“Medico per mangiare, musicista per vivere”, dice di sé Cataldo Perri, di Cariati, cittadina del cosentina affacciata sullo Jonio. Perri compone in lingua nazionale e in dialetto calabro, suona la chitarra battente su cui utilizza sia la tecnica tradizionale di movimento ritmico delle dita sia uno stile personale consistente nel percuotere con il pollice la cassa mentre si producono gli accordi (Si veda in proposito il video), accentuando così la natura percussiva e armonica dello strumento. Il suo “Rotte Saracene” (1992, Rai Trade) è spesso commento sonoro di trasmissioni di viaggio delle Reti televisive della Rai. Il folk d’autore di Perri narra i luoghi, rifuggendo la retorica dei tempi andati e traendo ispirazione dalla bellezza, dalla varietà musicale e, pure, “dalle rovine” - per citare Vito Teti - della sua Calabria. Nè difetta di memoria, ma è una memoria su cui riflettere per costruire il futuro, come avviene in “Bastimenti”, nato come spettacolo per il teatro per la regia di Daniele Abbado, diventato un CD (Squilibri 2009). Un disco in cui il musicista calabrese, sulla scia delle navi di quando i migranti eravamo noi, si è misurato con tanghi e milonghe per dare volto e note a storie della diaspora calabrese nelle Americhe. Successivamente con “Guellarè” (2011) ha cantato un sud dolente (ma non lamentoso), dignitoso e vitale, che ha voglia di riscatto e dedicato il lavoro “ai fratelli che nel nostro mare trovano la morte per il sogno di una vita migliore”. È una poetica che usa il dialetto per la sua forza espressiva, ma non come codice localista chiuso al mondo. L’artista di Cariati ha pubblicato anche due libri (“Ohi Dottò” e “Malura”, entrambi per Rubbettino) e collabora in spettacoli letterari musicali con lo scrittore Carmine Abate, suo conterraneo, sulla cui opera è imperniato “Calarbresh”, album registrato con il suo rodato Squintetto: Checco Pallone (percussioni, ‘ūd, chitarre, mandola, mandolino), Piero Gallina (lira calabrese, violino, viola, arrangiamenti archi), Enzo Naccarato (fisarmonica), Nicola Pisani (sax soprano) e Carlo Cimino (basso elettrico, contrabbasso).
All’album collaborano Tiziana Grezzi (voce e coro), Anna Stratigò (voce), Elena Forte e Maria Raffaella Rimola (coro, canto arbëreshë), Massimo Graziano (chitarra elettrica), Angelo Pisani (zampogna a chiave, pipita, low whistle, malarruni, flauto armonico) e Sandro Meo (violoncello, arrangiamento archi). Lasciamo a lui parola, invitando i Blogfoolker che lo ignorassero a riparare quanto prima.
Come hai incontrato Carmine Abate e cosa ti ha colpito della sua scrittura?
Ci siamo incontrati la prima volta alla Fiera del libro di Torino del 2003. Presentavo la mia opera di teatro e musica “Bastimenti” e il libro omonimo curato dalla giornalista Gabriella Capparelli. Carmine presentava “Tra due mari” (Mondadori), uno dei suoi capolavori. Ci siamo annusati, abbiamo parlato dei nostri interessi culturali, delle nostre passioni politiche. Fu facile diventare prima amici e poi coprotagonisti di un progetto artistico. Di lui mi ha colpito soprattutto la materia del suo narrare, per alcuni versi simile alle fonti ispiratrici della mia creatività musicale. La sua scrittura asciutta, essenziale, che sa di terra, di partenza, di ulivi, di lotta contro i soprusi dei padroni e dei mafiosi. Lui originario di Carfizzi, un paese arbëreshë del crotonese, aveva scritto già dei capolavori ispirati alla sua esperienza da emigrato in Germania e poi alla diaspora degli albanesi per le incursioni turchesche nel Mediterraneo dalla fine del 1400 . Tutti lavori segnati dal forte legame con le radici. Io avevo già pubblicato nel ’92 il disco “Rotte Saracene” a cui hanno collaborato Gigi De Rienzo, che ha curato anche gli arrangiamenti e Bob Fix. Un disco nato dallo spettacolo “Laura e il sultano”, ispirato alla storia di una ragazza di Cariati rapita dai turchi nel 1540. E poi “Bastimenti”, dedicato a mio nonno emigrato in Argentina e mai più ritornato, a cui hanno collaborato Armando Corsi, Mario Arcari e Beppe Quirici, l’orchestra d’archi della Philarmonia Mediterranea e il gruppo di musica tradizionale Agorà. Da questi comuni interessi, fulcro della nostra produzione creativa, nacque l’idea di lavorare a reading letterari musicali pensati come spettacoli veri e propri, in cui la lettura di Carmine ed i miei brani, ispirati ai suoi romanzi, raccontano con la stessa dignità la comune memoria. Il nostro progetto viene spesso ospitato nei vari festival di letteratura in Italia e all’estero e dappertutto viene accolto con lusinghieri apprezzamenti, dagli Stati Uniti, alla Germania, all’Argentina.
