Luigi Cinque, Kunzertu 77 18, Zona Music Books 2018, pp. 442, Euro 24,90

Come accennavi all’inizio, quello dell’edizione originale era un altro mondo, quando la musica popolare era l’espressione delle classi subalterne e a un’idea di folk progressivo. Come stanno le cose oggi? Esiste un popolare contemporaneo?
La visione socio-antropologica si attesta indubitabilmente sul fatto che popolare (dicasi anche folk) presuppone la relazione stretta del repertorio con una comunità, con una collettività ben precisa, definita, culturalmente delineata, non ancora espropriata dei propri caratteri. In altre parole, non può esistere un esempio di popolare dialetticamente vitale senza il suo popolo. Oggi il popolo, quello generalmente antagonista, non esiste più. Esistono altre categorie di subalterni, di sfruttati, di dannati, di migranti, di senza speranza, di ceto medio impoverito, di proletariato della cultura, di nuovi poveri, milioni di artisti drop-out.  Per questo scrivo nel libro che non poteva mancare, … in questa «messa a tempo» del vecchio “Kunsertu”, nei «racconti del Grandifuori», il tema, in musica, della liquidità del popolare. Quel profondo di suoni e parole, fuori dal colto e chiesastico, con un principio di trasmissione essenzialmente orale, con differenti contesti di ascolto, e in continua riflessione e feedback con la propria comunità, ora si è fatto fluido, gassoso, ambiguo. Al meglio, il rito si congela e si trasforma in merce secondo la migliore tradizione del realismo capitalista. E va aggiunto che a dispetto dei cataloghi assiomatici di certa musicologia contemporanea, gli stili e i generi musicali sono ormai autonomi. Vanno altrove, verso il positivo elettrico del futuro, in cui niente si distrugge e tutto si combina. In questo senso il popolare – ancor più oggi l’etnico e l’arcaico, con la loro grammatica cardiaca – rimane un essenziale elemento alchemico di trasformazione verso una musica (e poesia) del terzo millennio che non potrà che essere transgenica. 

Ci fai entrare nel contesto culturale di quegli anni? Da cosa accadeva nella città di Roma al fatto che Longanesi, un editore non secondario, ti fa pubblicare un libro sulla musica tradizionale…
L’Italia tutta, e soprattutto Roma, in quel periodo erano luoghi di grandissimo fermento culturale. Luoghi dove davvero si miscelavano senza recinti precostituiti cultura alta e cultura bassa, tradizione e sperimentazione, teatro, cinema, musica, arti visive, canzone e poesia, in una sorta di drammaturgia delle arti che fu molto efficace e produttiva per tutti. Mi capitò diverse volte da studente di Composizione e frequentatore di Nuova Consonanza di partecipare a performance di improvvisazione nelle quali c’erano, non so, Ennio Morricone alla tromba, Frederic Rzewski al piano, Alvin Curran al sintetizzatore, Steve Lacy al soprano, cantori popolari vari, interpreti di classica e anche prossimi famosi cantautori. Oppure, che dire?,  il Folk Studio di Giancarlo Cesaroni, uomo straordinario e disponibilissimo, dove avvenivano cose ogni sera. Cose che lì per lì sembravano piccole serate, ininfluenti, fini a se stesse e invece scrivevano un pezzo di storia della musica italiana. Soprattutto riguardo alla canzone d’autore e alle varie declinazioni del popolare.  E poi le cantine dove il teatro d’avanguardia sperimentava la scrittura scenica al posto della regia su testo del teatro borghese. Eravamo alla fine di un periodo di lotte formidabili e di conquiste che in musica avevano sdoganato la nostra tradizione, quella della nostra anima più antica, delle nostre radici, dei nostri dialetti 
in contrapposizione alla vulgata borghese, al predominio postbellico angloamericano, all’incontrastato potere televisivo; che avevano portato alla ribalta cose ed estetiche inusitate collegate alle “nostre fasce folkloriche” o alla canzone dei nostri workers, della nostra classe operaia. Tutto arrivava da pionieri fantastici. In primis, per restare nel secolo e alla musica, il corpus registrato da Lomax e Carpitella, nei cinquanta, nel mondo antico dell’ultima Italia premoderna, così come il De martino di “Sud e Magia”, le canzoni storico/politiche e poi dopo, sintetizzando, anche le esperienze del “Ci ragiono e canto “, del Canzoniere Italiano e di molti altri. Nei settanta si era già arrivati, faticosamente, a una sorta di conclamazione dell’importanza e della verità insite nella nostra tradizione popolare. Ci stava a quel punto che un editore importante fosse interessato a segnare l’argomento incaricando (altro segno dei tempi) non un pennuto docente ricercatore ma un giovane capellone che, per via, nel mio caso, del Canzoniere del Lazio, si agitava in quella zona multicolorata ch’era il mondo di rivisitazione popolare e qualche studio demologico. Ti ripeto comunque, il racconto che faccio in “Kunzertu 77 18” parte da una valutazione di presente. Trovo che il tempo di oggi drammatico e in alcuni casi, per chi fa musica, durissimo abbia anche elementi interessanti al suo interno. Meno ipocrita certamente. Senza accorgercene, siamo in una storia fantascientifica alla Philippe Dick e, per quel che riguarda la musica, vedo intorno esperienze bellissime e tecniche strumentali davvero vertiginose.

