Bruce Chatwin, canti tradizionali per un viaggio nel tempo

Nelle ricerche etnomusicologiche, siamo soliti mettere in risalto l’“humanitas” di coloro che sono o sono stati espressione della tradizione nelle singole comunità, nel cui territorio, a nostro avviso, dovrebbe iniziare la formazione delle giovani generazioni abituandole, sin dalla tenera età, al confronto interattivo con le “altre” culture nel resto del mondo. Partendo da questa premessa, ci accingiamo a seguire alcune “tracce di viaggio” di Bruce Chatwin, moderno comunicatore, difficilmente catalogabile, nella cui poetica risuonano concetti chiave come “cultura, arte, globalismo, tradizione, sogno, nomadismo, stanzialità”. È suo il detto, «la vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi». Le opere di Chatwin offrono numerosi spunti di riflessione. Spesso, lo scrittore inglese sviluppava la narrazione intrecciando percorsi concettuali solo in apparenza opposti. Il suo modo di scrivere risentì delle esperienze maturate nei diversi ambiti professionali e di un personale modo di fare ricerca e di comunicare per fini artistico-letterari. La libertà espressiva gli procurò un diffuso successo, con libri tradotti in decine di lingue, venduti copiosi nel mondo. Nato a Sheffield nel 1941, a diciotto anni, Bruce Chatwin iniziò a lavorare come esperto di arte impressionista, a Londra, per conto della casa d’aste “Sotheby’s”. Successivamente si licenziò per frequentare corsi universitari di archeologia. Ebbe modo di lavorare in Afghanistan e in alcuni paesi africani, dove iniziò a studiare la vita delle popolazioni nomadi.  Nel 1973, come consulente artistico, venne assunto dal “Sunday Times Magazine”: «La mia carriera - scriveva - ha seguito un percorso inverso rispetto alla norma in quanto ho iniziato come sgradevole piccolo capitalista in una grossa azienda in cui mi sono egregiamente affermato, facendo il leccapiedi, e d’un tratto, arrivato ai venticinque anni, mi sono accorto che odiavo ogni attimo di quella vita. Dovevo trovare un’altra strada»
Viaggiò molto, realizzando interviste con intellettuali e artisti. Dopo essersi sposato, si licenziò dal giornale, per andare a vivere alcuni mesi nel sud dell’America. Nel 1977, pubblicò il libro “In Patagonia”, che gli permise di affermarsi come autore.  Negli anni Ottanta, Chatwin si ammalò e con la moglie si trasferì in Francia, dove morì, a Nizza, all’età di quarantotto anni.  Come autore, si distinse scrivendo delle culture locali in modo originale. Tra le sue opere più importanti (in Italia pubblicate da “Adelphi”) si ricordano: “Il Viceré di Ouidah” (The Viceroy of Ouidah, 1980. Ouidah è una località del Benin, dove gli schiavi venivano radunati per essere poi venduti, a Bahia, in Brasile); “Le vie dei canti” (The Songlines, 1987, in cui racconta della concezione cosmogonica e mitologica degli aborigeni australiani in relazione al canto popolare); “Anatomia dell’irrequietezza” (“Anatomy of Restlessness”), pubblicato, postumo, nel 1996, comprendente “racconti brevi, storie e schizzi di viaggio”, in alcuni dei quali lo scrittore riflette sui valori del nomadismo, messo a confronto con le civiltà moderne caratterizzate dalla stanzialità. Per via delle specifiche tematiche trattate, le ultime due opere citate possono risultare utili per stimolare la ricerca seguita nel nostro percorso di “musica glocale”, che pone il fulcro sulle conoscenze locali, come quelle che Chatwin volle raccontare prendendo spunto dalle credenze degli aborigeni australiani.

