Impossibile una miglior chiusura per la ventesima edizione di Dromos: sì, perchè un concerto di Seun Kuti è terapeutico, bello da vedere e stimolante da ascoltare: un’ora e trequarti di afro-funk, non solo ottima musica, ma uno show imprevedibile, sexy e, a suo modo, elegante, con il leader che non nasconde le proprie idee sul mondo e non le manda certo a dire su colonialismo (con una strenua difesa dell’uso del pidgin-english come lingua nazionale), immigrazione, corruzione e l’ipocrisia di uno show-biz dove “tutti prendono coca, acidi e pastiglie ma fanno finta di scandalizzarsi se uno si accende uno spinello” (dall’introduzione di “Bad Man Lighter”). Seun Kuti, figlio minore di Fela e ultimo rampollo di una famiglia musicale che vede anche le gesta del maggiore Femi, è cantante, sassofonista, pianista, ballerino e band-leader di un ensemble di 14 elementi, i più anziani dei quali militavano in Africa‘80, la mitica band di Fela di cui gli Egypt ‘80 sono considerati la re-incarnazione.
Una sezione fiati maestosa (precisa e intonata), due chitarristi che eseguono incredibili e raffinati ricami sonori, e una sezione ritmica composta da basso,batteria, woodblock, shekerè e conga, oltre a due coloratissime ballerine-coriste .sono il massiccio schieramento di forze presente sul palco, impattante a livello sonoro e visivo. Il repertorio è basato quasi interamente sui brani dell’ultimo “Black Times”, prodotto dal genio di Robert Glasper, brani che dal vivo, dilatati nella loro struttura e uniti in forma di suite fino a rasentare i venti minuti di durata, raggiungono un’intensità e una compiutezza addirittura maggiore di come appaiono su disco. Così si susseguono la programmatica “Lost Revolutionary” (Revolution è il fil-rouge di questa edizione di Dromos), l’invettiva anti-governativa di “C.C.P.D./Give me my Vote Back” ( “Prometti di darmi la pace e mi dai la guerra / prometti giustizia e metti in galera solo i poveri / prometti lavoro e chiudi le fabbriche / ma c’è sempre lavoro in prigione”), l’anti proibizionista “Bad Man Lighter”, il manifesto “Struggle Music”,
le aspettative di “African Dreams”, con i richiami ai grandi uomini africani del passato come Patrice Lumumba e Tomas Sankhara. Il tutto in un afrobeat, che risente sì della lezione del padre, ma che si dimostra fresco e denso di umori funk e che il numerosissimo pubblico, sotto il palco a ballare sin dalle prime note, dimostra di gradire. La serata che suggella Dromos, in gemellaggio con il Festival Mamma Blues di Nureci, bellissimo borgo della regione storica della Marmilla, è stata aperta dalla breve esibizione dei South Sardinian Scum, band di punkabilly guidata dall’ottimo cantante Giampietro Guttuso e dalla lettura dell’ultima puntata del Bestiario della Rivoluzione di Alessandro Melis. Mamma Blues ha ospitato nei giorni precendenti anche l’Afro Blues del camerunese Roland Tchakountè e il raffinato show della norvegese Kristin Asbjornsen, in bilico fra jazz, pop, gospel e, naturalmente, blues.
Gianluca Dessì
Foto di Christian Sebis
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