Perché il titolo “Calarbresh”?
È la crasi di Calabria e Arbëresh, coniata per suggellare la secolare amicizia fra la Calabria e le comunità albanesi che hanno eletto la nostra terra come luogo dove piantare nuove radici.
La diaspora albanese a partire dal 1400 ha portato in Calabria donne e uomini fieri, ricchi di cultura e di uno straordinario bagaglio di tradizioni musicali, coreutiche, gastronomiche. E la ricchezza dell’antica lingua dei padri, parlata e custodita ancora oggi con orgoglio e passione. La storia degli albanesi di Calabria è un illuminante esempio di interazione fra i popoli. La cultura degli uni ha influenzato quella degli altri in un vicendevole arricchente scambio basato sul rispetto reciproco e su un formidabile sentimento di accoglienza e solidarietà di antica matrice mediterranea.
Qui la diaspora albanese in Italia ha da insegnarci qualcosa…
La diaspora albanese ci può insegnare a rispolverare la nostra memoria di quando siamo stati terra di accoglienza prima e di erranza poi. Perché la storia e il destino degli uomini sono mutevoli. Basta una carestia o un virus e una nazione ricchissima può sprofondare nella miseria più cupa. E da meta ambita dai poveri della terra può a sua volta diventare terra di migranti. Le diaspore dei popoli ci possono insegnare che gli occhi dei nostri nonni, di Giovanni, di Michele di Rocco che bussavano alle porte dell’America ricca sono gli stessi di Mohammed, di Fatima, di Said che su fragili carrette di mare oggi imbarcano i loro sogni e i loro figli alla ricerca di un futuro migliore al di la del Mare della civiltà e della Memoria. Questo mio disco oltre che un omaggio allo scrittore Carmine Abate, già premio Campiello 2012, vuole essere anche un viaggio nei profumi, nella ricchezza e nella dignità della mescolanza. Di quando si incontrano culture, suoni e mondi apparentemente lontani. Perché come dice Abate in un suo intenso monologo tratto dalla sua opera, “Vivere per addizione”, le radici sono importanti e imprescindibili per la nostra identità, però è anche vero che un uomo non è soltanto del posto dove è nato ma è anche un pezzo di ogni paese che ha attraversato, dove è vissuto e lavorato. Perché la nostra identità plurima e mutevole è una somma delle nostre esperienze e dei nostri viaggi, senza dover scegliere per esclusione fra la terra dove si nasce e quella dove si vive. La storia basata sulle mescolanze, come quella fra albanesi e calabresi, ci ricorda che prima del miserevole sovranismo vengono gli uomini e l’umanità sofferente.
Con quale spirito ti sei avvicinato ai testi di Abate. Insomma, ci racconti il processo creativo e di realizzazione con i musicisti?
Per ogni romanzo di Carmine ho scritto una canzone dedicata.
Molte volte è capitato che alla prima presentazione di un nuovo libro gli facessi la sorpresa di cantare proprio la nuova canzone senza che lui ne sapesse nulla. Una sorpresa nella scaletta che spesso lo emozionava. Nei testi a volte cito il nome di un protagonista del libro o una frase riconducibile alla trama. E con l’ausilio dei meravigliosi musicisti de Lo Squintetto che mi accompagnano da una vita arrangiamo i brani con sonorità e stili diversi in base allo spirito del romanzo. Come sempre nei miei lavori utilizzo anche strumenti della tradizione musicale (zampogna, battette, tamburello, pipita) oltre a quelli classici per un lavoro che definirei di cantautorato jonico mediterraneo e non di musica tradizionale tout court. In quattro dischi canto solo un brano della tradizione calabrese, gli altri sono originali miei e vi si può trovare una tarantella ma più spesso brani di cantautorato più vicini all’universo sonoro di “Crêuza De Mä” dei grandi De Andrè e Mauro Pagani. In “Calarbresh” in particolare si trovano nove brani miei inediti e due bellissimi pilastri della tradizione arbëreshë, cantati magistralmente da Anna Stratigò.
