Alessandro Scillitani – L’Appennino che suonava (Artemide Film/Associazione Amici della Piva del Carner, 2019)

Poco più di settanta minuti di viaggio nella memoria delle musiche dell’Appennino Emiliano, attraversando i luoghi dei suonatori popolari tra fine Ottocento e metà degli anni Settanta del secolo che ci siamo lasciati indietro. La paternità ideativa di “L’Appennino che suonava” è di Bruno Grulli, nome noto della ricerca etno-musicologica locale, già direttore del periodico “Piva del Carner”, a dirigere il lungometraggio è Alessandro Scillitani, affermato regista documentarista, il quale da tempo collabora con lo scrittore Paolo Rumiz (tra i tanti titoli della loro feconda relazione artistica, qui ricordiamo “Paolo Rumiz racconta la Grande Guerra, “Ritorno sui Monti Naviganti” e il recente “Alla Ricerca di Europa”). Basato sulle ricerche sul campo condotte da Grulli nell’arco temporale 1978-1983, questo importante film entra nell’universo dei suonatori, per indagarne i risvolti storici, musicali e antropologici, sullo sfondo delle bellezze naturalistiche dell’Appennino reggiano. Il lavoro si configura come una mediazione tra l’approccio etno-musicologico di Grulli – che è anche sceneggiatore – e l’estetica del cineasta Scillitani. Cosicché prende corpo una trama per niente passatista o nostalgica, intesa, piuttosto, ad esplorare la funzione sociale della musica e della cultura popolare all’interno di un’economia agro-silvo-pastorale, per restituirci storie locali, profili di personaggi e musiche che meritano di essere strappati all’oblio ed essere riconosciuti per la loro valenza sociale e musicale. Si tratta, spesso, di musicisti minori che, tuttavia, erano molti attivi e apprezzati nel territorio, e i cui suoni permeano ancora le case coloniche, le stalle e le osterie, ormai in stato di abbandono. Attraverso immagini d’epoca, materiale d’archivio, ma soprattutto interviste e racconti dei protagonisti di ieri e di oggi, emerge la quotidianità, la convivialità, la dimensione festiva privata, nelle quali la musica e la danza assolvevano a una funzione centrale. 
Proprio la musica e la danza sono protagoniste della pellicola, con scene poetiche e suggestive e con le musiche originali, registrate e fissate dal vivo, suonate dal polistrumentista e ricercatore Paolo Simonazzi, la cui narrazione agisce da filo conduttore nella ricostruzione della rilevanza del mondo dei sunadùr per la cultura montanara locale. In sua compagnia, ci sono i violini e la piva di Emanuele Reverberi e Filippo Chieli, con la partecipazione straordinaria del veterano fisarmonicista Remo Monti della storica Orchestra Alpina di Cervarolo. Imprescindibile, nella versione DVD, il libretto curato da Grulli, che fornisce una prospettiva documentaristica più ampia e approfondita delle diverse stagioni del fare musica nell’Appennino reggiano. Tra le sequenze del docfilm del regista reggiano risultano particolarmente efficaci le scene del ballo nell’osteria di Migliara (che era chiusa da 20 anni e riaperta per girarvi il film), quelle di una festa campestre. Ancora, l’attraversamento di Vercallo con piva e violino e la quadriglia di Sillano sul passo di Pradarena, piva e organetto al passo di Scalucchia, la marcia del Maggio di Costabona, l’esecuzione danzata della “Brigata Garibaldi” e, naturalmente, il “Ballo dei Tre Gobbi”. 
Qualcono potrà storcere il naso per la presenza non proprio filologica della ghironda, considerata l’estraneità dello strumento nella realtà dell’Appennino reggiano, eppure, va detto che può ben valere l’eccezione, per la presenza di un fine suonatore di oggi come Paolo Simonazzi, già sensibile esploratore di suoni con il gruppo La Piva dal Carnèr, che ha coniugato legame con la tradizione capacità di reinventarla negli seconda metà degli anni Novanta. Simonazzi è un musicista che fatto entrare i suoi strumenti – li costruisce e li ripara nel suo laboratorio di casa nella periferia di Reggio – nei dischi di tanti celebri artisti della canzone d’autore italiana. Parlando propriamente delle musiche: è un bell’ascolto di temi associati ai balli antichi staccati (giga, piva, manfrina, trescone, furlana), che erano eseguiti con strumenti diversi nelle diverse aree appenniniche, pur conservando una certa omogeneità di fondo, e di motivi del vecchio liscio (polca, valzer, ecc.), diffusisi nel corso dell’Ottocento. È interessante notare come il ballo saltellato chiudesse le feste sia come momento più giocoso che come richiesta nostalgica dei più anziani, dopo che era progressivamente caduto in disuso, soppiantato da quei nuovi balli che consentivano alle coppie di abbracciarsi e di stringersi. 
In ragione di ciò, i suonatori montanari, che interpretavano liscio e balli moderni di ispirazione americana fino agli anni Ottanta, conservavano in repertorio almeno una furlana da suonare su richiesta. I ben ventitré brani proposti nel film sono riportati in originale nella sezione extra, contenuta nel DVD: si tratta di immagini d’archivio della RSI Svizzera, provenienti da “Dalle Langhe all’Adriatico” – Appennino Reggiano e Modenese” del 1983, e di documenti sonori derivati principalmente dalle ricerche di Grulli, ma anche di Giorgio Vezzani e di Bruno Pianta. Scorrono le foto d’epoca mentre si ascoltano il violino di Ezio Chesi, le fisarmoniche di Alto Mattioli, Florindo Mori, Giorgio Mazzoni e Giuseppe Chesi, il clarinetto di Pietro Montermini, la voce di Renzo Casali. La parte del leone, con ben undici brani, naturalmente, la fa l’Orchestra Alpina di Cervarolo (Virginio Rovali al violino, Remo Monti alla fisarmonica e Walter Costi alla chitarra), che furoreggiò a lungo con la sua attività musicale per tutta la montagna reggiana. In distribuzione nelle sale dal mese di febbraio, “L’Appennino che suonava” è disponibile, come già detto, anche in formato DVD. 


Ciro De Rosa

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