La nuova edizione è imperniata su molti incontri in diverse parti del mondo. Non sempre parliamo di stelle conosciute della musica, ma di musicisti oscuri. Qualche esempio che ti ha insegnato molto?
Il salto al Grandifuori, cioè a dire alle culture altre di impianto più extraeuropeo, lo feci successivamente. Alla fine degli Ottanta, una volta compiuti studi classici e un’intensa partecipazione alle vicende della musica contemporanea post-weberniana. Non solo musica ma anche la frequentazione dell’Avanguardia – oggi mi fa ridere questa parola ma allora aveva un senso – Teatrale di Carlo Quartucci con Kounellis alle scenografie e grandi musicisti europei come maestri o ancora e l’esperienza con Pina Bausch. Finita quella fase e vista la sterile autoreferenzialità della musica contemporanea, sentii il bisogno di confrontare quello che facevo con le altre culture, gli altri ritmi, insomma con la diversità. Lì, per una serie di episodi fortunati, è cominciata una lunga avventura di progetti in Africa (Senegal, Guinea Bissau, Kenya, Etiopia), in Brasile, in Medio Oriente, nel Caucaso, nel Maghreb. 
Sempre con un’idea di Mediterraneo come nostra casa. Anche qui c’erano dei padri che avevano segnato la strada. Due per tutti: il Pasolini di “Appunti per una Orestiade Africana” e il teatro antropologico di Eugenio Barba. Fu lì che, lavorando con i musicisti, cantori e attori locali a un’opera che aveva come protagonista l’Aiace di Sofocle, ci trovammo spesso a dire: noi abbiamo Aiace che è così e così, tu cos’hai di uguale o simile. Mettevamo insieme nella stessa opera miti comuni e soprattutto analoghi. Avevo trovato qualcosa di importante, ovvero, il mito come valore di scambio, come territorio della vera integrazione. Raccontarci i nostri miti fondativi. Mettere insieme le nostre diversità senza finte uguaglianze. A causa soprattutto della Storia coloniale, del razzismo che ci contraddistingue (continuiamo a depauperare l’Africa), l’amicizia tra un europeo e un africano è simile a quella tra un cane e un gatto, bisogna reciprocamente lavorarci, ricucire la fiducia, perderci del tempo. Oggi l’uguaglianza semplicistica, acritica e sbandierata ai quattro venti è un pericolo e un’idiozia. Tra quelli che ci vogliono tutti cani o tutti gatti con questa idea fintamente democratica si annida l’orrore del nostro tempo che ci vuole uguali solo per farci consumare tutt’insieme il mangime (mediatico, alimentare, industriale, bellico) che le loro multinazionali producono. Si è creata una saldatura tra un certo egalitarismo idiota e gli interessi del neocapitalismo finanziario. Primo Levi, che come sai era un chimico, in “Zinco”, a un certo punto dice: «ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta e per questo tu non sei fascista, vuole tutti uguali e tu non sei uguale…».                                                                                         Tornando a noi, in quel cammino personale, ho conosciuto davvero figure di musicisti meravigliosi. Alcuni sono diventati i miei amici più cari. Per anni li ho invitati, ora l’uno ora l’altro, a lavorare nelle mie cose in Italia e in Europa. Hanno fatto parte di Officina Mediterraneo e poi della Hypertext O’rchestra. Oggi non ci sono più le economie per lavorare insieme, così ci vediamo rarissimamente. 

