Originario di Pittsburgh ma residente a Nashville, William Fitzsimmons ha spostato nel suo nuovo orizzonte tutta la sua vita e la sua musica. Qui lo hanno portato le sue vicende personali, e la sua musica ne ha giovato in modo evidente, completandosi dentro un equilibrio nuovo e piacevole, sia sul piano della composizione che della produzione. Per chi non lo conosce, Fitzsimmons ha una lunga e ottima discografia (il primo album risale al 2005), destinata probabilmente a essere paragonata con questo nuovo album, (a detta di molti) più sperimentale, più “integrato” e allo stesso tempo più diretto e autobiografico. Se infatti negli album precedenti questo cantautore con voce soave e vellutata, e ottima mano da chitarrista, si era orientato in un ambito più acustico, intimo e cantautorale, con “Mission Bell” ha spostato il centro verso una strumentalità più articolata, grazie alla presenza del produttore Adam Landry e alla necessità di rivedere molte cose del suo passato. Questo “progresso” è avvenuto mantenendo verosimilmente un contatto concreto con la sua vena di scrittore intimista, che qui deborda organicamente in una strutturazione musicale più piena. Il processo (oltre che il risultato) è molto interessante. Sembra infatti che Fitzsimmons abbia (per la prima volta in vita sua) ricostruito il suo album, dentro una dinamica di riconsiderazione totale di ciò che lo aveva portato fin lì e di ciò che aveva dato forma alle versioni originali di “Mission Bell”. Come ci dice lui stesso: “When I was forced to see the truth of haw rotten things had become inside and around me, I deleted every note and every word”. In questo quadro possono leggersi le collaborazioni (oltre che con Landry, che ha lavorato in veste di produttore anche per Los Lobos, K.D. Lang e Vanessa Carlton) con la compositrice e polistrumentista Abby Gundersen e la cantautrice statunitense Rosie Thomas.Se anche qui l’andamento generale può considerarsi di atmosfera, calato dentro una dimensione riflessiva, mai estemporanea, la costruzione generale della cornice sonora dell’album rivela una cura esemplare nella selezione degli strumenti, dei suoni, della calibratura delle articolazioni armoniche con la voce melliflua di Fitzsimmons. In alcuni passi - nei quali spesso si ravvisa uno scorcio oltre il guscio, qualcosa che richiama l’immagine di una finestra aperta su qualcosa che sta per arrivare, uno spicchio di luce - si percepisce in pieno il potenziale di questo artista. Un potenziale che riesce probabilmente a esprimersi al meglio proprio dentro il confronto con i soggetti che lui stesso ha scelto per trasportare i suoi brani in questa nuova dimensione. In questo senso, oltre all’attenzione alle musiche, i confronti con le voci femminili sono sublimi. Da un lato perché fortificano la centralità della voce di William, senza distaccarne il fulcro dalla pressione dei contenuti. Dall’altro perché, nello stesso momento in cui si aggrappano al racconto e lo cantano, le voci in unisono riescono a irrorare ogni brano con sprazzi di luce necessaria e liberatoria. I cui migliori benefici si ravvisano fin dal primo ascolto nella brillantezza del canto, in una coralità mai forzata che, pur mantenendo quella prospettiva inevitabilmente intimistica, rappresenta un’apertura fondamentale, una sospensione che trascina chi ascolta in uno spazio più tangibile e meno psicologico. Brani come “Leave her” e “Lovely” si configurano così come dei punti di riferimento irrinunciabili per comprendere l’orizzonte di questa scrittura, di questo pensiero. Vi si scorgono alcune aperture melodiche edificanti, come la frase di chitarra elettrica che segue il ritornello di “Whait for me” e che gradualmente assume il profilo di una terza voce, di un contorcano squillante che inclina in una posizione meno sicura l’andamento stesso del brano, rendendolo più approssimativo ma, proprio per questo, più aperto, comprensibile, edificante.
Daniele Cestellini
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