
Il diapason che ho scelto come titolo del disco è il simbolo della sorgente del suono e della sua purezza. Questo strumento ha il potere di far entrare nella stessa vibrazione tutti i corpi e ciò significa che il suono unisce. Sia ha un unione profonda sulla stessa sintonia. Alla base del nuovo album c'è tutto questo ma, ci tengo a dirlo, è anche un po' la summa di tutta la mia carriera. Se pensiamo al mio primo Lp che si chiamava "Sonanze" in copertina riportava uno scacciapensieri, il marranzano che anche in questo caso rimanda alla vibrazione. Sono passati alcuni decenni e la mia visione della musica e del suono è rimasta molto coerente a sé stessa.
Il diapason rimanda anche concetto archetipale di musica...
Assolutamente. Tra l'altro, parlando della mia carriera ho pubblicato un Lp che si chiamava "Arcana" che si pone sulla stessa linea concettuale. La musica è un arte straordinaria e primordiale: nel principio era il suono e dunque l'archetipo. E', però, anche modernissima in quanto non da indicazione precisa rispetto a tante altre forme di arte come la letteratura, la poesia, la pittura, la scultura. Noi ascoltiamo una melodia e se siamo una, due, dieci, cento, mille persone in un luogo, ognuno di noi sarà libero di metterci quello che sente, di interpretarla secondo la propria visione. E', dunque, un'arte sociale e collettiva ma nello stesso tempo profondamente intima. Mi interessa molto la melodia come espressione del sentimento. Dal flauto di Pan al mito di Orfeo che incanta gli animali e fa danzare gli alberi, fino a quel suono che abbatte le mura di Gerico, mi affascina anche il suono nel suo potere.

Il diapason evoca le vibrazioni delle onde di forma del suono. Il suo lavoro si è indirizzato anche in questo senso?
Ho studiato musica elettronica allo Studio di Fonologia della RAI e ho lavorato al CNR di Pisa con Pietro Grossi e ho avuto modo di occuparmi di onde sonore, quadre e sinusoidali e della loro forma. Facevamo le “Fughe” di Bach al contrario e sembrava di essere nello spazio con queste enormi computer della IBM e tecnici in camice bianco. In passato, dunque, ho avuto modo di studiare molto le onde sonore e sul suono generato elettronicamente. Da qualche anno, ed in particolare in “Diapason”, sto lavorando sul potenziamento del suono acustico con dei software che hanno la capacità di portare alla luce dei suoni non udibili dall’orecchio umano, quelli che Pitagora definiva essenza dell’universo.

Come è riuscito ad evocare il suono della natura in “Diapason”?
Ha toccato un punto molto interessante. I software che utilizzo attualmente mi consentono di lavorare sulla natura del suono, o meglio su quelli che definisco suoni biologici. In buona sostanza tecnologia e natura non sono in antitesi ma anzi lavorano insieme e questa mi sembra una bellissima indicazione anche per il futuro non solo della musica. In questo caso non manipoliamo il suono ma lo espandiamo. A proposito di purezza e di suoni della natura, ho registrato il pianoforte in questa hall bellissima sulle Dolomiti con l’ingegnere Micheal Seberich, uno dei tecnici più importanti a livello internazionale. Proprio per non manipolare il suono abbiamo posizionato diciotto microfoni a distanze diverse all’interno della sala in modo da catturare tutte le frequenze possibili. In fase di mixaggio non abbiamo manipolato il suono ma ci siamo limitati soltanto a miscelare le armoniche.
Quanto è stato determinante dal punto di vista del suono questa particolare tecnica di registrazione…
Il fine era essenzialmente quello di attivare, attraverso le frequenze, ricordi dentro di noi che il suono può riportare alla luce.

