I Lupi della Majella – Dellädamonne (Radici Music, 2018)

Ci inoltriamo lungo “la via degli Abruzzi” in compagnia dei Lupi della Majella, Li Lope de la Majelle, se preferite il loro nome dialettale. Provengono da quella che è storicamente una regione di passaggio, di transiti di uomini e di merci, nonché di coesistenza di sistemi socio-economici (agro-pastorale e contadino), che si riflette sulle manifestazioni musicali tradizionali, testimonianza della convivenza di repertori e modi riconducibili sia al meridione d’Italia che all’area settentrionale, nonché di interessanti interazioni tra colto e popolare, di cui un esempio sono le scuole di liuteria tipiche del mondo artigiano. Ritrovatisi insieme intorno al 2011, nel giro di un anno i Lupi hanno intrapreso un lavoro di studio, ricerca e rielaborazione della tradizione musicale orale locale; hanno suonato nei festival folk e in eventi sociali privati e pubblici. Nel 2015 debuttano discograficamente con “Auu”, ora è la volta di “Dellädamonne”, espressione dialettale che significa “al di là del mondo”, con cui ci si riferisce a una sfera sacrale – secondo la cultura popolare locale – nella quale risiedono Dio, Gesù, Madonna, Santi e Angeli. Però, è anche il luogo dei morti e quello dove si rintracciare l’essenza vera delle cose belle della natura – raccontano i musicisti nelle note del disco – riportando le memorie di anziani a loro vicini. “Dellädamonne”, insomma, incarna il mondo della verità, contrapposto al mondo terreno della bugia. È un dimensione alla quale, in circostanze visionarie, possono accedere anche le persone comuni, li “cristijne”. Seguendo questa suggestione, il gruppo abruzzese si prefigge di suonare espressioni musicali di tradizione orale per superare le distorsioni del “mondo della bugia”, recuperando forme di piacere condiviso dalle comunità. In tal senso, i Lupi della Majella avvertono la responsabilità della valorizzazione delle musiche tradizionali, pur riproponendole con attitudine contemporanea. Stiamo parlando di un quartetto eterogeneo per formazione musicale, che allinea il musicista e attore teatrale Marcello Sacerdote (voce, percussioni tradizionali e zampogna a chiave, flauti arcaici, clarinetto popolare), attivo anche nel progetto di ricerca e formazione CuntaTerra, Sebastian Giovannucci (voce e organetto diatonico a 2 e 12 bassi, arrangiamenti), maestro di sonate a ballo ma anche pianista jazz, l’eclettico Alessandro Salerno (tamburi a cornice, percussioni e voce), attore, operatore culturale sociologo, Luca Sulcanese (bouzouki irlandese, cittern, zampogna a chiave, flauti e voce), musicoterapeuta, studi di zampogna a San Giovanni Teatino, a suo agio tanto con il mondo tradizionale abruzzese che con quello musicale celtico e nord europeo; al disco hanno collaborato Giovanni Mauro (chitarra classica) e Berardo Piccioni (basso tuba). Si tratta, dunque un organico interessante sotto il profilo strumentale, per la presenza di strumenti a fiato tradizionali, messi accanto agli organetti (non solo il classico ddù bbottë) e alle percussioni, nonché per l’utilizzo di strumenti folk revivalistici di ambientazione britannico-irlandese. In copertina, i loro strumenti sono adagiati su una coperta matrimoniale di lana e cotone, dipinta con colori naturali de tessuta con la tecnica detta col “Mastro a 5 licci” da Valeria Belli. Dei dodici brani presentati nella scaletta, alcuni sono stati appresi sul campo da musicisti locali, mentre la maggior parte proviene, invece, dalle rigorose e infaticabili ricerche etnomusicologiche e etnocoreutiche di Carlo Di Silvestre. Giuseppe Michele Gala, e Gianfranco Spitilli. “La Diana” messa in apertura dell’album, dà il senso del lavoro di riproposta creativa del gruppo, trattandosi di una marcia processionale di area teramana, di derivazione addirittura medievale, tradizionalmente eseguita dalle piccole bande rituali denominate Li tamurrë. Di grande interesse le procedure messe in atto nella successiva aria a pulire il grano (a munnà lu rane), “Mo si ni cale lu sole”, in cui la struttura strofica fa uso di parole nonsense impiegate per far collimare metrica verbale e musicale. Qui, il quartetto assume un comportamento musicale che nella parte iniziale riprende il procedimento polivocale, con la prima voce che intona il primo verso e sul finire entrano all’unisono, mentre la parte strumentale (zampogna, organetto, tamburi a cornice, bouzouki) si apre a un gustoso andamento sincopato. Segue “Ballarella della Majella”. La ballarella è la danza che con diverse varianti attraversa almeno quattro regioni (Campania, Lazio, Molise, Abruzzo). In “Lu Ntriccicapite”, si nota l’inserimento del basso tuba, mentre nella serenata “L’amore Li Fareme”, i Lupi si propongono in un inusitato organico di organetto, zampogna, cittern, tamburi e clarinetto popolare. Immancabile la saltarella, che è il ballo più tipico dell’Abruzzo, proposto con “Saltarella Cerquetana”, in cui gli stornelli sono cantati sulla suonata a ballo, e con lo strumentale “Saltarella Orsognese”. La spallata è un’altra danza, attestata fin dal XVII secolo, e distribuita nell’area adriatico-appenninica: dalle ricerche di Gala proviene “Spallata di Schiavi d’Abruzzo”, una delle varianti più ricche e articolate sul piano coreutico, caratterizzata anche dagli allusivi comandi al ballo. Un intro molto d’atmosfera dà inizio a “Aria a mete”, un tema associato alla mietitura, proveniente da Paglieta (CH), in cui la presenza del vurra vurra (il tamburo a frizione) accentua lo svolgimento ritmico, mentre l’organetto 12 bassi ricama liberamente nel finale, prima che le voci armonizzate chiudano il brano sorprendentemente. Gli stornelli di “Mariè” provengono dall’area teatina ma sono combinati con una melodia appresa a Fara Filorum. Siamo in Abruzzo, dunque non può mancare un canto di questua che segue le gesta di Sand’Andonjë, Sant’Antonio Abbate (“Il Sant’Antonio di Paglieta”). La figura del santo anacoreta è al centro di celebrazioni che prendono la forma di canti, questue e rappresentazioni drammaturgiche. Il conclusivo “Aria di Notte”, raccolto da Silvio Pascetta, mette al centro le belle armonie vocali. Il brano è ripreso nella bonus track, dove i quattro si lanciano in un’improvvisazione bluesy, incrociando organetto 12 bassi, flauto armonico e toy piano. Una proposta che contribuisce a rafforzare l’immagine di un Abruzzo musicalmente composito, in cui convivono memorie musicali, pratiche devozionali più antiche o rinnovate e rifunzionalizzate nei contesti locali di patrimonializzazione del popolare, e un bello stuolo di artisti, tra i quali entrano a pieno titolo i Lupi della Majella, che rileggono i materiali con sensibilità e capacità di adattamento. 

Ciro De Rosa

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