Salvatore Villani – Vecchio Stile (Nota, 2017)

Il Gargano di Salvatore Villani
Ricercatore delle tradizioni musicali garganiche, curatore di monografie discografiche sui repertori sacri e profani, Salvatore Villani è una personalità di ampia cultura musicale. Formatosi al magistero di Roberto Leydi, Villani si prodiga instancabilmente da musicista, etnomusicologo e didatta affinché l’enorme patrimonio culturale e musicale locale non vada smarrito o – peggio – dimenticato. Sembra confliggere con la sua personalità poliedrica e passionale il fatto che solo adesso si sia deciso a proporsi in veste di interprete della musicalità garganica. Il suo “Vecchio Stile”, pubblicato da Nota Records, conferma la vitalità della scena pugliese che non può essere ristretta alla penisola salentina. Intendiamoci, il disco di Villani è ben diverso dalle avvincenti formule world indicate per esempio dal Canzoniere Grecanico Salentino, piuttosto è la storia di una relazione “corpo e anima” con la propria terra, del rapporto duraturo con cantori, ‘cantoresse’ e strumentisti locali da cui Salvatore ha appreso eccezionali repertori. Una storia personale, fatta di incontri, un viaggio che dalla pianura pugliese attraversa tutto il Gargano per lambire finanche il Salento. Un lavoro rappresentativo – scrive Giovanna Marini nella note di presentazione – «di come si può far rivivere oggi un repertorio antichissimo e farlo vivere anche agli altri». Da interprete di grande intelligenza musicale Villani ha prodotto un disco squisito come, tra l’altro, le ricette che prepara e che ci propone alla fine della lunga intervista raccolta nella sua Rignano Garganico.

Come mai ci hai messo così tanto a fare un disco a tuo nome?
Non ho mai pensato di fare un disco di riproposta della musica di tradizione orale, perché sono un compositore di musica contemporanea e nella mia musica utilizzo spesso anche frammenti ritmico-melodici e testi della tradizione orale. L’ho suonata sin da piccolo nelle feste paesane e ancora adesso lo faccio. Credo che questa musica, tranne i protagonisti della tradizione che abbiamo dovuto registrare perché quel patrimonio non andasse perduto, debba esprimersi nell’hic et nunc: è sempre stata musica funzionale al rito. In un certo senso, è stata Giovanna Marini a spronarmi a fare un disco. Nel 1998, durante la sua venuta sul Gargano con gli allievi della Scuola di Testaccio e dell’Università Paris-VIII, in cui li guidavo nei viaggi della sonosfera garganica, mi fu chiesto di eseguire qualche “tarantella del Gargano”. Giovanna mi guardava con espressione severa, quasi di rimprovero. Finita l’esecuzione mi disse: «A Sarvatò, ma invece de fa sempre ‘sti dischi de ricerca de vecchietti, perché non fai un disco con la tua voce?». Mi sono scusato con Giovanna, dicendole che ero solo un ripropositore e che, finché i vecchi suonatori erano ancora vivi, non avrei mai fatto un disco di riproposta con la loro musica, anche se la eseguivo in vari contesti. Nei nostri incontri successivi mi chiedeva sempre la stessa cosa. Questo è stato il “LA” che ha dato avvio al CD “Vecchio Stile”.  Giovanna mi ha aperto un mondo nuovo, un nuovo modo di affrontare lo studio e l’insegnamento della musica di tradizione orale. Seguendo poi il suo corso di Estetica del Canto Contadino ho capito l’importanza di dover trasmettere quanto andavo studiando e analizzando e che riportavo unicamente nelle mie pubblicazioni specialistiche. 

Perché “Vecchio Stile”?
Perché nel 1977 sono entrato a far parte del gruppo musicale a cui avevamo dato questo nome in quanto suonavamo liscio tradizionale per far ballare le persone con il barbiere mandolinista Michele Saracino di Rignano Gargano, il mio paese natale. 