Dici che sei “medico per mangiare, musicista per vivere”. In realtà sono due vocazioni che implicano sensibilità, impegno duro e gran professionalità. Mettiamole insieme: in che misura l’essere medico contribuisce alla tua sensibilità musicale?
La mia professione per antonomasia si sforza di dare una risposta terapeutica ai disagi del corpo e dell’anima. E quindi è proprio insita nella professione medica l’attitudine all’ascolto, a individuare la fonte del dolore. E troppe volte noi medici siamo coinvolti emotivamente nei drammi di alcuni pazienti. Da qui il bisogno di volare alto sull’acre odore dei farmaci e della sofferenza e la musica è il più potente mezzo per farlo. D’altronde credo che stia aiutando anche me da quando sono passato dall’altra parte per un tumore pancreatico operato giusto dieci anni fa e trattato finora con numerosi cicli di chemioterapia.
Mi piace pensare che la mia lotta alla malattia tragga forza e nutrimento proprio nella mia musica. Ricordo che la prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliato sul tavolo operatorio è stata quella di muovere velocemente il mio braccio destro. Ho preso coscienza che ero abile ancora a suonare la mia adorata battente . La mia sfida alle truppe del generale cancro poteva cominciare.
Quella di Cataldo Perri è musica della “restanza”, per usare un’espressione cara a Vito Teti?
È una musica che nasce in un paese della Calabria provato da una forte emigrazione di ritorno. Io sono tornato dopo l’università per una precisa scelta politica sociale. Non mi sembrava giusto che tutti i laureati del sud lavorassero lontano dalla loro terra. Ho cercato nel mio piccolo e cerco di portare una goccia d’acqua al paese dove sono nato e dove ho scelto di tornare anche perché mi ha dato e mi da tanto. Il mare soprattutto molto presente nella mia musica, le sue storie, le sue leggende.
È difficile far uscire la propria musica da un ambito regionale?
È difficile far emergere la musica sincera, non prona alle mode del cavolo create a tavolino dalle lobby discografiche e dalla cosiddetta “industria del disco” che ha ucciso la spontaneità creativa, la poesia. Io dico sempre che il bisogno nasce dalla conoscenza. Se ai nostri giovani e alle masse in generale vengono propinati in televisione e per radio i soliti rapper o i Rovazzi di turno, è chiaro che si compra quello che si conosce, quello che si ascolta. Si tratta di gusti, fenomeni e mode indotte quindi legate non alla logica dell’arte cristallina o dell’ispirazione pura ma alle leggi di mercato, a volte usa e getta. Io canto quello che sento di cantare come le leggende del nostro mare, le storie di emigrazione, le nostre tarantelle, le canzoni contro l’illegalità e le mafie, il dramma dei migranti violentati in Libia e poi dispersi in mare. Tutta roba che all’industria discografica fa accapponare la pelle.
Però quando la nostra musica esce dai confini regionali e nazionali molte volte incanta e sorprende. Come è successo tre anni fa in un college universitario della California, dove ero o stato invitato per dei reading con Abate e per dei miei concerti con la battente. È stato emozionante come i tanti studenti americani si fossero appassionati e interessati ai suoni ancestrali della chitarra. D’altronde è uno strumento che si suonava nel sud Italia quando l’America era stata scoperta da pochi decenni, Noi scimmiottiamo gli americani e loro sono frustrati perché non hanno gli strumenti e un universo sonoro così marcatamente suggestivo e identitario, arcaico, così ricco. Ancora, voglio ricordare che nel 2019 presentammo “Tarantango”, in Plaza de Mayo di Buenos Aires davanti a trentamila spettatori. Un concerto con il mio organico abituale de Lo Squintetto e con l’orchestra argentina De La Una, diretta dal maestro Ariel Pirotti, uno dei più prestigiosi musicisti esperti di tango. Una miscela esplosiva che ha fatto dialogare la malinconia del tango con la passione e l’energia sanguigna della tarantella. Un gioia irrefrenabile per i tanti italiani presenti orgogliosi e felici perché la nostra musica dialogava a pari dignità con il tango. Un’altra indimenticabile esperienza è stata in Brasile, dove fui invitato dall'Università di Fortaleza per presentare “Malura”, il mio romanzo edito da Rubbettino sotto forma di reading musicale-letterario. Come sempre avevo la mia battente e fui invitato qualche giorno dopo da musicisti brasiliani per un concerto misto sul lungomare di Fortaleza, una “taransamba”, che ha fatto impazzire i numerosi spettatori che hanno mimato i passi di una nuova danza. Spero ci sia qualche impresario “illuminato”… che presti attenzione a questi progetti che fanno dialogare uomini così distanti geograficamente ma così prossimi a noi per sensibilità musicale e umana. Viva il mondo che canta il mondo!