Che differenza tra gli incontri della prima edizione e ciò che è venuto dopo? Nel frattempo sei diventato un musicista multimediale…
Allora era – un po’ retoricamente – l’incontro con i padri. Grazie alla giovane età: avevo vent’anni. Era la scoperta che esisteva una tradizione. Se pensi che io come tanti altri avevo conosciuto la parola “Tarantula” da un romanzo di Bob Dylan letto a sedici anni. Eravamo immersi nella colonizzazione americana. Molto dopo avrei conosciuto le ricerche dell’abate Athanasius Kircher che, appunto nel 1600, studia il fenomeno intrinseco del tarantismo e scrive tra l’altro un pezzo musicale chiamato “Antidotum Tarantulae”, la melodia che apre, in una riedizione per fiati e percussioni, il disco “Lassa sta la me creatura” del Canzoniere del Lazio. 
Gli incontri che racconto in “KunZertu 77 18” hanno invece gli occhi miei e dei personaggi sullo stesso livello. Sono incontri tra fratelli, se vogliamo, in alcuni casi fratelli maggiori, ma già tra persone che stanno dalla stessa parte della vita. Che hanno fatto una scelta di campo professionale e politica, se così si può dire. Ed è per raccontare alcune di queste situazioni che nasce il mio cinema. I documentari sulle tournée in Africa, in Pakistan, in India, in Giappone in Marocco etc. e soprattutto, ultimamente, il racconto, il focus, su alcuni personaggi incontrati. Credo che la musica in questa  civiltà dell’occhio e del display che stiamo vivendo a danno della poetica dell’ascolto, abbia bisogno anche di raccontarsi, abbia bisogno di fare appello ad altre forme espressive. “Transeuropae Hotel” è il film da me più amato, interpretato da un nugolo di musicisti straordinari da Balanescu a Fariselli, da Salis a Sal Bonafede, da Petra Magoni a Peppe Servillo, e poi la scuola di Samba della Favela Madureira di Rio de Janeiro… interpreti brasiliani meravigliosi e una storia, dal mio punto di vista, molto intrigante. È stato un film molto premiato nel mondo. Quell’impresa mi ha incoraggiato ad essere un musicista, come dici tu, multimediale. Oggi esiste un mio cinema musicale che porto in giro per il mondo facendo accanto concerti di vario genere sempre, ridotta o estesa, con la mia Hypertext O’rchestra. 

Nell’introduzione del libro fai riferimento a Dijvan Gasparian, al duduk e alla dignità data a questo strumento dal mondo musicale sovietico?  Ce ne parli? 
Pedrag Matvejevič, l’autore di “Breviario Mediterraneo”, che ho avuto l’onore di avere prima come consulente, quando feci “Officina Mediterraneo” poi come amico, un giorno, al mio dire che la rivoluzione sovietica era stata un fallimento, mi corresse dicendomi: «Attenzione gli effetti di quella cosa li vedremo ancora per molti decenni e li giudicheremo nel tempo, così come  sentiremo la loro mancanza nell’abbrutirsi del neo capitalismo …» In effetti una delle grandi conquiste diffuse nelle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu per esempio la liberazione della donna. Da questo punto di vista l’Armenia non è certamente la Norvegia ma la struttura socialista, sia pure con le sue brutture, impose alle donne di andare a lavorare e questo immediatamente (con traumi e violenze non indifferenti, si capisce), riposizionò i generi e i rapporti tra essi. In quanto poi alle scuole di arte: musica, danza, recitazione. Beh lì, allora i Sovietici hanno lasciato un segno forte e indelebile. In organologia, poi, il recupero degli strumenti tradizionali ha seguito strade davvero intelligenti al contrario, dico io, della nostra museificazione. 
Il duduk di cui Gasparyan è maestro indiscusso, si insegna nei conservatori, si cerca di perfezionarne la struttura tecnica, si è incoraggiata la costituzione di una famiglia strumentale ovvero: duduk basso più lungo e con il legno ricurvo vicino all’ancia, duduk contralto (molto raro) e soprano. 

