MeVsMyself – Mitclàn (Alterjinga/Panidea, 2019)

Ha ben presente il senso della sperimentazione MeVsMyself, alias Giorgio Pinardi, cantante, performer ed esploratore vocale milanese, nel suo più recente progetto per voce ed elettronica, da intendersi come interazione tra la voce-strumento e uso ben dosato, se non minimale, dell’elettronica. D’altra parte, scorrendo la biografia formativa di Pinardi, accanto ai numi tutelari che vengono sempre scomodati in questi casi (da Stratos a McFerrin), troviamo frequentazioni e training con Trang Hang Hai, Luisa Cottifogli, Roberto Laneri e Saynko Namtchylak, solo per citare alcuni nomi che coprono un’ampia gamma di tecniche vocali, dal canto armonico al body percussion, dal beatbox all’improvvisazione vocale. Ci sono poi l’interesse di Pinardi per l’aspetto fonetico e gli studi ad ampio raggio di espressioni canore tradizionali e contemporanee di culture musicali che vanno dall’Asia all’Africa, dal Sud America all’Europa mediterranea, in linea con la dimensione antropologica e filosofica della sua ricerca sulla voce. Pubblicato dall’associazione culturale Alterjinga, “Mitclàn” (nei culti aztechi era il luogo dei morti: una dimensione costituita da nove spazi distinti, di cui l’ultimo, il più profondo, rappresentava il raggiungimento del riposo eterno) è costruito su improvvisazioni in studio (è il Panidea di Alessandria di Paolo Novelli, il cui ruolo non è secondario nella co-produzione del disco), prive di una precedente scrittura, che hanno condotto alla fisionomia finale del progetto, emersa a posteriori nella fase di ascolto di quanto registrato, come rivela Pinardi in un’intervista. La protagonista voce diviene, dunque, strumento melodico, armonico e ritmico tra sovrapposizioni e alterazioni di timbri, variazioni di paesaggi, di tempo, di ambientazioni e di intensità. “Khnum” apre il disco con un flusso acquatico, che sembra rinviare alla metafora fluviale, efficace simbolo del continuo divenire identitario dell’uomo, cui segue una serrata iterazione vocale. “Tin Hinan” è ammantato di sacralità, è un tema collocabile in area mediterranea nella parte iniziale, con il pronunciato cambio ritmico nella seconda parte che ci porta in un altrove temporale e in una geografia indefinita. I vocalizzi della successiva “Gurfa” procedono su una base percussiva tra accelerazioni e rallentamenti. Bussola puntata verso le polifonie dalla struttura call & response centroafricane in “Mbuki-Mvuki”: uno dei miei brani preferiti del lavoro. Invece, ha una cornice da sperimentazione anni ‘70 “Sygyzy”, brano che si dipana in contrasti tra passaggi polifonici e innesti elettronici, asperità e acutezze, sospiri sottili giustapposti a inserti gutturali. Cambio di latitudine con l’accattivante “Tingo” dalle tinte tropicali sambiste, cui fa da contraltare la rinnovata arcaica sacralità espressa nelle voci della prima sezione (i primi splendidi tre minuti) di “Ohrvuum”. Infine, c’è “Eostre”, che diventa la summa di quanto si è ascoltato con i suoi fonemi dispersi e mormoranti, ostinati e bordoni, polifonie e vagiti di un neonato, nonché manipolazioni elettroniche di studio. Siamo del parere che nel segno della creazione di composizioni svincolate dalla riconoscibilità delle fonti sonore, come è nell’intento di Pinardi, il compositore milanese potrebbe procedere in misura ancora più determinata nella compenetrazione di sistemi, scale e intervalli delle “vie dei canti” di tradizione orale. In definitiva, però, siamo di fronte a un’inedita e coinvolgente azione compositiva e performativa al fuori della convenzionalità e dei confini di genere (pur con il disporsi di molteplice, a tratti perfino troppe, trame vocali) il cui fine è la produzione di ambenti sonori che immergono l’ascoltatore in una dimensione musicale non catalogabile, assoluta e universale. 


Ciro De Rosa 

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