
Visto che sei una delle fondatrice di un Festival di musica pensato al femminile, la prima cosa che mi viene da chiederti è se fare il tuo mestiere essendo donna sia più difficile; se – come per altri mestieri – anche qui una donna fa il doppio della fatica per affermarsi e se anche qui la comunicazione con la faccia maschile del tuo stesso universo passi sovente per messaggi che non sono di natura professionale.

Forse è anche un problema interiore delle donne stesse, nel modo in cui si pongono rispetto all’ambiente della musica e a come se lo raccontano?
Sì. A volte siamo proprio noi che senza rendercene conto – forse perché veniamo da qualche secolo di cultura tutta al maschile - e quindi anche se consciamente si tenta di disattendere certi cliché a volte è difficile. Mi riferisco a un certo modo di usare la voce e di porsi. Tutto un po’ troppo dentro certi canoni.
Spesso nelle canzoni delle donne si parla di vicende d’amore e da queste sembra dipendere ogni cosa. Non corrisponde alla realtà, ma sicuramente a certi cliché del femminile.
Credo che sia proprio la matrice culturale che porta a pensare che quei canoni siano da seguire per forza. Però devo anche dire che frazie al Lilith Festival ho conosciuto moltissime cantautrici che escono da questi standard.
Prima di parlare della Cristina Nico cantautrice, mi piaceva l’idea di parlare della Cristina Nico operatrice culturale. Come è nato il Festival e come mai avete scelto questo nome così simbolico?

Avete incontrato difficoltà per realizzare questo progetto?
Inizialmente a qualcuno sembrò un’autoghettizzazione; in realtà la nostra intenzione era far capire che in Italia esisteva una scena di artiste che stavano facendo un certo lavoro, in parte anche fuori da certi schemi della musica d’autore: il fantasma di De Andrè era forte e ci sembrava – ma era solo una ipotesi – che non avendo precedenti di genere, le donne da questo punto di vista potessero essere più libere. Volevamo fare il punto sullo stato dell’arte e sul mondo che intorno all’arte circolava. Con una sorta di “arroganza” ci siamo poste come una specie di Ministero delle Pari Opportunità nel nostro piccolo; lo abbiamo fatto senza fondi. Abbiamo scoperto che erano molte le donne che scrivevano, ma i cartelloni dei Festival continuavano a scarseggiare di nomi femminili, anche su quelli di musica emergente. Da allora mi sembra che le cose siano migliorate: voglio essere positiva.
Agli artisti tutti mancano spazi, a quelli emergenti spesso mancano anche punti di riferimenti, mancano certe figure che in un’altra epoca nelle etichette discografiche aiutavano dall’inizio alla fine l’artista.
La carenza è proprio quella: non è carenza di figure creative, ma forte mancanza di figure che facciano un po’ da “nursery “al talento, che aiutino a svilupparlo. Purtroppo l’industria discografica è esplosa e il mondo delle piccole etichette fa grande fatica. E anche le Major. A produrre un disco non ci vuole granché, perché con una strumentazione un po’ decente uno può farselo pure in uno studio casalingo, ma tutto il resto ormai non c’è perché i soldi non ce li ha più nessuno.

Il ruolo di Raffaele è stato importante. Mi ha lasciato libera ed è stato molto bravo a darmi fiducia, soprattutto rispetto alle mie possibilità musicali: mi considero un’autrice e una cantante discreta, ma ho minore considerazione di me come musicista. Avevo scritto queste canzoni da sola, ma consideravo il mio modo di suonare traballante e invece su questo Raffaele è stato bravo e demiurgico: mi ha fatto suonare. La cosa buffa è che questo è un disco che sento molto mio e che anche lui sente molto suo; e poi c’è l’apporto di chi ci ha suonato. Con il batterista, Federico Lagomarsino, avevamo già cominciato a lavorare sui pezzi più rock: già li facevamo dal vivo; volevamo mantenere l’asciuttezza del live nel disco; d’altra parte per altri pezzi più d’atmosfera e rarefatti, dove era necessario suonare più parti, bisognava dare una idea più ricca. Su questo con Raffaele abbiamo lavorato molto. Roberto Zanisi e Osvaldo Loi sono stati importanti: ho voluto che suonassero quello che sentivano sui miei pezzi, perché conoscevo la loro sensibilità e personalità. Hanno così portato il loro pezzo di inquietudine, di ricerca. E tornando su Federico lui è l’unico batterista che conosco che i pezzi se li canta quando suona e bada moltissimo all’insieme. Quanto a Roberto, se non avesse suonato lui non ci sarebbero state quelle sfumature blues e mediterranee, che dal vivo sono molto più presenti.

