Luigi Cinque, Kunzertu 77 18, Zona Music Books 2018, pp. 442, Euro 24,90

Fiatista, compositore, ricercatore, regista, Luigi Cinque è un artista originale, dagli sguardi plurimi: il suo crossover sonoro non è riducibile a qualsivoglia classificazione. Cinque ha vissuto le stagioni più fertili della musica di sperimentazione in Italia. Negli anni Settanta del secolo scorso incide per la Cramps “Note di atemporalità” e partecipa all’avventura del Canzoniere del Lazio, il giro di boa del folk revival italiano, un gruppo deciso a percorrere nuove vie nella pratica musicale a partire dalle espressioni della tradizione orale. Ha lavorato come musicista nel teatro di ricerca e nella nuova danza. I suoi studi di composizione elettronica, di jazz, di musica indiana, di filosofia e di estetica fanno maturare in lui l’idea di partiture che prediligano stratificazioni uditive, che incrocino differenti codici strumentali e vocali. Un’essenza post-contaminata di musica attuale, incarnata dalla Hypertext O’rchestra, che dirige da tempo, un gruppo aperto in cui figurano musicisti di estrazione assai diversa. Nel 1997 fonda il Festival romapoesia. Sul volgere del terzo millennio è maestro concertatore di Sunaulòs”, in una indimenticabile edizione del Festival della Zampogna di Scapoli. Regista e artista multimediale ha realizzato documentari e film, tra cui “L’opera dei canti e dei cunti”, “Officina Mediterraneo”, “Transeuropae Hotel”, “Terra di cinema” e, più recentemente, la pellicola “A fabulous trickster”, dedicata a Antonio Infantino. Tra le sue pubblicazioni editoriali, un posto di rilievo assoluto ha “Kunsertu” (Longanesi 1977), un libro imprescindibile, che è stato artefice di molte vocazioni etnomusicologiche. Ora, il volume è stato riedito in una nuova versione, “Kuzertu” 77 18”, di fatto un doppio libro, dalla struttura polifonica: “una messa a tempo del vecchio “Kunsertu”, il tracciato di oltre quarant’anni di ricerca e di sperimentazione dell’autore, con cui abbiamo conversato in occasione della nuova pubblicazione. 
    
Da “Kunsertu” a “Kunzertu”: siamo di fronte a più che una ristampa… c’è una zeta, perché?
A questo proposito, nell’introduzione del libro, scrivo: … «ora c’è una zeta, “Kunzertu”: più collegato al Konzert mitteleuropeo, all’esperienza contemporanea o tecno-berlinese, al viaggio inter/temporaneo, all’improvvisazione, a certa musica liquida, al post/umano, piuttosto che alle launeddas sarde, di cui ho infinito rispetto e da cui era derivato il titolo di allora, cuntsèrtu, che è il modo locale di chiamare il singolo strumento. “KunZertu 77 18” misura il tempo ad anni luce come le navicelle spaziali ed è infatti un diario di bordo, di incontri con persone straordinarie, gente di folk, di etnica, di classica orientale, di contemporanea e di jazz: storie di musica e di musicisti, punto». 
In altre parole, quella zeta è il segno di una mutazione genetica che ha subito il pianeta, che si è rimpicciolito al punto d’essere un villaggio globale a implacabile e brutale trazione neocapitalista e nel quale il segno più forte della modernità, con le tecnologie, è stata l’omologazione forzata, la globalizzazione delle merci e di contro, quasi a difesa, una folkloristica – spesso – tribalizzazione dei soggetti. L’unica rivoluzione necessaria e che dà speranza è quella femminile. La liberazione delle donne, in alcuni continenti in particolare, è l’unica alba possibile. In questo contesto liquido – alla Bauman, per intenderci – non è mancata l’estinzione mondiale del popolare in quanto essenza rappresentativa di collettività subalterne. Per dirla all’inglese, il folk non esiste più da tempo perché da tempo sono stati eliminati i folks, i popoli. Non può esserci popolare senza un popolo di riferimento e nella società liquida siamo altro, siamo tutti “consumantes”. È l’effetto del realismo capitalista. Il popolare appartiene ormai a una viscosità di costume. Serve ad alimentare interessi di botteguccia. Nient’altro. In questo senso quella Zeta di “KunZertu”, nella mia fantasia, è un po’ come lo strappo di Zorro o, più seriamente, come il taglio nella tela di Lucio Fontana… vuole dire che siamo davanti al “grande cambiamento”. Le cornici si stanno disgregando. Il futuro sarà un fiore che canta. “KunZertu 77 18” non soffre di nostalgia. Vive e racconta il passato dal presente. Come se fossimo seduti davanti a un camino in una pausa del Dicembre 2026 avendo considerato sempre che l’attualità è sempre il migliore dei progetti e delle possibilità che erano sul tavolo da gioco. 

Lo definisci un libro “dispari”, come un ritmo balcanico. Come hai strutturato questa riedizione “polifonica” ?
Sì,…zoppo come un ritmo balcanico. Questo per il semplice fatto che, quando si ebbe l’occasione e la volontà di ripubblicare il vecchio “Kunsertu”, quella che doveva essere una semplice e brevissima prefazione dell’autore divenne – scappandomi la mano, come si dice – un altro libro, di oltre trecento pagine. Dispari nel senso che la prefazione è più lunga del libro stesso. Mi ero in effetti reso conto che non potevo non raccontare – dal mio punto di vista, si capisce – quanto accadutomi e attraversato da quei giorni di primo ventenne: dai tempi di “Kunsertu” ad oggi. I luoghi, le persone soprattutto, i musicisti straordinari, donne e uomini che ho visto cavalcare la storia del mondo, drammatica e ingiusta, come surfisti, sulle tavole della poesia, della musica, della parola, della solidarietà. Ma insieme a questi anche episodi di vita vissuta con grandi maestri come Luciano Berio, Franco Evangelisti di Nuova Consonanza, il gran mondo popolare di gente come Dionigi Burranca, i Tenores vari, Ornette Coleman, Jivan Gasparyan, Alex Balanescu, Antonio Infantino, Demetrio Stratos, Lamine Kontè, Mangla Tiwari, Bismillah Kan, Urna Chaktar Tugki e molti molti altri. Darcy Monteiro per esempio, al quale ho dedicato il mio film “Transeuropæ Hotel”, percussionista e fondatore della Escola do Jongo della Favela Madureira di Rio de Janeiro, che con la musica e le esperienze ritmico-magiche combatteva lo strapotere dei Traficantes e delle Banche dell’Asfalto che sarebbe poi la Città dei Bianchi. Insomma, tanti sguardi sublimi di compagni di viaggio assai forti cui devo davvero qualcosa.

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