E da noi? 
La musica tradizionale da noi non esiste più quanto meno nei termini dialettici in cui questa definizione si intende storicamente. La musica tradizionale, e in toto la tradizione, presuppone un sistema di camere comunicanti - sempre in una condivisione di valori – tra tempo presente, memoria, trasmissione orale ( anche in tempo di scrittura avanzata ) del sapere, linguaggio di riferimento, cinesica relativa ai suoni, ambito mitico. Il rapporto linguistico tra “lange e parole” ovvero tra individuo e collettività, in quei termini è finito. Ne consegue che la musica tradizionale è ormai un paradigma a perdere. L’onda di omologazione ha “liquidato” tutti i contesti premoderni. C’è poco da fare. Certamente in Italia in quelle che Carpitella chiamava “le fasce folkloriche”, ovvero sopravvivenze espressive arcaiche che “niente avevano a che fare con il colto e il chiesastico”, hanno resistito più a lungo: il Salento certamente, l’Appennino Calabro-Lucano, la grande Sardegna delle launeddas e dei tenores, la Sicilia del cunto e dei carrettieri o degli ambulanti, la tarantella di Montemarano e così via. Ne sono tuttavia rimasti gli stili e i modi, molto spesso, ma come un assunto grammaticale che, in alcuni casi fortunati, oggi viene ripreso e innovato. Sono stilemi senza funzione sociale specifica. Ci sono molti giovani e meno giovani che oggi stanno lavorando su questo: sono interessantissimi, sembrano partire da macchie di DNA per far rinascere un essere vivente e lo fanno seriamente ed è davvero un segno che trovo positivo. Questa è una bella ipotesi di musica popolare ma da era già post-contaminata. Dopotutto, è quello che qualche decennio fa cominciò a fare il Canzoniere del Lazio anticipando in questo senso la storia, con l’energia e direi anche la felice ignoranza dei vent’anni, trovando in questo una sponda di ascolto eccezionale e anche la critica pingue di qualche cattiva coscienza già all’opera. 

Quando hai scritto “Kunsertu”, provenivi appunto dall’esperienza del Canzoniere del Lazio. Cosa può insegnare ancora oggi quel gruppo all’avanguardia nella sperimentazione  a partire dai linguaggi  di tradizione orale?
Proprio quello che dicevo poc’anzi. Un gruppo di ragazzotti di belle speranze in via di alfabetizzazione musicale che decide di entrare nella modernità della tradizione con tutte le scarpe della propria contaminazione. Questo era il CdL. Innovammo portando dentro i frammenti sopreavvissuti di tradizione orale, le nostre ambiguità di colonizzati e dunque il rock, il jazz, la musica contemporanea ma cercando in tutti i modi di non perdere il senso primo, musicale, politico e funzionale di quella grammatica che ci arrivava dalle ultime miracolose ricerche degli anni cinquanta o dalla nostra personale ricerca sul campo. I fatti ci diedero ragione. 
Non fummo i soli ma certamente eravamo in prima linea. In tutti i casi partimmo da un livello di contaminazione conclamata e di informazione borghese. Non eravamo popolo. C’è un lungo capitolo, che dedico nel libro al CdL e lì si evince, se si vuole, che la produzione musicale di “Lassa sta la me creatura” e “Spiritu bonu” (ora ristampati grazie alla cura di Pasquale Minieri e Gerardo Casiello… mi risulta addirittura che “Spiritu Bonu” sarà, tra l’altro, in edicola nella serie “Progressive Italiano” della Mondadori )… dicevo… quei dischi furono anche il frutto della nostra immersione nel sociale e politico del tempo. Tournée infinite in cui respiravamo a pieni polmoni il demone della mutazione di questo paese, la modernizzazione forzata, l’elettricità ossessiva di milioni di “sudici” che dal meridione erano arrivati al Nord, la disperazione del sottoproletariato giovanile del sud, l’eroina immessa nelle vene del movimento con un disegno preciso già sperimentato negli slums delle metropoli americane, la violenza politica dello Stato e dei fascisti. Il Capitale che aveva perso una mano poker e voleva rifarsi con tutta la violenza possibile. Le donne che uscivano in massa dal buio. E poi…c’era un grande circuito alternativo che sostentò fortemente quel cambiamento epico nella musica, nel teatro e nelle arti in genere. La classe operaia in parte e la gioventù politica furono il nuovo orecchio che, apparentemente almeno, rinfunzionalizzava la tradizione. Quando attaccavamo la “Tarantella dei Baraccati”  e o “Su Ballu”, quest’ultimo ispirato a moduli di ballo sardo, ed entrambi su nostri originali arrangiamenti già elettrificati e “metropolizzati”,  il feedback era davvero molto forte. Poco dopo, la classe operaia si è dissolta come neve al sole. Lo stiamo vedendo tutti. Adesso, nella società liquida, gli stili e i generi musicali, sono orfani anche del patrigno e della matrigna, camminano da soli. La loro comunità, se ce n’è una e se così si può dire, è semmai diffusa, è nell’etere, nelle ambiguità seriali dei social o di internet, nei concerti live sparsi per il mondo.

