Donna, musicista, rockeuse dal timbro energico e la scrittura intelligente, Cristina Nico è una cantautrice ormai affermata nella scena musicale italiana. Genova è la sua casa e la sua famiglia, non solo musicale. Il suo primo lavoro di ampio respiro risale al 2014 (“Mandibole”, OrangeHomeRecords), ma Cristina aveva già all’attivo due ep autoprodotti: “Cinnamomo” (2006) e “Daimones” (2010). Con il brano “Le Creature degli Abissi” si è aggiudicata il Premio Bindi nel 2014; ha lavorato con gli Yo Yo Mundi e con la poetessa Bettina Bianchini ha formato il duo “LesÉlectrique”, che propone uno spettacolo di musica e poesia. Con le cantautrici Valentina Amandolese e Sabrina Napoleone ha fondato dieci anni fa l’associazione culturale Lilith che organizza il Lilith Festival della Musica d’Autrice, naturalmente nel capoluogo ligure. Ha pubblicato l’album “L’Eremita” per OrangeHomeRecords, nel giugno del 2018, prodotto con Raffaele Abbate; suonano nel disco i musicisti Osvaldo Loi, Robi Zanisi e Federico Lagomarsino, batterista con cui si accompagna in duo dal vivo: proprio dal loro live è nata l’idea e la struttura dell’album, come racconta lei stessa nella nostra intervista.
Visto che sei una delle fondatrice di un Festival di musica pensato al femminile, la prima cosa che mi viene da chiederti è se fare il tuo mestiere essendo donna sia più difficile; se – come per altri mestieri – anche qui una donna fa il doppio della fatica per affermarsi e se anche qui la comunicazione con la faccia maschile del tuo stesso universo passi sovente per messaggi che non sono di natura professionale.
Conosco anche altri ambienti lavorativi e devo dire che quello musicale si sta piano piano “demaschilizzando”, almeno in alcune sfaccettature. Naturalmente restano intatti certi cliché a cui alle donne che fanno arte e musica si chiede un po’ di rispondere; ma questa è una cosa un poco più sottile e quindi fatica a emergere.
Forse è anche un problema interiore delle donne stesse, nel modo in cui si pongono rispetto all’ambiente della musica e a come se lo raccontano?
Sì. A volte siamo proprio noi che senza rendercene conto – forse perché veniamo da qualche secolo di cultura tutta al maschile - e quindi anche se consciamente si tenta di disattendere certi cliché a volte è difficile. Mi riferisco a un certo modo di usare la voce e di porsi. Tutto un po’ troppo dentro certi canoni.
Spesso nelle canzoni delle donne si parla di vicende d’amore e da queste sembra dipendere ogni cosa. Non corrisponde alla realtà, ma sicuramente a certi cliché del femminile.
Credo che sia proprio la matrice culturale che porta a pensare che quei canoni siano da seguire per forza. Però devo anche dire che frazie al Lilith Festival ho conosciuto moltissime cantautrici che escono da questi standard.
Prima di parlare della Cristina Nico cantautrice, mi piaceva l’idea di parlare della Cristina Nico operatrice culturale. Come è nato il Festival e come mai avete scelto questo nome così simbolico?
La scelta del nome è stata fatta da Sabrina Napoleone. Lilith è Eva, la prima a ribellarsi a un Dio vagamente patriarcale e alla sua trasfigurazione umana, Adamo; ha rifiutato di soggiacere all’uomo e quindi è stata scacciata dal Paradiso Terrestre. È una figura anche demoniaca con delle doti intellettuali che prevedono la possibile ribellione allo stato costituito: è divenuta il nostro nume tutelare, oramai 10 anni fa. Sabrina poi aveva scritto una canzone molto bella che si chiama “Lilith” e noi abbiamo sposato questo riferimento.
Avete incontrato difficoltà per realizzare questo progetto?