Chatwin e i canti degli aborigeni australiani
La storia delle origini dell’umanità è legata alle vicissitudini di comunità e popolazioni in continuo movimento, ed è contraddistinta da migrazioni, scambi culturali e religiosi avvenuti lungo percorsi intercontinentali. Grazie ai continui spostamenti, si deve il lento, progressivo e complesso percorso che, nell’arco dei millenni, ha portato all’attuale mappatura e conformazione dei confini sul territorio. Per meglio comprendere la percezione e il rapporto con il territorio dei nostri antenati, Chatwin viaggiò e in particolare, come racconta in “Songslines”, fu affascinato da una delle culture umane più antiche ancora esistenti, quella degli aborigeni australiani che, con grande rispetto, avevano cura della propria terra: «La terra deve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste (…) Ferire la terra è ferire te stesso, e se altri feriscono la terra, feriscono te. Il paese deve rimanere intatto, com’era al Tempo del Sogno, quando gli Antenati col loro canto crearono il mondo».
Fondamentale è per loro il concetto di “tjukurpa”, mito della creazione, riferito al “tempo del sogno” (dreamtime), base di tutte le credenze aborigene e quindi elemento unificante delle numerose tradizioni culturali. Secondo Chatwin, i miti del “tjukurpa” spiegano le origini dei popoli aborigeni, ma anche l’origine delle caratteristiche geografiche e topografiche del mondo: «I bianchi, per adattare il mondo alla loro incerta visione del futuro, continuavano a cambiarlo; gli aborigeni dedicavano tutta la loro energia mentale a mantenerlo com’era prima». Secondo le popolazioni aborigene la Terra è sempre esistita, originariamente era una distesa piatta, che conteneva (e contiene tuttora) al suo interno potenzialità inespresse di tutto ciò che adesso esiste in superficie e di ciò che in futuro verrà. Vi fu un giorno il risveglio degli Antenati (rappresentabili con raffigurazioni totemiche), accompagnato dall’urlo del proprio nome. Iniziarono a camminare e a costruire tutti gli elementi della Terra, componendo a ogni percorso tracciato una melodia, indissolubilmente collegata a specifici territori.  Terminato il momento della Creazione, gli Antenati, cantando il loro ultimo “canto”, tornarono dentro la Terra, lasciando in eredità agli uomini una serie di percorsi, mappabili con le melodie dei loro canti. Sono queste le cosiddette “tjuringa lines”, migliaia di linee immaginarie che attraversano il territorio, segnato dai percorsi del sogno mitico che Chatwin denominò “Songslines”, “Le Vie dei canti”.  Ogni canto tradizionale, infatti, rappresenterebbe le caratteristiche geografico-topografiche di un tratto delle “tjuringa lines”. Tali “lines” sono elemento essenziale della spiritualità aborigena e sono normalmente dipinte su una tavola di pietra o di legno (di mulga), sulla quale sono rappresentati i percorsi e i territori appartenenti all’Antenato del tempo del sogno. 
Sono tavole configurabili come una “partitura musicale”, tramite la quale è possibile ripercorrere i viaggi mitologici degli antenati, ma anche un documento che attesta la proprietà della terra, che stabilisce il diritto di proprietà acquisto per discendenza dall’antenato, poiché i differenti territori sono, di fatto, porzione di una “Via dei Canti”, corrispettivi a una “tjuringa line”. Il testo di Chatwin (peraltro aspramente criticato dagli stessi aborigeni) conquista il lettore occidentale anche per un suggestivo stile poetico che sintetizza diverse tecniche narrative (romanzo, saggio etno-antropologico, diario di viaggio, articolo giornalistico-culturale).  Attraverso la narrazione della concezione cosmogonico-musicale degli aborigeni australiani, nella stessa opera, Chatwin evidenziò altri argomenti, tra cui quello del “nomadismo”, inteso come condizione fondante dell’umanità e delle diverse società: «Il moto è la migliore cura della malinconia (…) Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma».  Il nomadismo per Chatwin è un fenomeno vitale che garantisce valida alternativa allo stile di vita stanziale, che contraddistingue la cultura e la società moderna, quella stessa nella quale agisce l’autore che, pur intriso d’identità culturale occidentale, decide di seguire il nomadismo come scelta di vita. Un nomadismo moderno, certo, che permette di ridare vigore spirituale e di ricollegarsi in modo armonico con gli elementi  naturali, giacché l’essere vivente se non è in grado di rinnovare costantemente il proprio contatto con la natura, rischia di annichilirsi, di morire interiormente anche perché, come scriveva l’autore inglese, «l’abitudine e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose»

