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Non è il primo album ma solo per certi versi: “Same Self, Same Silence” è stato infatti registrato nel 2017 ma lo si credeva perduto a causa di un problema di hardware, la registrazione è quindi antecedente a “It’s Still Autumn” anche se il release è avvenuto due anni dopo.
Descrivere cosa succeda in questo disco è in realtà relativamente semplice. Ci troviamo davanti a un esempio di musica fusion dove un trio jazz dialoga con una tradizione musicale extraeuropea. Il quartetto propone una reinterpretazione dei contenuti di uno dei dastgâh meno praticati, dastgâh-e Navâ. Per molti motivi questo sistema modale viene considerato come uno dei sotto dastgâh di dastgâh-e Shur, il più lungo e sviluppato dei 7 principali. Questa classificazione è dovuta alla presenza di molte celle melodico-modali, gushe, provenienti da altri dastgâh e alla relazione tra le scale base dei due sistemi. Il disco si modella sul concerto classico iraniano anche strutturalmente. Le varie gushe sono presentate nella forma di composizioni, pre-composizioni ed improvvisazioni non metriche che riflettono l’arte persiana dell’avâz. A queste vengono alternate composizioni metriche dove il tempo e la dinamica impennano a controbilanciare il procedere più estatico dell’avâz. Il disco va quindi visto come la cristallizzazione di una performance live, modellata sui canoni più diffusi del concerto classico iraniano contemporaneo che alterna l’avâz a brani strumentali virtuosistici, chahârmezrâb, o altre forme cantate e non dal folk popolare e regionale, come tasnif, zarbi e reng.
A far brillare il disco non è tanto il cosa, ma il come. Se per esercizio dovessimo pensare alla stragrande maggioranza dei dischi world-fusion usciti negli ultimi anni troveremmo una tendenza ad interpretare la tradizione extra-occidentale in chiave occidentale. È quindi il musicista ospite, l’’altro’ per usare un termine antropologico, ad adattare la propria competenza e la propria tradizione musicale a quella dell’ensemble occidentale. Questa dinamica non è propria solo delle collaborazioni, ma anche dei gruppi il cui repertorio interno è multiculturale, come se ci fosse un bias diffuso e taciuto, un automatismo dietro a questa tendenza. Sicuramente contribuisce la natura del jazz – perché è di jazz che più spesso si parla in questo contesto – un genere costruito sul dialogo musicale, sull’ascolto reciproco, sull’interplay, sull’improvvisazione e su strutture relativamente aperte. È tuttavia innegabile anche una dinamica di potere che influisce sulla percezione di certe gerarchie culturali. A dir la verità non è nemmeno necessariamente un male, tantomeno una scelta sempre conscia o immune dalle preferenze estetiche e creative dei musicisti stessi. Sta di fatto che in questo disco la dinamica si inverte, è il trio olandese che si siede ad ascoltare e prende appunti per accompagnare Alizâdeh.
E lo fanno bene, davvero bene, con attenzione accademica e senza orientalismi ma entrando nel cuore dell’arte stessa e studiandone le meccaniche, i fraseggi, la modalità e l’estetica. Rembrandt Frerichs sceglie di suonare sul suo fortepiano per due motivi: il timbro più squillante e la maggiore facilità nel cambiarne l’accordatura. Frerichs accorda lo strumento includendo le alterazioni microtonali della musica iraniana, i koron e i sori, e cambia totalmente il modo in cui suona il piano distanziandosi dagli accordi, che chiaramente non funzionerebbero coi quarti di tono. Imita inoltre il fraseggio e il sound percussivo del santur, il salterio iraniano. Anche Overwater trova il modo di suonare i quarti di tono sul violone aggiungendovi dei tasti. Il bassista, inoltre, presta moltissima attenzione al fraseggio delle figure ornamentali di Alizâdeh, un aspetto essenziale della musica iraniana. Planjer, infine, studia attentamente la tecnica percussiva del tombak, il tamburo a calice persiano, e la applica al suo whisper kit. Su queste basi si aggiunge Alizâdeh con il suo shurangiz, uno strumento moderno che avvicina le sonorità del tar a quelle del setar. Il disco che ne risulta è di musica persiana in chiave jazz e non il contrario.
Il primo brano introduce i colori modali di dastgâh-e navâ. “Daramad” è il tiolo sì della traccia ma anche della prima gushe di ogni dastgâh che ne incapsula tonalità e sapori. La melodia è affidata proprio ad Alizâdeh, accompagnato dal bordone del violone, da percussioni leggere ed atmosferiche, e dal piano che
timidamente echeggia il contenuto melodico del shurangiz. La melodia di “Sama” precede un riff strumentale su cui i musicisti improvvisano. Particolarmente piacevole il solo di Frerichs, il cui fraseggio pianistico echeggia la natura percussiva del santur. Con “Neyshaburak” esploriamo ulteriormente il contenuto modale di dastgâh-e Navâ con un’altra delle sue gushe. Ci spostiamo più in alto rispetto al tetracordo iniziale in un’improvvisazione estremamene ornata da parte di Alizâdeh, i cui motivi si sviluppano sui precedenti in un procedere frattale e caleidoscopico. “Sarmast” si presenta invece come un tipico chahârmezrâb, dove fraseggi musicali si alternano ad un motivo ricorrente. Nella seconda metà il brano invece comincia ad evocare gli scambii solistici del jazz, dove ogni strumento si ritaglia il suo momento per brillare ma senza dimenticarsi di scambio e dialogo. Con “Nahoft” ci spostiamo melodicamente ancora più in alto avvicinandoci alla conclusione. Introdotto dal fortepiano, l’umore del pezzo sembra quasi elegiaco e raggiunge per certi aspetti l’apice affettivo ed emotivo del disco prima di chiudere con “Torkeman”. In questo brano tornano sentori e motivi dei brani precedenti, quasi come se si volesse riassumere l’intero disco prima di concluderlo.
La tendenza emotiva è coerente, sia con sé stessa nello svilupparsi dell’album che con gli umori che popolano la musica iraniana, largamente dominata da sonorità meditative, riflessive, emotive ed elegiache. Un capolavoro, tra le altre cose, di gestione dinamica, i volumi infatti sono perlopiù bassi ma mai statici, bensì controllati e contenuti nel loro svilupparsi espressivamente. L’esperienza internazionale di Alizâdeh e l’attenzione e lo studio del trio olandese risultano in un connubio non solo estremamente gradevole e coinvolgente, ma anche simultaneamente coerente e innovativo nei confronti della tradizione iraniana. Se c’è una cosa che manca in questo disco è sicuramente la superficialità: nessuno dei musicisti è intento a banalizzare o scegliere a piacimento caratteri del linguaggio musicale opposto ma vi si immerge con profondo rispetto e grande serietà. Oltre alle emozioni che solo la musica sa regalare, da un disco come questo possiamo anche imparare un’importante lezione di dialogo e rispetto culturale e musicale, basato su stima e conoscenza senza cadere in banalizzazioni e feticismi.
Edoardo Marcarini
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Medio Oriente