Inizialmente a qualcuno sembrò un’autoghettizzazione; in realtà la nostra intenzione era far capire che in Italia esisteva una scena di artiste che stavano facendo un certo lavoro, in parte anche fuori da certi schemi della musica d’autore: il fantasma di De Andrè era forte e ci sembrava – ma era solo una ipotesi – che non avendo precedenti di genere, le donne da questo punto di vista potessero essere più libere. Volevamo fare il punto sullo stato dell’arte e sul mondo che intorno all’arte circolava. Con una sorta di “arroganza” ci siamo poste come una specie di Ministero delle Pari Opportunità nel nostro piccolo; lo abbiamo fatto senza fondi. Abbiamo scoperto che erano molte le donne che scrivevano, ma i cartelloni dei Festival continuavano a scarseggiare di nomi femminili, anche su quelli di musica emergente. Da allora mi sembra che le cose siano migliorate: voglio essere positiva.
Agli artisti tutti mancano spazi, a quelli emergenti spesso mancano anche punti di riferimenti, mancano certe figure che in un’altra epoca nelle etichette discografiche aiutavano dall’inizio alla fine l’artista.
La carenza è proprio quella: non è carenza di figure creative, ma forte mancanza di figure che facciano un po’ da “nursery “al talento, che aiutino a svilupparlo. Purtroppo l’industria discografica è esplosa e il mondo delle piccole etichette fa grande fatica. E anche le Major. A produrre un disco non ci vuole granché, perché con una strumentazione un po’ decente uno può farselo pure in uno studio casalingo, ma tutto il resto ormai non c’è perché i soldi non ce li ha più nessuno.
Forse manca anche un po’ l’autorevolezza, mancano quelle figure di mezzo che aiutavano a crescere. I produttori artistici di una volta, per capirci, quelli che avevano una funzione simile agli Editor delle Grandi Case Editrici di prima. Queste figure aiutavano l’artista a mettersi in discussione e ad andare oltre a quelle che immaginava essere le sue possibilità. Tu hai prodotto il tuo disco insieme con Raffaele Abbate di Orange Home Records. Come è andata?
Il ruolo di Raffaele è stato importante. Mi ha lasciato libera ed è stato molto bravo a darmi fiducia, soprattutto rispetto alle mie possibilità musicali: mi considero un’autrice e una cantante discreta, ma ho minore considerazione di me come musicista. Avevo scritto queste canzoni da sola, ma consideravo il mio modo di suonare traballante e invece su questo Raffaele è stato bravo e demiurgico: mi ha fatto suonare. La cosa buffa è che questo è un disco che sento molto mio e che anche lui sente molto suo; e poi c’è l’apporto di chi ci ha suonato. Con il batterista, Federico Lagomarsino, avevamo già cominciato a lavorare sui pezzi più rock: già li facevamo dal vivo; volevamo mantenere l’asciuttezza del live nel disco; d’altra parte per altri pezzi più d’atmosfera e rarefatti, dove era necessario suonare più parti, bisognava dare una idea più ricca. Su questo con Raffaele abbiamo lavorato molto. Roberto Zanisi e Osvaldo Loi sono stati importanti: ho voluto che suonassero quello che sentivano sui miei pezzi, perché conoscevo la loro sensibilità e personalità. Hanno così portato il loro pezzo di inquietudine, di ricerca. E tornando su Federico lui è l’unico batterista che conosco che i pezzi se li canta quando suona e bada moltissimo all’insieme. Quanto a Roberto, se non avesse suonato lui non ci sarebbero state quelle sfumature blues e mediterranee, che dal vivo sono molto più presenti.
Osvaldo, che in questo disco suona la viola, è anche un creatore di musica elettronica, ha una sensibilità tale che sa passare da una parte super classica al noise più estremo. E poi, anch’io ho fatto da sprone a Raffaele, che dopo anni ha rispolverato il synth. Ne ha fatto un uso morigerato ma molto dark e su “La Donna di Fuoco” un altro bell’apporto di campionamento electro-dark l’ha messo Sabrina Napoleone. Una bella squadra.