Musica di tradizione orale in Calabria oggi, tra patrimonializzazione e spettacolarizzazione: tu come la vedi?
Grazie ad alcuni gruppi storici come Re Niliu, Agorà, di cui facevo parte anch’io, Antonello Ricci e pochi altri ancora, è stata portata avanti un’operazione di recupero straordinario e proposta della nostra tradizione musicale. È stata sottratta all’oblio a cui l’aveva relegata la cosiddetta modernità e una programmazione televisiva che ha cancellato qualsiasi memoria o traccia della nobile, peculiare, tradizione musicale del sud Italia in particolare. Un genocidio culturale. Poi da Roberto De Simone in poi tutto è cambiato. Io dico spesso che il peggior nemico della cultura popolare è il popolo che a volte si vergogna delle proprie tradizioni, perché solo quello che passa la televisione non è tamarro.
Mi ricordo che verso la fine degli anni settanta organizzai un concerto al mio paese della Nuova Compagnia di Canto Popolare. “Dottò hai fatto venire le tarantelle?”. Qualcuno lo diceva con aria disgustata, roba di cui vergognarsi. Perché probabilmente la musica popolare gli ricordava la fame nera degli anni di guerra. Io non ho dovuto fare la cosiddetta ricerca sul campo per apprendere brani popolari. I miei pazienti anziani, sapendo del mio amore per la musica popolare, ogni volta che andavo a visitarli a domicilio mi cantavano il loro repertorio straordinario e cercavo di memorizzarne quanto già possibile. In particolare, un vecchio suonatore di chitarra battente, cardiopatico, ogni volta che andavo a visitarlo mi cantava delle canzoni e trascurava di farsi visitare, ed era un continuo litigio con la moglie: “Ma si impazzito con sta chitarra vecchia e brutta comma a ti? Fatti visitare dal dottore!”. Ora siamo passati dall’oblio a quasi a un eccesso di tarantella. Ci sono molti gruppi cloni che scimmiottano alcuni artisti famosi che spesso denaturano e banalizzano un patrimonio straordinario. Io adoro i Fratelli Mancuso per la verità e la sincerità della loro proposta. Qualcuno li ha mai visti in televisione? È più facile trovarli nei teatri di Londra o a New York magari. La tradizione si può anche spettacolarizzare o confrontarsi con altri generi e stili di musica. L’unica discriminante è il buon gusto e la qualità artistica.
In cosa che progetti è impegnato Cataldo Perri?
Sto scrivendo un nuovo libro: una visione leggera e ironica sulla morte. Musicalmente, sto lavorando a progetti transnazionali con Ariel Pirotti con cui arrangeremo una mia produzione ispirata al tango e alla tarantella ed è in cantiere anche una mia produzione ispirata alla musica brasiliana.