Eppure la vostra svolta, dopo i primi due album, non piacque a tutti, soprattutto nell’ambito degli studi sul mondo popolare. Perché, secondo te?
Dopo “Quando nascesti tune” al quale non partecipai. Io, con Minieri, Nebbiosi, Vento e Avallone entrammo dopo e tutti insieme iniziammo la fase dura e cruda di elettrificazione, metropolizzazione, modernizzazione etc. etc. Eh già… la messa al bando del CdL! Le liste di proscrizione e le medaglie su chi era più popolare e chi meno! Noi, nuovi, arrivavamo da altre storie e conoscevamo pochissimo o niente i nostri severi critici. Avevano più a cuore le vicende del jazz e della post avanguardia contemporanea che quelle della musica popolare. 
La cosa riguardava di più i fondatori del gruppo acustico, con Siliotto in primis. Ma lo stesso, tutt’insieme, ci ridemmo sopra. La questione, tuttavia, per i suoi rimandi era molto seria. Il successo di pubblico e di critica militante ci aiutò a farcene un baffo quando i tromboni dei Dischi del Sole e qualche studioso ci accusarono di lesa maestà, di mercimonio della tradizione, di tradimento…di cosa poi? … dell’originalità dello stornello umbro-laziale già da tempo violentemente abusato dal chiesastico e dal melodramma con testi, in alcuni casi, francamente imbarazzanti? O dei saltarelli zumpa zumpapa? Ma la cosa più strana era (ed ha continuato ad essere) che costoro, la maggior parte dei quali veri analfamusici, come li definivano Carpitella e Leydi, quando si si è trattato  di parlare della fenomenologia musicale americana postbellica, di Dylan ad esempio e dello stesso Springsteen, che pure hanno strafatto i loro bei tradimenti calpestando i Woody Guthrie e i Pete Seeger, e centinaia di blues men, erano tutti pieni di sussiego e ammirazione, ma quando invece si delineava il contesto Italiano sputavano i loro “vaderetrosatàn” con sospetta reattività. Alcuni pezzi grossi del Canzoniere Italiano negli incontri di lavoro, di concerti vari, nelle Feste dell’Unità o simili, smisero di salutarci. Si giravano dall’altra parte. Il malumore nei nostri confronti aveva, a pensarci, due diverse sembianze. C’erano coloro che reagivano in questo modo semplicemente perché vedevano minacciati oggetti di affezione sentimentale e di rappresentazione politica, ovvero i repertori popolari che, in quanto tali, erano da considerarsi ontologicamente rivoluzionari. E c’erano quelli invece che, in un modo o nell’altro, appartenevano a quel largo intreccio di  interessi che si era sviluppato, come un fungo tumorale, intorno agli studi demologici e, ma solo se in vitro, museificato, al patrimonio musicale popolare. Così accadeva che dietro al povero portatore (lo chiamavano così), al contadino/a – che cantava/suonava (gratis!!!! ), staccando magari la zampogna impolverata dal muro o l’organetto o la battente, sopravvissuto in un ambiente non più ospitale, affamato da bieche politiche