicalmente hai le idee chiare e il concetto, non è necessario parlare molto, solo con un paio di gesti puoi ottenere ciò che vuoi musicalmente e quali sono questi gesti? Mostra e competere con Amore, Unità e Libertà. Con questo ogni musicista dirà ciò che sente con totale libertà e onestà e questo è esattamente ciò che volevo. Il dettaglio tecnico che più ha segnato le sezioni è stato che molti dei musicisti non si sentivano a loro agio a registrare con il metronomo, ed è stato facile senza metronomo, ma come ho detto prima la magia di ogni musicista era così grande che avevano ragione: non era necessario mettere alcun tocco occidentale (il metronomo) perché il loro tempo, l'intonazione e l’intonazione era perfetta. E questa era un’altra cosa che mi meravigliava delle registrazioni.
Lo consideri un disco africano o afro-cubano-jazz?
È semplicemente musica di Anima, di Radice, di Cuore, le voci dei nostri spiriti nella Luce e degli Antenati, che dicono che siamo una sola Radice dove Mama Africa è la Patrona.
Da artista multiculturale abile e colto: nessun rischio di sembrare di richiamare un certo paternalismo musicale occidentale verso i musicisti africani?
Grazie! Ma credo che l’Africa sia la madre di tutta la musica e l’Occidente deve ancora imparare molto della magia spirituale e ritmica dell'Africa. Per me l’Africa e il suo mondo sonoro la fanno da padrone.
L’Occidente mi dà la possibilità di aggiungere elementi che rendono la musica più pluriculturale e universale, ma non sarà mai una nuvola che offusca la grandezza e la magia delle mie radici africane semplicemente perché l’Africa, la sua musica e la sua Arte è, è stata e sarà la spina dorsale del mio mondo creativo e anche se mi considero un musicista di formazione classica occidentale sento che la mia missione è di far coesistere questi due mondi con totale normalità e rispetto.
Ci sarà ancora Africa nei prossimi progetti?
Questo è sicuro. Presto uscirà il prossimo progetto con Seockue Keita e si chiamerà “Suba”. Abbiamo anche terminato un paio di anni fa un progetto in Sudafrica basato sulla tradizione Venda che si chiamerà “Badzimu” (“Spiriti di luce” nel dialetto della regione). Come ho detto prima, l’Africa è stata, è e sarà sempre presente in ogni nota musicale che emana dal mio essere. Un grande abbraccio! Fortuna, Luce e Pace!
Ciro De Rosa
Omar Sosa – An East African Journey (Otá Records/I.R.D., 2021)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
Pianista eclettico per natura e per formazione musicale, Omar Sosa è un poliglotta della musica in grado di stabilire connessioni tra linguaggi sonori differenti, perseguendo la sua peculiare visione del fare arte, al di là di ogni confine. Cresciuto a contatto con la cultura tradizionale cubana, ben presto, grazie all’ascolto dei programmi radio americani, è entrato in contatto con il pop, il funk e il jazz, innamorandosi perdutamente dei grandi pianisti come Oscar Peterson, Herbie Hancock, Chick Corea e Keith Jarrett, del bop di Charlie Parker e dello spiritualismo visionario di John Coltrane, ma soprattutto sceglie come suo riferimento lo stile inimitabile di Thelonious Monk. Da questi primi passi si è dipanato un percorso di ricerca febbrile che ha animato tutto il suo percorso musicale e che lo ha condotto non solo allo studio dei diversi linguaggi musicali, ma anche a collaborare con musicisti di tutto il mondo dall’Africa al’America fino a toccare l’Europa e l’Italia dove è nato il fortunato sodalizio con Paolo Fresu con il quale ha realizzato due album di grande pregio come “Alma” e il più recente “Eros”. Il suo nuovo album “An East African Journey” è la prosecuzione del cammino intrapreso nel 2008 con la pubblicazione di "Afreecanos". Laddove quest’ultimo lo vedeva ricercare le radici africane del jazz e della musica latino-americana, dialogando con ventidue strumentisti, provenienti da Mozambico, Brasile, Mali, Senegal, Marocco, USA, Francia, Guinea e dalla natia