Come mai il sottotitolo recita “Pizzica-pizzica dal Gargano al Salento”?
Per un omaggio a Luigi Stifani, uno degli ultimi violinisti del tarantismo, e per esser stato il titolo di un mio spettacolo del 2010. Inoltre, perché il brano «Pizzica-pizzica» dimostra come il Gargano e il Salento musicali, al di là della lingua – dialetto della fascia campana per il Gargano, dialetto calabro-siculo per il Salento – non siano tanto distanti tra loro. La somiglianza delle due forme musicali di pizzica testimonia come i linguaggi e gli incontri musicali avvicinino anche terre lontane. Il tramite di tutto questo è il  repertorio della cosiddetta ‘barberia’, di larga circolazione. Ho scelto, infatti, di eseguirle entrambe con il solo mandolino, invece di utilizzare il violino nella pizzica tarantata o tarantella neretina, come la chiamava Stifani, primo perché è più facile all’ascolto avvertire la somiglianza tra le due forme di pizzica, e poi perché Stifani, dal 1928 al 1940, partecipava come musicista nelle terapie domiciliari utilizzando il mandolino, prima di passare al violino. Nel CD vi è anche un altro brano che riguarda il Salento, registrato a Santa Maria al Bagno, in un momento conviviale con Giovanna Stifani, figlia di Luigi: è la versione di “Bella Ciao” di Stifani, con un chiusa a me sconosciuta: «Si può trovare una valigia in ogni parte del mondo/ ciao oh bella ciao/ Perché la gente non conosce frontiere/ ciao oh bella ciao/ Non piangere se vado via/ Oh bella mia oh bella ciao»

Siamo entrati nella scaletta del disco: continuiamo a parlare della scelta dei brani…
La scelta è legata agli incontri che ho avuto in quasi quarant’anni di ricerca sul campo e che sono stati fondamentali per la mia crescita umana e culturale: un omaggio ai cantori e suonatori tradizionali che sono stati i maestri indiscussi della mia formazione. Non solo persone che ho conosciuto personalmente ma anche persone che sono state immortalate con le loro voci e i loro suoni da Alan Lomax e Diego Carpitella, Remigio De Cristofaro, Roberto Leydi, a partire dal 1954. Alcuni brani sono stati registrati in momenti conviviali, come con Giovanna Marini, le Cantatrici di Ischitella, i Cantori di Mattinata, mentre una mazurka è una registrazione del 1978, quando suonavo nel gruppo Vecchio Stile. Ho inserito anche una mia composizione originale, musica e testo, tranne tre piccoli interventi in lingua arbëreshë, dedicata al mio amico Giorgio Ruberto di Chieuti, che mi  ha fatto conoscere la cultura albanese e la storia degli albanesi in Italia.

Chieuti è un paese arbëreshë della Capitanata ai confini con il Molise… 
A Chieuti ho avuto la fortuna di incontrare persone speciali che mi hanno edotto sulle loro tradizioni e sui loro canti, tra cui Giorgio Ruberto, di cui parlavo prima. Quest’ultimo  è stato una miniera inesauribile, che, oltre che alla cultura albanese e la storia degli albanesi in Italia, mi ha fatto conoscere l’archivio sonoro con registrazioni sul campo di suo fratello Roberto, musicista, poeta e scrittore, morto prematuramente. Per onorarne la memoria, nel 1974 nacque il Gruppo Arbëresh di Chieuti. Un’interessante esperienza musicale di riproposta, terminata agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Con il mio arrivo a Chieuti, e notato l’interesse che nutrivo per i canti arbëreshë, Giorgio mi chiese, nel 2005, di rimettere su il gruppo con l’aggiunta di musicisti del Gargano. 
L’esperimento ha funzionato fino al 2009, anno della sua tragica scomparsa dello stesso Giorgio in un incidente stradale. Ecco perché nel CD gli ho dedicato un canto, da me scritto. 

Ti consideri un figlio del revival o un prosecutore della tradizione popolare?
È difficile dare una risposta a questa domanda, in quanto la mia esperienza con la musica e il ballo tradizionale è avvenuta nei miei primi anni di vita, nel mio paese natale Rignano Garganico, quando si usava ancora fare serenate, feste di carnevale e balli in casa. Con il tempo l’occasione-funzione è scemata e ora mi ritrovo a dover eseguire, spesso, questa musica in situazioni decontestualizzate. Mi ritengo al servizio della cultura popolare, essendo figlio di pastore e contadino, perché questo grande patrimonio non vada disperso e venga conosciuto dalle nuove generazioni, poco attente ai documenti sonori originali frutto di ricerche sul campo a partire dagli anni Cinquanta. È certo che il coinvolgimento emotivo che avviene durante una performance coreutico-musicale non si può paragonare al solo ascolto delle registrazioni sul campo e in questo la mia riproposizione acquista nuovamente significato in quanto portatore e testimone degli insegnamenti ricevuti dai maestri della tradizione.

