Migranti 2.0 – Voci e suoni interculturali (Morleo Editore, 2017)

Interessante progetto multiculturale, sorretto da una visione di inclusione sociale e di condivisione musicale (in questo senso sono rappresentativi i due brani “Sea sound” posti in apertura e chiusura della scaletta). A partire dalle parole che compaiono nel disco (senza una determinazione precisa: qual è il titolo dell’album? qual è il nome del gruppo/progetto?), ci rendiamo subito conto che l’aspetto più importante non è la nominazione (la formalizzazione di un’idea), ma l’incontro artistico, declinato dentro il significato sociale più profondo che questo può avere. Uno sguardo ai soggetti che include ci aiuta a capire, invece, qualcosa in più sulla prospettiva musicale. Vi sono alcuni cantanti africani (Thian El Hadgi Baba, Papi Diarra Abdoulaye, Mbengue Elhadji e Bambara Iliyass: immigrati nel nostro paese, stanziati in Puglia, e in contatto con alcuni soggetti che si occupano di integrazione culturale), i quali propongono alcune melodie tradizionali nelle loro aree di provenienza (incluse nell’Africa centro-occidentale). Vi sono poi quattro musicisti italiani, che mettono insieme un suono straordinario, realizzato con sassofono (Paolo Debenedetto), fisarmonica (Francesco Palazzo), basso tuba (Giuseppe Scarati) e percussioni (Luigi Morleo). Un suono che si annoda intorno alle melodie corali delle voci, incanalando la scrittura in un’area per forza ambigua, sospesa tra l’estemporaneità (tradizione orale, memoria, improvvisazione) e la composizione, piena di suggestioni e rimandi ai mille riflessi che l’incontro musicale può produrre (“Don’t leave me”). Intorno a loro – che sono i protagonisti di queste sette musiche costruite su melodie della Nigeria, Senegal e Burkina Fasu – si muovono i soggetti riconducibili a ciò che intendiamo, in modo più generico, con incontro culturale: il Centro Interculturale Abusuan e la Cooperativa Medihospes, ai quali si aggiungono il Conservatorio di musica N. Piccinni di Bari e la Regione Puglia. Ecco, a questo punto il quadro è completo e, come detto all’inizio, i suoi contorni ci parlano di musica in senso pieno, come mezzo dell’espressione, come codice dell’incontro con l’altro, come spazio di riflessione e di sperimentazione, come espressione in cui permea quell’insieme di elementi che si possono ricondurre alla storia delle società e, ovviamente, alla nostra contemporaneità: la narrazione della propria storia (a volte di alcuni aspetti della propria identità di individuo e di membro di un gruppo sociale), la selezione degli elementi che meglio la rappresentano, le conoscenze artistiche e delle espressioni attraverso cui si rappresentano, il ricorso alla memoria, le competenze tecniche. Perché se il dato “popolare” dell’album coincide con la presenza delle melodie africane (e, con loro, dei cantanti africani, i quali vengono da lì ma vivono qui, con tutto ciò che questa divaricazione può comportare in seno agli elementi di cui sopra), il dato “musicale” non può che essere compreso dentro l’insieme (“Foilange”). Dentro cioè la sovrapposizione della competenza musicale degli italiani (che comprende e che è anzi in questo caso orientata dalla presenza di Luigi Morleo, il quale, oltre a suonare le percussioni, compone i brani e produce l’album) e la “posizione” degli africani. Il dato è tutt’altro che secondario, perché racchiude il nucleo delle questioni che stanno a cuore a tutti i soggetti che sono stati citati in queste righe. Un dato in cui risiede il grosso della visione multi-culturalista, che qui, grazie alla musica, emerge in modo paradigmatico: si cerca di comprendere la genesi, la provenienza, ma si può comprendere il significato del messaggio (e, in senso più ampio, del fenomeno) solo analizzando il processo e, di conseguenza, la forma che assume nel suo insieme. Nella musica è più semplice: si ascoltano i micro elementi e si analizza il suono che producono in relazione con gli altri. La realtà evidentemente è più difficile da comprendere. Ma da qualche parte è bene cominciare. 


Daniele Cestellini

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