Il reggae, dalla Giamaica un tesoro dell’umanità

Bob Marley
«One love, one heart, let's get together and feel all right!» è l’incipit di un famosissimo inno alla pace di Bob Marley, estratto da “Exodus” (1977), da molti considerato l’album che fonde in maniera più compiuta l’impegno politico e la spiritualità del profeta del ghetto di Trench Town. Molteplici sono gli aspetti e i retroscena che rendono questo lavoro particolarmente significativo della vita e della carriera dell’artista giamaicano: l’attentato subìto nel dicembre del 1976, sei mesi prima della pubblicazione del disco, nell’abitazione donatagli dal produttore della Island Records, Chris Blackwell, al 56 di Hope Road a Kingston (una bellissima tenuta in stile coloniale dove ora sorge il Bob Marley Museum), il clima di guerra civile scoppiato per le strade in quegli anni, teatro di sanguinosi scontri a fuoco tra le bande armate, all’apice della contrapposizione tra le due fazioni politiche rivali, il People’s National Party (partito di ispirazione socialista), e il Jamaican Labour Party (partito conservatore), e non ultima la consapevolezza che per i guardiani dell’ordine mondiale la sua testa valeva quanto quella di un Robespierre, o più verosimilmente di un Malcom X o di un Martin Luther King ai quali direttamente si ispirava. 
Bob Marley
Bob Marley era considerato un personaggio scomodo per le sue idee di giustizia e di uguaglianza, per i suoi j’accuse senza fronzoli nei confronti del colonialismo, della schiavitù, dell’imperialismo. Ora, vedere i delegati dell’ONU alzarsi e ballonzolare al ritmo sensuale e ondivago di “One Love”, aizzando una bandiera col volto di Bob Marley (va notato che solo i rappresentanti dei Paesi africani hanno preso parte al rito con enfasi ed entusiasmo sotto lo sguardo attonito e indifferente di tutti gli altri delegati), è una scena che ha del “pittoresco”. Lo scorso 29 Novembre, infatti, il reggae è stato inscritto nella lista internazionale dei Patrimoni Culturali Immateriali dell’Umanità per il suo «contributo al dibattito internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità», assieme ad altre circa 400 tradizioni di ogni parte del mondo, dalla danza tradizionale in maschera zaouli dei guro della Costa d’Avorio, al fado, al canto a tenore dei pastori sardi, tutte ugualmente meritevoli di «tutela e diffusione», secondo l’organismo scientifico e culturale dell’ONU. Un commentatore del quotidiano britannico “The Guardian” ha paragonato in maniera molto colorita tale riconoscimento ad un tacchino che pianifica di diventare vegano il 25 dicembre, sottolineando in tal modo il ritardo (di almeno cinquant’anni) con cui l’UNESCO (e il governo giamaicano che ha presentato la candidatura), 
Bunny Wailer
una delle massime istituzioni internazionali (espressione della cultura dominante), ha scoperto questo “tesoro”! Il 29 Novembre 2018, però, è una data che gli abitanti della Giamaica – la piccola isola dei Caraibi di tremila abitanti che ha il triste primato del più alto tasso di omicidi nel mondo – non scorderanno facilmente; anche se sono stati in molti a storcere il naso, la stampa giamaicana restituisce il racconto di un’isola in festa. Principale prodotto (culturale) di esportazione dell’isola, il reggae è una forma di musica popolare (“popolare” perché nasce dal basso in un contesto di (auto)produzione artigianale abbastanza rudimentale) che, a partire dal suo luogo d’origine, ha avuto un grande impatto su scala globale fino a diventare una delle musiche (popular) più saccheggiate del pianeta. A cominciare dal dub, – che ancor prima di uno stile che ha dato origine a una categoria estetica a sé stante, distintiva rispetto al reggae, più vicino ad un settore di ricerca e di sperimentazione, è una tecnica di manipolazione del suono nata al mixer, molto innovativa da cui è scaturito anche il concetto del remix – matrice unica di altri sottogeneri (dalla dub-poetry all’experimental dub) e di generi derivati (jungle, dubstep, drum’n’bass, house, techno, etc) e dove risiede anche la radice della migliore musica elettronica odierna, e dall’hip hop, diretto epigone del toasting, 