L’elogio dell’irrequietezza nella società contemporanea
«Quello che ho fatto è stato prendere la Patagonia come simbolo dell'irrequietezza umana. E scrivere un libro che fosse una specie di metafora della nostalgia dello spazio».  In diversi scritti, Chatwin diede valore all’irrequietezza, dinamico stato psico-fisico che era solito mettere in relazione con quello di coloro che sono obbligati a vivere all’interno di strutture rigide stanziali, tipiche della società contemporanea. Si domandava: «Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?».  In Chatwin è spesso presente il tema del “viaggio” che permette di scoprire, conoscere, confrontarsi con le culture altre, ma anche di fuggire da una realtà quotidiana che non apprezza. Nel 1969, scriveva all’editore Tom Maschler: «Cambiare è l'unica cosa per cui vale la pena di vivere». Il suo è un viaggio pieno d’incognite, tramite il quale è possibile arricchirsi interiormente pure in termini di maturazione e di esperienza. È un viaggio tipico del nomadismo moderno, teso a riavvicinarsi a stili di vita più in sintonia con i ritmi della natura, che contraddistinguevano e scandivano la vita dei nostri predecessori. La sedentarietà è una condizione conquistata in tempi relativamente recenti dall’uomo, oggi resa statica da un uso intensivo di apparecchi tecnologici, tramite i quali è possibile assolvere le differenti incombenze quotidiane stando comodamente nella propria abitazione o utilizzando mezzi di trasporto che non richiedono di camminare negli spostamenti. Spostamenti che nel nomadismo erano finalizzati soprattutto alla ricerca di cibo per la sopravvivenza. In Chatwin vi era l’idea di «scrivere un testo basilare che restituisse ai nomadi un posto importante nella storia. Ciò che mi interessava di più erano gli individui sfuggiti alla classificazione archeologica, i nomadi, che avevano lasciato tracce sul terreno e non avevano costruito piramidi».  La sedentarietà è una condizione innaturale per l’uomo, tuttavia, osserviamo noi, nelle società moderne la stanzialità porta dentro di sé un vivace dinamismo intellettuale, osservabile in quello che viene spesso denominato “nomadismo culturale”, riscontrabile un po’ in tutti gli ambiti della conoscenza, e che caratterizza in buona parte l’opera di Chatwin, instancabile viaggiatore moderno: «Nessun uomo può vagabondare senza una base. Bisogna avere una sorta di cerchio magico a cui si appartiene e non è necessariamente il posto in cui si è nati o in cui si è stati allevati. È un posto con cui ci si identifica».  
“Nomadismo culturale” è un’espressione tipica della cosiddetta “postmodernità” e trova conferma nella capacità intellettuale d’ibridazione disciplinare, tramite la quale nella produzione espressiva è possibile miscelare a piacere conoscenze provenienti da differenti ambiti del sapere e della tecnologia.  Persa l’originalità e l’unicità della creazione artistica e intellettuale, supportata da mezzi di comunicazione di massa sempre più alla portata di tutti, nella cultura postmodernista vi è il gusto per la contaminazione di generi e di stili, intesi magari come pura provocazione (si pensi al “trash”, riscontrabile in opere letterarie cinematografiche, musicali, televisive ecc.) o come libero associazionismo (la poetica del “collage” e dell’“hotchpotch” culturale, del taglia e incolla, riscontrabile un po’ in tutte le forme della comunicazione moderna, compresa naturalmente quella musicale).  Il nomadismo culturale è, inoltre, favorito/incentivato dall’uso delle moderne tecnologie, che permettono di costruire mondi artificiali, nei quali l’essere umano può vivere virtualmente, magari in completa alienazione, viaggiando a piacere in mondi fantastici o inventati.  Il “vagabondaggio artificiale” consente di superare le barriere imposte dalla fisicità e dalla quotidianità e permette di viaggiare in libertà nel passato e nel futuro.  In tutti i campi del sapere si discute molto del rapporto “naturale-artificiale” anche in termini espressivi, ma riteniamo sia più utile trattare l’approfondimento di tale rapporto in contributi più specifici. 

Guardare alle piccole cose e trarre qualcosa di grande
A nostro parere, merita di essere approfondita la conoscenza letteraria di Chatwin, sul quale sono stati scritti parecchi contributi. 
Sebbene discusso e controverso, rimane un autore avvincente, soprattutto per la sua espressività fuori dagli schemi convenzionali. Originale era il suo modo d’interpretare, come ben rilevato da Susannah Clapp (sua editor): «Aveva la capacità di guardare alle cose in modo differente. Di guardare come con una lente di ingrandimento alle piccole cose e trarne qualcosa di grande. Di vedere la bellezza nelle cose di tutti i giorni: non oggetti creati da artisti ma usati dalla gente nell’attività quotidiana». Tra l’altro, Chatwin ebbe il merito di scrivere delle culture locali, facendo riflettere un pubblico eterogeneo sulle distorsioni prodotte dal “mondialismo”. La sua opera offre anche interessanti spunti tematici che invitano a interrogarci sulle forzature compiute a danno dell’ambiente in nome della globalizzazione. Spunti tematici intrisi di connessioni storico-antropologiche, socio-filosofiche, artistico-letterarie, ecologiche e spirituali, sulle quali bisognerà sempre più interrogarsi nell’interesse dell’umanità, ragionando e tenendo conto del “cambiamento”, in merito al quale lo scrittore inglese ebbe a scrivere che «ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono». Pure nel campo della ricerca musicale, avvertiamo cogente l’esigenza di comprendere e analizzare la complessità della modernità. Una complessità internazionale della quale, a nostro avviso, scuole, università e conservatori sempre più dovranno tenere conto, aprendosi al mondo e al cambiamento, evitando di erigere obsoleti steccati culturali. Ripercorrendo a ritroso le “tracce di viaggio” scritte per commemorare Bruce Chatwin -, ritorniamo alle conoscenze musicali tipiche delle singole comunità, che auspichiamo possano rendersi autonome in merito alla trasmissione e alla valorizzazione del sapere ereditato dai propri predecessori, partecipando sinergicamente all’arricchimento della cultura musicale internazionale, avendo il desiderio di comporre - con consapevolezza - qualcosa di universalmente grande dalle piccole cose.

Paolo Mercurio

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