sociali, aggredito dalla concorrenza spietata, sul limite di un mondo in via di scomparsa, tra sussidi e televisioni di stato – per via di qualche memoria cantata, si attaccavano, in assetto da cani da slitta, ricercatori, professori, editori, discografici, cantanti della riproposta, succhiatori di diritti d’autore, tutti pagati, tutti finanziati, tutti stipendiati tranne il fornitore della materia prima. Insomma l’interesse era (e continua in buona dose ad essere), per tutti, mantenere l’immobilità, la stagnazione, la museificazione perché solo in questo modo il “castelluccio” poteva restare in piedi. Il CdL senza saperlo, con il suo modernissimo “melting pot” a frammentazione, con la sua intrinseca eticità, con la sua forte energia, metteva in discussione tutto ciò, rimescolava le acque, 
e per questo fu accusato persino di violenza culturale nei confronti delle classi subalterne. E che dire allora di quelli che per decenni hanno saccheggiato a piene mani quel repertorio molto spesso senza citarne le fonti? O, ancor di più, dei diritti d’autore riconosciuti agli “uccellatori di stornelli”, che giravano per le campagne a registrare piuttosto che agli esecutori dei brani. Bisognava invece trascinare i portatori sui palchi, farli vivere della loro musica, adoperarsi per far pagare a loro, nelle loro tasche, i diritti d’autore. Sarebbe stato un modo di salvare persone e repertori. Nessun fondo di solidarietà, se mai uno è stato fatto, avrebbe potuto sostituire il suonatore che con quei soldi, i suoi, ci faceva quel che voleva, creando in tutti casi autostima e cultura di genere, sia che mantenesse la famiglia o li dissipasse a modo suo. Quello che guadagnava con i suoi blues l’afroamericano appena liberato da schiavo e in viaggio nelle metropoli del nord America  era suo e se pure li spendeva nei bordelli per soli neri, creava cultura perché era entrato con tutte le scarpe in un maledetto destino di autonomia. Qualche fulgido esempio lo abbiamo avuto anche noi. Sto esprimendo pensieri personali, si capisce… E poi, riprendendo il discorso, noi vivevamo il presente nel presente. Vi immaginate in concerto nella Milano plumbea, presidiata dalla polizia in assetto semi-bellico e blindati, con i fascisti in manifestazione contraria, nello stesso palco sul quale magari gli Area avevano suonato qualche minuto prima “Settembre Nero” e “L’Elefante Bianco”, e prima, che so? di Napoli Centrale con James che cantava “Campagna”, il CDL mettersi a fare, dal repertorio del primo disco cose tipo: «Sabato vado a Marino, bella brunetta di rose fresche e rose meschin. Sabato vado a Marino, bella brunetta, ohilì ohila’ .….. » Detto questo devo anche aggiungere che la riproposta “tout court” del repertorio popolare così come ci è arrivato, è uno stimabilissimo modo di fare musica, in un certo senso molto utile, ma è un’altra cosa rispetto a quello di cui stiamo parlando. 

