Dopo un primo tributo ai favolosi quattro, datato 2013 e intitolato “All your life (A tribute to the Beatles)”, Al Di Meola torna con una nuova interpretazione chitarristica del repertorio beatlesiano, intitolata “Across the Universe”. Si tratta di un album raffinatissimo e pregno di amore per quelle liriche conosciutissime e geniali, che il chitarrista statunitense suona con tutte le sue chitarre, scavandole a fondo e individuandone i meandri più profondi. La grandezza di questo musicista si confronta qui specularmente con quella della scrittura dei Beatles, attraverso un’analisi dettagliatissima di tutti gli elementi, espliciti e impliciti, che le canzoni in esame riflettono. Come è noto, con i brani dei Beatles si pone innanzitutto un problema estetico: nulla o quasi di ciò che viene ripreso da quelle canzoni convince fino in fondo. Il motivo è abbastanza semplice da intuire, anche se non lo è altrettanto da spiegare: ogni riproposta di quel repertorio non riesce a mantenere gli elementi fondamentali, che sono indissolubilmente fusi con quelle voci, quegli strumenti, quegli approcci, quelle visioni. Tutto è fermo lì, si è compiuto per sempre in quei pochi anni in cui i quattro hanno lavorato insieme, archiviato e regolato da loro stessi. Si dirà che è normale. Difatti la riproposta è proprio questo, una forma di interpretazione. Conosciamo bene questa definizione, considerando anche che in queste pagine se ne parla spesso, in riferimento soprattutto al processo che interessa le musiche cosiddette popolari (in senso letterale). Però i tentativi di riconsiderare le canzoni dei Beatles convincono poco. E proprio per i motivi che fanno più spesso apprezzare il lavoro di riproposta dei repertori di tradizione orale. Quando vengono meno i dati basilari che connettono le canzoni ai Beatles, apprezzare fino in fondo la nuova proposta sembra quasi impossibile, e la domanda è sempre la stessa: è proprio necessario confrontarsi con questi repertori? Cosa se ne può ottenere? A ben vedere, lo stesso McCartney ha condiviso indirettamente questo “disagio”, pubblicando “Let it be… naked”, cioè le registrazioni originali (edulcorate dalla produzione di Phil Spector) dell’unico album dei Beatles la cui lavorazione e pubblicazione era sfuggita di mano ai quattro. Al Di Meola, da parte sua, sembra invece la persona giusta per superare questo impasse, fornendo, dall’orizzonte infinito delle sue (sei?) corde, una via possibile, e concentrandosi sulle possibilità infinite della musica. Soprattutto quella dei Beatles. Prepara un album che non vuole né rassicurare i fan né mettere alla prova la tenuta di quelle canzoni, sceglie con estrema cura (forte anche del suo precedente lavoro-tributo) un numero congruo di brani di diversi periodi (in tutto sono quattordici, da “Yesterday” a “I’ll follow the sun”, da “Norwegian Wood” a “Till there was you”, fino a “Hey Jude” e “Dear Prudence”), ponendo così in primo piano la scrittura, elabora modi differenti di “lettura” degli elementi che la sottendono (miscelando tensione improvvisativa e strutture originali), sottolinea la centralità del suono, del timbro, rivolgendo la sua attenzione ovviamente alle corde. Che, come sappiamo, rimangono uno dei capisaldi delle canzoni dei Beatles. In questo modo, allontanandoci dalle versioni originali, ci lascia toccare il cuore dei brani, estendendone le pulsazioni in direzioni spesso inimmagginate. In alcuni casi questo procedimento sembra più “naturale”, in ragione del fatto che alcuni brani sono più aperti e la loro natura è più multiforme (mi riferisco, ad esempio, a “Golden Slumbers Suite”). In altri casi, però, il suo approccio rileva l’inaspettato e scoperchia un “sommerso” pieno di possibilità, che ci culla nel flusso caldo di una “redenzione”, di una “emancipazione” evidentemente plausibile. Qualche esempio può servire a questo punto: “Dear Prudence”, introdotta e puntellata da piccoli inserti polivocali, sorretta da una batteria ferma e appena percepibile, si mostra tutta dentro una chitarra classica impossibile da imbrigliare nella melodia originale. A questa l’autore riserva solo richiami impercettibili, perché la sua “nuova” melodia è sfuggente, non si può cantare, si può solo inseguire e, eventualmente, afferrare nei brevi passaggi che si adeguano ai “dati storici”. Questo livello di interpretazione si svolge anche attraverso gli arrangiamenti, che riempiono i brani di suoni che possono sembrare indeterminati, tanto sono distanti da quelli che caratterizzano le versioni originali. “Norwegian Wood”, ad esempio, è interamente costruito sulle percussioni (le tabla rappresentano il filone centrale), che esprimono un’inquietudine perfettamente incastrata in una percezione contemporanea del testo e dell’atmosfera del brano. Anche qui ci è concesso di incontrare la melodia solo a tratti. E, nella maggior parte dei casi, quelle poche note hanno un ruolo secondario, perché fungono da “ponti”, attraverso i quali la chitarra riesce a trovare nuovi orizzonti, quasi sempre sfuggenti, rarefatti, quasi invisibili. Tra i brani indimenticabili vi sono le versioni di “Mother nature song”, “Strawberry Fields Forever” (nella quale si concede il richiamo alla batteria sconnessa e acida - forse proprio una Ludwig?), “Hey Jude” (privata, senza sconti, della melodia melliflua, sostituita da due chitarre singhiozzanti e sincopate, accompagnate dall’accordeon). Il processo si completa a fine scaletta, con una “estrazione” totale che coglie il senso profondo dell’album: “Octopus’s Garden”, che dura il tempo della prima strofa e poco più, senza arrivare al ritornello, cantata da una bambina. Insomma tutta la carica istintiva, elementare, infantile, (forse anche) arbitraria di un inno alla fantasia.
Daniele Cestellini
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Suoni Jazz