Altro aspetto importante del disco è il tema dell’amore con cui si apre il disco. “Frequency of Love”, infatti, colpisce per la splendida linea melodica che sembra rimandare all’ultimo verso del “Paradiso” della Divina Commedia di Dante Alighieri: “L'amor che move il sole e l'altre stelle”…
Il testo di Gandhi di “A Gift” si conclude con il verso che dice “Scopri l’amore e fallo conoscere al mondo”. Questa è un’eredità meravigliosa perché l’amore come la musica è intimità ma anche universale. E’ per questo motivo che ho utilizzato il cristallo per la copertina che è come un diapason di un'altra scala in quanto l’interno e l’esterno si confondono.
Quanto è stato importante il contributo alla voce di Jacopo Facchini?
Utilizzo da molti anni la vocalità del controtenore ed è presente in molte mie opere, da “Generazioni del Cielo” a “Lamentazioni di Geremia”, perché contiene in sé l’elemento maschile e femminile che è presente in ogni persona. In una voce sola è contenuto questo registro aperto e questo mi interessa molto. La musica lascia grande libertà perché ognuno ci vede qualcosa di diverso può interpretarla senza alcun limite. Questa vocalità senza vibrato sembra attraversare il tempo e lo spazio perché rimanda alla musica barocca, a quella sacra ma anche alla post-elettronica.
In “Innocence” ha messo in musica un testo di William Blake…
Nel verso “Guardare il mondo in un granello di sabbia” racchiude quello che è il suono. Una nota è sferica, è una cellula, un pianeta, il Sole. E’ tutto in un grande universo unico, non duale direbbero i maestri tibetani o indiani.
Fare musica per me è un mezzo e non un fine. Dico questo perché la musica essendo un mezzo è la manifestazione dell’essere. Se guardiamo un corpo di luce come il sole la luce splende, al contrario in un pianeta freddo sarà tetra. A volte mi metto davanti al pianoforte come se stessi davanti ad uno specchio ad occhi chiusi e parto sempre dal silenzio. Se il silenzio dentro di me diventa spazio e mi fa raggiungere delle profondità particolari, il suono uscirà come una freccia: va e tocca chi ascolta sulla stessa frequenza. Insieme si può andare oltre. Certamente l’aspetto di esperienza, di lavoro sul suono e di ricerca è una cosa molto importante e riguarda la parte esterna, ma il lavoro grande si fa sull’attenzione dentro di sé sulla consapevolezza. Fare musica più profonda, richiede di essere evoluti, non si può essere materialisti. Il miglior modo per evolvere la propria arte è evolvere sé stessi.
Questa è una delle frontiere della musica…
Come dicevo prima, attualmente abbiamo delle possibilità che non c’erano nel Settecento o nell’Ottocento. Noi dobbiamo mettere insieme le esperienze, dobbiamo scoprire, viaggiare. In passato era molto difficile raggiungere l’India, l’Africa o l’Australia. Io ho avuto modo di studiare con maestri indiani, tibetani, nativi americani, sciamani, sufi e chiaramente questo arricchisce la visione musicale. Quello che mi fa molto piacere è notare che in tutto il mondo ho trovato un pubblico che vede nella musica una porta per accedere ad esperienze che nella vita quotidiana sarebbe difficile fare.

Personalmente sono molto aperto, ascolto e studio tutto ma, poi, alla fine cerco di fare una sintesi o meglio un distillato, qualcosa di diverso dal concetto di fusion tra più generi. Quello che esce è un'altra cosa che passa attraverso me. Dal punto di vista compositivo mi ritengo un pitagorico, lavoro sulla semplicità, sulle terze, le ottave, le quinte e qualche settima. L’armonia di un certo tipo lavora sulla sottrazione più che sulla somma.
Concludendo come si è indirizzato il lavoro sul palco per “Diapason”?
Durante il concerto stiamo utilizzando dei video di cose che ho registrato durante i miei viaggi in aereo nei quali la luce è usata come espansione con il raggio che parte, va a toccare e si trasforma. Frequenze sonore e raggi di luce che cercano di andare insieme è questo quello che cerco di fare in questo periodo. L’obiettivo è la ricerca di una luminescenza nel suono ed anche dentro di noi.
Salvatore Esposito
Roberto Cacciapaglia & Royal Philharmonic Orchestra – Diapason (Believe, 2019)

Marco Calloni