A contribuire al volume “Kunzertu 77 18” hai chiamato a raccolta molti nomi provenienti da ambiti diversi… 
Ci sono dei contributi nel libro davvero interessanti. Di amici che stimo per le loro attività nella musica o sulla musica e la parola. Li voglio ancora ringraziare tutti. Ho voluto creare all’interno del libro una sorta di discussione che esulasse dal giudizio sul mio scritto per essere magari una meditazione, appunto, sulla definitiva liquidazione del popolare. Ho chiesto solo di prediligere nella scrittura un piano narrativo. 
Mi intriga rileggermi le loro cose. Va detto che essi non hanno alcuna responsabilità su quanto da me scritto in “Kunzertu 77 18”. Hanno lavorato senza aver letto nulla di quanto poi pubblicato. Grazie ancora!

È stata già citata più volte, parliamo del  tuo progetto a geometria variabile. Cosa incarna oggi la tua Hypertext O’rchestra?
L’H O’ è da molti anni il mio modo di intendere la musica. Formazione a organico variabile e nessuna preclusione di generi. Suoniamo contemporaneamente la sperimentazione contemporanea, il jazz, l’elettro acustica, la parola poetica e l’etnico. Ho l’onore di aver avuto con me musicisti e amici straordinari da Gasparyan a Balanescu, Emil Zrihan, Bismillah Kan, un certo gotha del jazz europeo e del mondo etnico mediterraneo, fantastici vocalist come Carles Denia, Petra Magoni, Badara Seck, Mangla Tiwari e Urna Chaktar Tugki e molti poeti e scrittori tra i quali Naipaul, Balestrini, Amiri Baraka e altri. È un’esperienza di post-contaminazione non sempre da intrattenimento, per come si intende oggi la musica. C’è una grande pratica di improvvisazione. Spesso in scena siamo autori in cerca di personaggio. I miei riferimenti sono al contempo Ligeti, Cage, il Coltrane e Davis modali, Bismillah Kan, il minimalismo, l’etnico e il popolare utilizzati in una forma più da arte concettuale e modernissima piuttosto che nella loro accezione esotico locale. Insomma, se si guarda al contesto internazionale dove siamo stati molto presenti negli anni passati non si tratta di un progetto particolarmente originale. È una via che molti compositori stanno percorrendo. Ogni volta è un’esperienza unica e irripetibile. Molto umilmente, si capisce. È un modo di ricercare divertente. L’H O’ professa l’equidistanza dai generi musicali. Cerca di creare ritualità in ogni occasione concertistica. E’ musica transgenica.

Hai realizzato un film su Antonio Infantino. Cosa ha rappresentato questo artista per te?
Antonio era un genio: un “Fabulous Trickster”, appunto. Disordinato e imploso ma uno dei personaggi più intriganti di questo pezzo di storia culturale italiana che abbiamo vissuto. Pittore, pensatore, orfico/pitagorico, poeta. Il suo disco del 75 “Antonio Infantino e i Tarantolati di Tricarico” ebbe una forza primitiva straordinaria. Ci ha insegnato molte cose. Il suo essere alla fine della sua vita un loser, la dice lunga sul sistema di interessi omertosi e di tromboni leccaculo che hanno distinto, in negativo, questi ultimi decenni del mercato musicale italiano. Non c’era posto per un intellettuale, inorganico al potere, e poco consolatorio come lui. 
E intanto il suo ritmo faceva saltare stomaco e pube di intere piazze. Lui e i suoi Tarantolati. Non era un musicista popolare. Era un fisico quantistico nel suo essere menestrello di un sud totalmente sublimato, onirico, tarantato. 

Il libro è accompagnato da un serie di ascolti. Di cosa si tratta? 
Sì… sarà postato su tutti i siti web di riferimento il CD “Kunzertu 77 18”. Più di 36 tracce che seguono un po’ la storia raccontata dal libro con contemporanee esperienze musicali. C’è un inedito straordinario del Canzoniere del Lazio. Si tratta di “Morra”, un brano del concerto – l’ultimo nella formazione tipo – alla Festa Nazionale dell’Unità 1976 con Carlo Siliotto al violino e voce, Pasquale Minieri al Basso, Piero Brega, voce e chitarra, Marcello Vento alla batteria, Luigi Cinque ai sassofoni tenore/soprano e voce.

Da anni organizzi il concerto di Santo Stefano a Roma, nella Basilica di Santa Maria di Aracoeli…
Nel tempo, il Concerto di Santo Stefano è diventato una data significativa della città, famosa per gli artisti proposti e per la linea originale di intrattenimento e sperimentazione che esso persegue da molti anni. Sul palco del Concerto sono passati molti dei più straordinari musicisti italiani e non solo. Sono certamente tra i più importanti della world, del jazz, del rock e della contemporanea. Così come attrici e attori strepitosi e giornalisti eroi: uno per tutti, Domenico Quirico nell’edizione del 2016, proprio dedicata alla pace e alla distruzione della civilissima Aleppo. Argomento di quest’anno saranno i suoni del vento e delle corde. Per la prima volta da centinaia di anni il meraviglioso organo a canne della Basilica – suonato per l’occasione da Riccardo Fassi, jazzista straordinario – sarà ascoltato insieme a un ensemble di zampogne, sue dirette antenate, e con essi i suoni di ambientazione elettro-acustici. Un’esperienza concertistica frontale e allo stesso tempo immersiva; una cantata colta e popolare che vedrà innanzitutto un’ambientazione in quadrifonia di tutto lo spazio, trasformato in una piazza sacra, come quando, un tempo, la Chiesa era anche il volto sacro della piazza. I musicisti proporranno una suite da Monteverdi, Bach, Ligeti, Cinque, improvvisando tra le orme di una partitura contemporanea di stampo cageano. 