E restiamo dentro l’album, a partire dal titolo. A proposito di Lilith… con “L’eremita” siamo proprio in pieno Jodorowsky… La presentazione che avete dato al disco parla di questa figura che parte sola e arriva all’incontro; è certamente così, però a me sembra che l’attenzione sia soprattutto rivolta a questa solitudine, a questa diversità, in quanto tale e per quello che è. Mi verrebbe da dire che questo disco ha un’anima punk in senso esistenziale: un’anima punk ha interesse per ciò che ha intorno, però ci arriva mantenendo quella solitudine e quella diversità. Io ho sentito forte questo ascoltando per la prima volta il tuo disco. È solo una mia fantasia?
No, no: è vero! I temi della solitudine e della diversità contrapposte a una normalità - vera o presunta - sono un po’ alla base di tutte le canzoni; io non sono una tarologa ma mi affascina la figura archetipica dell’eremita e poi rispondeva a un bisogno del momento: una fase della vita in cui ho cercato di capirmi e conoscere meglio me e gli altri. L’Eremita dei tarocchi è la figura di un vecchio con la lanterna che comunque cerca qualcosa: qualcuno che si è distaccato dal mondo ma per andare verso la conoscenza. E poi io sono contraddittoria come tutti gli esseri umani e quindi vivo molto sia il bisogno di comunione con gli altri, sia quello di coltivare la solitudine.
Una solitudine però feconda e mai distaccata. Tutto il disco è giocato su questa contraddizione; alla fine siamo soli.
Nel disco ho percepito anche la paura di non riuscire a tenere sempre il filo tirato, a mantenere il famoso “equilibrio sopra la follia”. Una paura conscia?
“Funamboli” parla proprio di questo anche in amore; nella mia visione delle cose camminiamo sempre su un filo molto sottile in cui il rischio di cadere è alto, figuriamoci in un rapporto d’amore. Sembra una visione disincantata ma in realtà penso che se si rimane consapevoli che tutto si basa su equilibri molto sottili e che non esistono muri enormi tra il vivere sano e l’impazzire, forse si può riuscire a stare bene.
Quando scrivi una canzone ti senti: bene, male, non del tutto soddisfatta, o ancora senti che sei riuscita a mettere dentro una scatola qualcosa che si espandeva intorno a te? Oppure?
Sono poche le canzoni che scrivo e che escono fatte e finite. Di solito mi appunto le immagini che ho e ci comincio a lavorare e a mettere le parole. È un lavoro dilatato nel tempo. Quando giungo alla fine c’è l’idea di essere riuscita a catturare qualcosa e averla messa in una scatola – non è brutta l’immagine – ma resta una scatola sempre aperta. Dopo c’è una sensazione di pacificazione.
Un’ultima domanda su come suona questo disco. È un disco “strong”, sia nelle parole che nel suono.
Per quel che riguarda il suono innanzitutto c’è stata, come dicevo anche prima, la volontà di mantenere l’immediatezza e l’urgenza delle canzoni; se sui testi lavoro molto di lima, musicalmente ho proprio bisogno di salvaguardare immediatezza e urgenza, anche accettando il rischio che questo renda meno fruibile l’ascolto. Non è propriamente un disco punk e ci sono delle tessiture abbastanza complesse che arrivano dalla mia matrice musicale: io sono onnivora nei miei ascolti.
Che ascoltavi da ragazza?
Nico. Sono cresciuta negli anni Novanta e le chitarre distorte, il grunge accanto ai grandi cantuatori sono stati un po’ il mio humus musicale; sono sempre stata affascinata dalla rabbia e da chi era capace di esprimerla, ma anche da chi lavorava molto sulla parola. Fra i cantautori forse quello che mi ha influenzato di più è stato Battiato, malgrado la differenza di ricerca musicale, perché è quanto di più lontano dall’urgenza del rock e del punk. Però c’era in lui l’apertura verso altri mondi, la capacità di “arraffare” in maniera geniale. Io tento lo stesso tipo d’approccio alla musica.