E restiamo dentro l’album, a partire dal titolo. A proposito di Lilith… con “L’eremita” siamo proprio in pieno Jodorowsky… La presentazione che avete dato al disco parla di questa figura che parte sola e arriva all’incontro; è certamente così, però a me sembra che l’attenzione sia soprattutto rivolta a questa solitudine, a questa diversità, in quanto tale e per quello che è. Mi verrebbe da dire che questo disco ha un’anima punk in senso esistenziale: un’anima punk ha interesse per ciò che ha intorno, però ci arriva mantenendo quella solitudine e quella diversità. Io ho sentito forte questo ascoltando per la prima volta il tuo disco. È solo una mia fantasia?
No, no: è vero! I temi della solitudine e della diversità contrapposte a una normalità - vera o presunta - sono un po’ alla base di tutte le canzoni; io non sono una tarologa ma mi affascina la figura archetipica dell’eremita e poi rispondeva a un bisogno del momento: una fase della vita in cui ho cercato di capirmi e conoscere meglio me e gli altri. L’Eremita dei tarocchi è la figura di un vecchio con la lanterna che comunque cerca qualcosa: qualcuno che si è distaccato dal mondo ma per andare verso la conoscenza. E poi io sono contraddittoria come tutti gli esseri umani e quindi vivo molto sia il bisogno di comunione con gli altri, sia quello di coltivare la solitudine.

Nel disco ho percepito anche la paura di non riuscire a tenere sempre il filo tirato, a mantenere il famoso “equilibrio sopra la follia”. Una paura conscia?
“Funamboli” parla proprio di questo anche in amore; nella mia visione delle cose camminiamo sempre su un filo molto sottile in cui il rischio di cadere è alto, figuriamoci in un rapporto d’amore. Sembra una visione disincantata ma in realtà penso che se si rimane consapevoli che tutto si basa su equilibri molto sottili e che non esistono muri enormi tra il vivere sano e l’impazzire, forse si può riuscire a stare bene.
Quando scrivi una canzone ti senti: bene, male, non del tutto soddisfatta, o ancora senti che sei riuscita a mettere dentro una scatola qualcosa che si espandeva intorno a te? Oppure?
Sono poche le canzoni che scrivo e che escono fatte e finite. Di solito mi appunto le immagini che ho e ci comincio a lavorare e a mettere le parole. È un lavoro dilatato nel tempo. Quando giungo alla fine c’è l’idea di essere riuscita a catturare qualcosa e averla messa in una scatola – non è brutta l’immagine – ma resta una scatola sempre aperta. Dopo c’è una sensazione di pacificazione.
Un’ultima domanda su come suona questo disco. È un disco “strong”, sia nelle parole che nel suono.
Per quel che riguarda il suono innanzitutto c’è stata, come dicevo anche prima, la volontà di mantenere l’immediatezza e l’urgenza delle canzoni; se sui testi lavoro molto di lima, musicalmente ho proprio bisogno di salvaguardare immediatezza e urgenza, anche accettando il rischio che questo renda meno fruibile l’ascolto. Non è propriamente un disco punk e ci sono delle tessiture abbastanza complesse che arrivano dalla mia matrice musicale: io sono onnivora nei miei ascolti.
Che ascoltavi da ragazza?
Nico. Sono cresciuta negli anni Novanta e le chitarre distorte, il grunge accanto ai grandi cantuatori sono stati un po’ il mio humus musicale; sono sempre stata affascinata dalla rabbia e da chi era capace di esprimerla, ma anche da chi lavorava molto sulla parola. Fra i cantautori forse quello che mi ha influenzato di più è stato Battiato, malgrado la differenza di ricerca musicale, perché è quanto di più lontano dall’urgenza del rock e del punk. Però c’era in lui l’apertura verso altri mondi, la capacità di “arraffare” in maniera geniale. Io tento lo stesso tipo d’approccio alla musica.
Foto di William Tarantino
Cristina Nico – L’eremita (OrangeHomeRecords, 2018)

Elisabetta Malantrucco
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Storie di Cantautori