Peter Tosh
l’improvvisazione cantilenante e declamatoria su una base (dub). Nella nota di investitura si legge: «Mentre nel suo stato embrionale la musica reggae era la voce degli emarginati, questa musica è ora suonata e abbracciata da una fetta ampia e trasversale della società, inclusi gruppi di vario genere, etnia e religione. Le funzioni sociali di base di questa musica come commento sociale, pratica catartica, e lode a Dio non sono cambiate e la musica continua ad agire come voce di tutti», per rimarcare come il carattere globale della musica reggae sia in piena sintonia con la vocazione universalistica dell’UNESCO. Subito dopo l’investitura, Olivia Grange, Ministra della Cultura giamaicana, ha immediatamente ribadito il tratto «unicamente» giamaicano del reggae, di cui la Giamaica intende rivendicare la primogenitura (e anche il copyright, possibilmente!): tutte istanze a cui si richiama espressamente il dossier di candidatura. Nient’altro che una questione di identità nazionale (prima che etnica o culturale, ma i concetti sono sempre correlati tra loro in una maniera molto subdola e potenzialmente pericolosa) che non ha niente a che fare con il concetto di “jamaicaness” teorizzato da Stuart Hall, fondato sul presupposto di un’identità culturale ibrida, diasporica, non fissata una volta per sempre. Insomma, tutt’altro che un’identità basata su una qualsivoglia essenza (nera, caraibica) quanto piuttosto un posizionamento nella storia, situata in un tempo e in un contesto. 
Jimmy Cliff
Alcuni studi collegano infatti i processi di patrimonializzazione con le politiche nazionaliste e con le relative concezioni di identità/alterità, appartenenza/esclusione. Sono infatti gli stati nazionali a gestire, inventariare, autenticare il patrimonio, per certi versi a «inventarlo» nel contesto delle strategie di «immaginazione di comunità». Anche oggi, pur in cornici disegnate da organismi sovranazionali, restano gli stati gli insindacabili soggetti delle politiche patrimoniali. In sostanza, il riconoscimento dell’UNESCO come “tesoro” dell’umanità serve in qualche modo a conferire al reggae lo statuto di “forma d’arte”, ma oggi è chiaro più di ieri che la classificazione arte/non arte è socialmente costruita e storicamente contingente. È proprio in virtù della circolazione dei prodotti culturali (oggi promossa e incentivata più che mai dalla Rete) che si scardina sempre più il confine tra cultura alta e cultura bassa, per cui un oggetto culturale (o una forma d’arte) occupa posizioni diverse all’interno della gerarchia high/low culture in epoche diverse, nel senso che, ciò che un tempo era subalterno può diventare egemonico in un’altra epoca. Come nel caso del jazz (o del blues), che Adorno classificava come musica leggera, standardizzata, che si è propagato in tutto il mondo sotto varie diramazioni fino alle forme più sperimentali e d’avanguardia (dal cool al free, all’acid jazz, etc.). 
Bob Marley
Il reggae, come già accennato, ha seguito più o meno le stesse traiettorie, anche se a differenza del jazz non ha ribaltato completamente la sua posizione nella gerarchia high/low (a parte, come si è detto poc’anzi, nella sua diramazione dub), ma resta prevalentemente l’espressione di una sottocultura di resistenza all’omologazione culturale e all’idea di una cultura unica ed omogenea: si pensi alla diffusione del reggae in Italia negli anni ’90 con l’esplosione delle posse e dei centri sociali dove si è formata una sottocultura numericamente e culturalmente consistente ancora oggi, con il suo linguaggio esoterico, le sue forme di produzione autonome e singolari. In Giamaica resta la musica dei poveri, da cercare negli interstizi delle istituzioni, nei mucchi di spazzatura e di lamiere, tra la gente del ghetto, i diseredati di ieri e di oggi come di domani, i senza voce in nome dei quali cantava Bob Marley, «Get up, stand up, stand up for your rights». Posti dove l’egemonia non ha mai pensato di trovare la cultura, tranne poi scoprire ogni tanto un “tesoro”.
  


Grazia Rita Di Florio

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