Foto di William Tarantino
Cristina Nico – L’eremita (OrangeHomeRecords, 2018)
Cristina Nico ha la grinta e la forza, l’energia interiore dei grandi rockers; la sua voce è potente e arriva come uno schiaffo, come le verità che non si possono tacere e nascondere a se stessi; arriva a volte come lamento, altre come voce interna della coscienza, altre ancora come grido nell’antro della caverna. In ogni caso il suo canto e il suo sound vanno ogni momento d’accordo e le due doti interpretative mantengono sempre la sincerità della canzone d’autore, anzi d’autrice, perché Cristina è donna e il suo discorso, la sua arte, il suo messaggio sono femminili. La musica della cantautrice genovese è urgente e di lei sa raccontare la visione del mondo e dell’ anima, molto prima che si trasformi in parole. “L’Eremita” suona in maniera complessa, ha dentro il sapore di tutte le British Invasion possibili, a partire dagli anni Sessanta; è un suono pieno, corposo ma pieno di sfumature che si colgono sempre di più ad ogni nuovo ascolto. Per quanto la stessa Cristina abbia puntato sull’immediatezza e sull’urgenza del live - per mantere il più possibile la forza del suo lavoro dal vivo con Federico Lagomarsino - questo album lascia immaginare un lavoro di studio approfondito, una produzione artistica attenta, che ha saputo salvaguardare purezza del suono e potenza della musica dal vivo. Perché il bello di questo disco è che arriva diretto come un pugno nello stomaco e sa coinvolgere; è un disco vivo, che scuote, che fa pensare, anche solo per l’atmosfera che crea. E poi arrivano le parole: c’entrano l’obiettivo queste parole pensate e scelte a una a una, allo scopo di salvaguardare metrica, di non scendere mai nel banale (tranne forse solo nel caso, a parere di chi scrive, di “Chi c’è”), di ricreare un sentimento e un’idea del cuore e della mente, di saper raccontare il freddo quando c’è e il calore che si va ricercando, come l’uomo primitivo che tenta di riprodurre la potenza del fuoco. Infatti fanno pensare proprio alla mente solitaria dell’eremita, che nel viaggio verso la sua meta sconosciuta, ha nella testa e nel cuore mille pensieri, ricordi, amori, sentimenti, solitudini da sistemare, rimettere in ordine, accettare, dimenticare, risolvere. Ce la farà questo eremita a realizzare l’incontro con gli altri rimanendo se stesso? È la realizzazione stessa di questo album a dimostrarlo; “il bilancio è in attivo se sei ancora vivo” dice nella bellissima e potente “Disincantica” e precisa: “Il bilancio è in attiva se sei”. “La donna di fuoco” un giorno terrà animali nel suo piccolo giardino di città; come “I funamboli” saprà tenere teso il filo dell’equilibrio, tra l’amore, la pazzia e l’esistenza. O almeno si spera. In questo album ritroviamo l’anima punk (se non il suono anarchico) di certe donne che della solitudine fanno maledizione e forza, della diversità paura e marcia sicura verso l’avvenire. Cristina Nico ha la scrittura matura della grande canzone d’autore italiana; qualcuno la chiamerebbe “poetica”. E ha il sound del rock anglosassone più sofisticato, senza che risulti mai mera imitazione ma facendone invece originale interpretazione. La sua voce si disinteressa di ogni immagine preconfezionata sul canto al femminile: la sua voce è, semplicemente, il canto intonato e pieno di una donna. L’Eremita è un disco bello e importante. A questo punto aspettiamo il capolavoro.
Elisabetta Malantrucco
Tags:
Storie di Cantautori