Il passaggio dalla registrazione acustica a quella elettrica negli anni Venti del Novecento consentì un maggior volume sonoro in virtù dell’amplificazione del segnale, mentre il coevo avvento dei microfoni permise di catturare un suono più ricco di sfumature, trasferito su supporti a 78 giri in gommalacca. Questo format di riproduzione ha prevalso fino agli anni Cinquanta nel Regno Unito e negli USA, ma si è conservato anche oltre in Asia e Africa. Su questo periodo cruciale di produzione discografica si concentra il progetto “Excavated Shellac”, realizzato dall’etichetta statunitense Dust-to-Digital di Lance e April Ledbetter – non nuova a restituirci tesori musicali del passato – e finalizzata a diffondere presso un pubblico più vasto una rara bellezza musicale.
“An Alternate History of the World’s Music” è il sottotitolo dell’antologia che ha visto la pubblicazione di 100 tracce in digitale, accompagnate da un sontuoso booklet in PDF di 186 pagine, corredato da illustrazioni di copertine d’epoca, pubblicità discografiche e immagini dei musicisti. Sono presentate registrazioni della prima metà del XX secolo su dischi a 78 rpm sottoposti a intervento di restauro e rimasterizzazione da parte di Michael e Joy Graves degli Osiris Studios, che davvero fanno splendere il suono. Curatore dell’antologia è Jonathan Ward, collezionista e cultore di 78 rpm, residente a Los Angeles, che aveva dato vita a un blog e a un sito web nel 2007 chiamato proprio “Excavated Shellac”, in cui raccontava la storia di seminali incisioni. Nell’introduzione Ward propone un’analisi del contesto e fissa accurate note sulle registrazioni. Siamo di fronte a una geografia di suoni che sfugge alla narrazione classica, che di solito pone all’attenzione del pubblico gli stili musicali popular afro-americani, i repertori folk e country o la musica classica e operistica. Va detto che molte delle registrazioni che ascoltiamo vanno inquadrate in quelli che erano i contesti coloniali, tra orientalismi ed esotismi, nell’interesse delle major ad ampliare i bacini di utenza, aprendosi a nuovi mercati dal Sud Europa all’Asia, nelle proposte dei negozianti che indirizzavano le scelte anche per vendere grammofoni più che musica.
Sul piano fonico si deve ricordare come alcuni repertori ben più articolati venissero necessariamente ridotti per incontrare la breve durata del supporto in gommalacca (per esempio, si pensi ai raga e alle musiche cinesi). Eppure, ascoltando le tracce e seguendo l’indispensabile complemento storico-musicale delle note si rivelano traiettorie sonore poco note, come quelle di musicisti iraniani che vanno a incidere ad Aleppo per l’etichetta siriana Sodwa o di sudafricani a Londra. È, di fatto, una storia di investimenti di capitali di multinazionali europee e americane, di ingegneri del suono che documentano repertori eterogenei (sappiamo bene che registrazioni a carattere etnografico sul campo iniziano ai primi del XX secolo, ma non è questa la sede per ripercorrerne le diverse fasi), ma è anche la scoperta di archivi, di piccole etichette locali come di imprese di stato nell’URSS. Insomma, l’antologia offre una diversa prospettiva della storia dell’industria discografica e una polifonia di suoni, una “proliferazione dei margini”.
L’arco temporale coperto dalle incisioni va dal 1907 al 1967 (da un’orchestrina tedesca da danza ai sudafricani Durban Lions), ma il grosso del materiale racconta il periodo a cavallo tra la metà degli anni ‘20 e la metà degli anni ’50. Impensabile dare conto in termini analitici di tutti i materiali che è possibile ascoltare, ma dall’Afghanistan al Sudan, dal violino di Capo Verde alla musica lautaresca romena, dai canti kirghisi al folk di Okinawa, dalle luminose chitarre precorritrici della danzante marrabenta mozambicana ai generi rurali sudamericani, dall’arpa nell’Etiopia pre-invasione italiana a monaci tibetani registrati nel 1944, dai Tatari di Crimea prima della deportazione staliniana al canto di protesta anti-americano del tamborito panamense, dagli emigrati dell’Auvergne a Parigi, aalla trikitixa basca, dall’antica musica di corte vietnamita raccolta in epoca coloniale a una preziosa arpa ad arco del Sud Sudan, dalla musica carnatica indiana ai precursori del raï, è davvero un giro del mondo senza eguali, tra espressioni folkloriche, musiche d’arte e forme popular che testimoniano i processi di trasformazione sociale e l’impatto dell’avanzante industria discografica.
In questo spazio sonoro c’è anche un po’ di Italia con ben quattro tracce tra le quali una del grande cantadore sardo Gavino de Lunas, trucidato alle Fosse Ardeatine. Nella sua presentazione Ward sottolinea ancora come la messa a disposizione di questi materiali, adeguatamente restaurati, sia un atto dovuto di condivisione di musica rara, ma anche, aggiungiamo, di gran bella musica. Per il resto, tocca ai ricercatori indagare in che misura il colonialismo abbia influenzato gli stili di esecuzione, come l’avvento della radio abbia influenzato i musicisti locali in queste regioni, come i conflitti abbiano dato vita a narrazioni nazionaliste o come i governi abbiano favorito tipi di musica sia per i loro programmi ideologici sia per favorire il turismo. Pur consapevoli delle tante ricerche monografiche sui dischi a 78 giri da parte degli etnomusicologi (restando in Italia, ci piace ricordare il certosino lavoro di Giuliana Fugazzotto sulle musiche degli emigrati italiani del primo ‘900 o più indietro nel tempo, in termini di fonofissazione, la riproposta dei materiali di archivio sugli internati italiani della I guerra mondiale), la collezione della Dust-to-Digital è una sorta di piccola biblioteca mondiale del suono, che porta ad orecchie attente un incredibile mondo di musiche. Disponibile su Bandcamp.
Ciro De Rosa
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