Cataldo Perri – Calarbresh (CNI, 2019)
Erano i tempi del lato A e B delle audiocassette, quando ho ascoltato per la prima volta “Sole Battente” di Cataldo Perri, prodotto da Gigi De Rienzo per la Marocco Music di Rocco Pasquariello (uno che la cifra qualitativa di un artista la fiuta subito), prodromo artistico da cui emerse, poi, il fortunato “Rotte Saracene”. Perri mi colpì per la risonanza antica su cui sa costruire un canzoniere contemporaneo. Che ci fossero evidenti rimandi a quanto nella lingua di terra incastonata tra montagna e mare avevano poeticamente fatto Fabrizio De André e Mauro Pagani (a loro volta riprendendo, anche spudoratamente, motivi tradizionali) non era un limite, perché ben sappiamo che il capodopera ligure ha prodotto filiazioni e nuove storie musicali cantate con accenti diversi. Perri, anima poetica ed inquieta, ha continuato a viaggiare nel mare delle narrazioni, uscendo anche dalle acque del “piccolo mare”, per procedere sul filo della memoria, navigando nell’oltremare migratorio del passato prossimo calabrese, che in tasca abbia conservato i santini della canzone d’autore italiana più nobile, poco importa. Con “Calarbresh”, crasi tra Calabria e arbëreshë, Perri procede in una sorta di triangolo geografico e sonoro tra Americhe, Albania e Calabria. Musica che si muove poeticamente nel tempo e nello spazio, che mette insieme testi e musiche del musicista cariatese che ama viaggiare “nei profumi, nella ricchezza e nella dignità della mescolanza”, ispirato dagli scritti di Carmine Abate, autore di Carfizzi, borgo albanofono del crotonese. Chi scrive ha inserito questo disco nella terna per la categoria dialettale delle Targhe Tenco 2020 per i paesaggi e i sentimenti evocati dal connubio musicale e letterario, per la sincerità di un lavoro maturo, che viene da lontano e che usa il paradigma degli albanesi di antico insediamento per raccontare. Sono undici brani, di cui nove ispirati ai libri di Abate e due classici (“E bukura more” e “Lule Lule”) della tradizione arbëreshë calabrese cantati da Anna Stratigò. Impianto precipuamente acustico con un variegato organico di plettri, archi, fisarmonica, fiati e percussioni nel quale trovano posto anche ‘ūd, malarruni, zampogna a chiave. Accordi argentei di chitarra battente e di lira aprono “Il Mosaico del tempo grande”, la prima traccia del disco, mosaico di passi dei romanzi di Abate. Dalla declamazione inziale, dopo poco un minuto il motivo prende il largo in senso musicale (tamburi a cornice, violino, malarruni e mandolino) e canoro (Tiziana Grezzi), ma il ritmo si mantiene saldo nel sud italiano. Il timbro scuro del low whiste dà il via a “Il Fondaco del fico”, dagli evidenti umori deandreani e fossatiani, ma, dopotutto, nella narrazione romanzesca e di viaggio si parte proprio da Genova per arrivare a Roccella Jonica. Con il “Il Cuoco d’Arberia” le geografie musicali del disco oscillano tra Latinoamerica e Balcani, con la chitarra di Checco Pallone e il soprano di Nicola Pisani in bella evidenza. È intrisa di pathos “E Burkura More”, canto d’amore e di nostalgia albanese, interpretato dalla voce intensa di Anna Stratigò e risalente a seicento anni fa, su una fanciulla che raggiunge le coste del Sud Italia per sfuggire ai turchi invasori. Se “Marylin” si snoda tra passione, bellezza e fragilità conservando movenze volteggianti, i timbri (zampogna a chiave, pipita, lira calabrese, sax soprano e ‘ūd) e i ritmi di “Il Ballo tondo”, ispirato all’omonimo primo romanzo di Abate, accentua la fisionomia danzante. Della magnifica “La collina del vento” colpisce non solo la poetica ma anche la sottile e raffinata cornice musicale. È una storia di partenza e di speranza, tra swing, gusto retrò e svolazzi klezmer, quella di “Andy Varipapa”, calabrese emigrato a New York da bimbo e diventato un famoso campione di bowling. Il flauto armonico sottolinea il recitato di “Nun su pisci”, drammatica canzone che racconta dei corpi di “mamme, padri e figli” raccolti dalle reti gettate nel Mediterraneo dai pescatori di Lampedusa. Si canta di “mazzi di fiori per un grande amore” in quest’altra famosa canzone arbëreshë, “Lule Lule”, segnata da lirismo corale e dal violino di Gallino protagonista. Una pluralità di influenze sonore pervadono la conclusiva “Vivere per addizione”, dove è enunciata la tesi di fondo di “Calarbresh”, che mette al centro un’etica meticcia e di mutevolezza: l’uomo non è solo le sue origini, ma anche i luoghi che ha attraversato, in cui ha vissuto e lavorato.
Ciro De Rosa