Luigi Cinque, Kunzertu 77 18, Zona Music Books 2018, pp. 442, Euro 24,90
“Memorie di bordo per una musica del terzo millennio” è il sottotitolo di “Kunzertu 77 18”, un lungo viaggio attraverso quarant’anni di sperimentazione sonora, una raccolta di contributi che nasce dal desiderio di muoversi tra paesaggi sonori, visuali e letterari, interrogandosi su musiche che se da un lato ci impongono di leggere le differenze, dall’altro ci mettono di fronte alle tensioni culturali e politiche, alla trasgressione dei confini territoriali. Luigi Cinque – compositore, scrittore, musicista, regista, artista crossmediale, interprete del multiculturalismo – compie un rendez-vous con luoghi e persone, impone il suo sguardo che incontra e si confronta con “fratelli”, spesso fratelli maggiori, che «stanno dalla stessa parte della vita». Si riconosce l’incessante tratto compositivo dell’artista, le cui partiture frequentano territori e codici sonori diversi, sfuggendo a qualunque classificazione e recinto, rinunciano a una centralità specifica, a un inizio e una fine. Pagina dopo pagina episodi di vita musicale vissuta si incrociano con compagni di viaggio, di ieri e di oggi; contributi, interventi e testimonianze di musicologi e musicisti, gente di folk e di etnica, tanto maestri dell’arte musicale classica orientale quanto dei linguaggi contemporanei e del jazz. I loro nomi? Alla rinfusa, dimenticandone sicuramente qualcuno: Dionigi Burranca, Demetrio Stratos, Franco Evangelisti, Patrizio Fariselli, Luciano Berio, Bismillah Khan, Amiri Baraka, Piero Brega, Badara Seck, Maurizio Agamennone, Mimmo Cuticchio, Daniela Amenta, Nanni Balestrini, Giovanni De Zorzi, Enzo Gentile, Franco La Cecla, Petra Magoni, Valerio Magrelli, Predrag Matvejevic, Daniele Sepe e Luigi D’Agnese. La seconda parte del volume – in realtà, siamo di fronte a un doppio libro o una nuova prefazione che è debordata – contiene il testo integrale di “Kunsertu. La musica popolare in Italia”, pubblicato da Cinque nel 1977 per l’editore Longanesi e da tempo fuori commercio; un libro cult, dalla copertina cartonata, con l’indimenticabile foto che ritraeva volti di anziani e di giovani alla festa della Madonna Avvocata, sopra Maiori. Lavoro imprescindibile, artefice di molte vocazioni etnomusicologiche, lo scritto portava alla ribalta musiche altre, suonate all’interno di comunità agro-pastorali riproducendo scale e modi lontane dalla cultura ufficiale, con strumenti creati da sapienti maestri artigiani. Si parlava di launeddas, di zampogne, organetti e tammorre, di tarantismo e di ballo, di riti religiosi e di ritmi zoppi bartokiani. D’altra parte, si metteva l’accento sul fatto che non si poteva e non si doveva identificare la musica popolare italiana soltanto con la musica contadina, dal momento che occorreva fare i conti con i processi migratori interni, con le masse rurali inurbate. Delle convivenze di queste musiche altre, il volume si sviluppava tra indagine sul campo e testimonianze dirette. Però, “KunZertu 77 18” rifiuta deprimenti ossessioni nostalgiche pur non privandosi di emotività, piuttosto che la discontinuità con il passato, emerge la necessità di raccontare, inevitabilmente, in forma aperta e mai risolta, la contemporaneità della “liquidazione” del popolare.



Ciro De Rosa

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