Cuba, questo nuovo album ribalta la prospettiva, partendo da una serie di registrazioni sul campo effettuate dall’ingegnere del suono Patrick Destandeau, durante il tour che il pianista cubano tenne nel 2009 con l’Afreecanos Trio, toccando sette paesi dell'Africa Orientale. Durante quella serie di concerti, Sosa ha avuto modo di incontrare e ascoltare diversi musicisti locali, ma anche di suonare con alcuni di loro durante la permanenza in Sudan e in Etiopia. Come lo stesso Sosa ci ha raccontato nell’intervista, inizialmente l’intento era quello di rielaborare il materiale registrato per un’orchestra d’archi femminile ma il lavoro stentava a decollare, anche in ragione dei diversi progetti paralleli messi in campo. A distanza di poco più di decennio, il pianista di Camagüey è ritornato su quelle registrazioni e, insieme al produttore Steve Argüelles (con il quale aveva già lavorato al progetto “Afreecanos”) è maturata l’idea di sviluppare un dialogo “a posteriori” con quelle musiche, sovraincidendo il pianoforte, l’elettronica e il basso. Le sessions delle nuove registrazioni si sono svolte nel 2018 e, in una prima fase, Argüelles e Minck si sono occupati di incidere rispettivamente le parti di ritmiche e l’elettronica, mentre nella seconda Sosa ha inciso quelle di pianoforte. Il risultato è diario di viaggio in musica in cui Omar Sosa ripercorre le tappe di un itinerario di decine di migliaia di chilometri attraverso sette stati dell’Africa Orientale, area a lui meno familiare rispetto a quella Occidentale, nella quale si addentra in punta di piedi. Il lavoro di rielaborazione delle fields recordings segue le coordinate di un approccio modale rispettoso, innestando sulle melodie tradizionali elementi jazz ed echi di musica classica occidentale. Tutto ciò rappresenta certamente un pregio, ma forse anche un limite in quanto la mancanza di interazione diretta con i musicisti locali ha fatto venir meno l’imprevedibilità del dialogo improvvisativo. Se “Afreecanos” presentava una elaborazione forse troppo articolata della musica afroamericana, in questo caso la scelta di non avventurarsi nello sperimentare non fa spiccare completamente il volo al disco. Proprio come avvenne nel tour del 2009, il disco si apre ad Antananarivo, capitale del Madagascar, con “Tsiao Tsara” nella quale la tessitura elegante del pianoforte si intreccia con quello delle corde magiche della valiha (cetra a tubo della tradizione malgascia) suonata da Rajery. Se la voce intensa di Olith Ratego in “Thuon Mok Loga” ci conduce in Kenya con il pianoforte di Sosa che fa da contrappunto alla nyatiti, la successiva “Erlababa” documenta l’incontro in Sudan con le poliritmie del tambur di Dafaalla Elhag Ali. Si torna ancora in Madagascar con l’entusiasmante climax ritmico (purtroppo di breve durata) di “Eretseretse” nella quale scopriamo il suono della marovany (cetra a ventiquattro corde) di Monja Mahafay e piacevolmente ritroviamo in seguito nella suggestiva “Sabo”. Si prosegue, poi, in Etiopia con la sinuosa “Che Che” e la malinconica “Tizeta” con Seleshe Damessae alla voce e al krar (lira a cinque corde), inframezzate dal ritorno in Madagascar con la meravigliosa “Veloma E” e dalla tappa in Burundi con il ritmo sostenuto di “Kwa Nyogokuru Revisited” nella quale il pianoforte di Sosa sviluppa un fascinoso interplay con le corde dell’umuduri di Steven Sogo. Incontriamo ancora il tambur di Dafaalla Elhag Ali in “Meinfajria” che apre la strada alla brillante “Shibinda” con lo zambiano Abel Ntalasha alla voce e al kalumbu. Completano il disco la deliziosa danza swingante “Dadilahy” con protagonista il malgascio Rajery e la raffinata architettura sonora costruita intorno al ravanne di Menwar in “Ravann Dan Jazz” con l’approdo alle Mauritius. “An East African Journey” è, dunque, un disco godibile e non privo di suggestioni e fascino, ma soprattutto è un'istantanea ben definita della curiosità e dell’eclettismo di Omar Sosa.
Salvatore Esposito