Parliamo degli insegnamenti e del lascito dei suonatori popolari? Ti faccio dei nomi? Andrea Sacco e Antonio Piccininno…
Andrea Sacco di Carpino è stato fondamentale per la mia conoscenza della tecnica esecutiva sulla chitarra battente, del ballo e dei sonetti di Carpino. L’ho incontrato la prima volta nel 1985 e da allora sono diventato una sorta di ‘figlioccio’ per lui fino alla sua morte nel 2006. Ecco perché nel CD, secondo i suoi insegnamenti, interpreto due suoi sonetti per voce e chitarra battente: “Povërë corë mijë fëritë fëritë” e soprattutto “Accomë j’èja fa’ p’amà ‘sta donnë”, che ha avuto un discreto successo a livello internazionale come cosiddetta ‘Tarantella del Gargano’ (sic!), riproposta per la prima volta dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.  Antonio Piccininno è stato la mia prima guida a Carpino. Una persona gentile nei modi e molto affabile. Su di lui ho pubblicato un lavoro monografico (“Antonio Piccininno. Cantatore e raccoglitore dei canti popolari di Carpino”, ndr). 
Per quanto riguarda Luigi Stifani, il discorso è ben diverso, ho ascoltato per la prima volta la sua pizzica tarantata nel disco di riproposta “Musicanova” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò, invece la registrazione originale del 1966 l’ho ascoltata durante le lezioni di etnomusicologia di Roberto Leydi, all’Università di Bologna. 

Altri ‘numi tutelari’ garganici?
Naturalmente, Matteo Salvatore di Apricena, che ho frequentato per circa venti anni, su richiesta di Roberto Leydi, che mi aveva chiesto dopo la mia laurea di fare un lavoro su di lui. Poi i cantori del mio paese e di altre località del Gargano. Un ricordo particolare voglio riservarlo a Rocco Cozzola di Carpino, scomparso qualche giorno fa. Era detto “Fascianèddë”; è stato costruttore di chitarre battenti che aveva imparato a costruire da suo padre. Cantore, racconta storie e fiabe, suonatore di chitarra battente, tamburello, castagnole e armonica a bocca, nonché ballerino della tarantella carpinese e della sghèrmë, la danza scherma.

C’è in progress un tuo film-ritratto su Luigi Stifani, Mesciu Gigi. Ce ne parli?
Stifani l’ho incontrato una sola volta a Bologna, durante un suo concerto nel 1997. Ho approfondito la sua conoscenza solo dopo la sua morte, nel 2000, con i figli Giovanna e Antonio e Ruggiero Inchingolo. L’idea di realizzare questo lungometraggio su Luigi Stefani mi è venuta nel 2005 durante il mio ‘Tarantella Fest’, quando ho invitato sua figlia Giovanna Stifania ritirare un premio in memoria del padre. Non ho voluto fare un documentario statico sulla sua vita di artista, con le solite interviste in successione con la camera di ripresa fissa, ma ho elaborato una storia che attraverso le interviste esplorasse tutti gli aspetti della sua vita. In realtà è un docufilm in cui io mi ritrovo ad essere il personaggio chiave dell’intera vicenda: sono io che partendo dal Gargano vado alla ricerca di questo personaggio incontrando le persone più importanti che lo hanno frequentato: 
Giovanna Marini, Maurizio Agamennone, Luigi Chiriatti, Daniele Durante, Ruggiero Inchingolo, Dario Muci, Enzo Del Vecchio, Antonio Spano, Luigi Galeani, etc. Il film è diviso in due parti, la prima parte esplora e scandaglia la sua vita famigliare, l’apprendistato musicale, le terapie domiciliari, il suo linguaggio musicale e la tecnica esecutiva sugli strumenti musicali, la sua devozione a San Paolo di Galatina, il suo multiforme percorso artistico; la seconda parte, invece, riguarda il ‘Memorial’ a lui dedicato dopo la sua morte, in cui partecipo anche come musicista nell’Ensemble Stifani dal 2006. 

Il suo nome è già saltato fuori prima: tra i tuoi incontri musicali c’è anche quello con Roberto De Simone. Cosa ha significato per la tua?
De Simone è stato importante nelle mie scelte stilistiche e compositive. Fu Roberto Leydi ad inviarmi a Napoli, mentre stavo scrivendo un libro sulla musica tradizionale di Carpino. De Simone mi ha chiarito i molti dubbi che avevo su come affrontare lo studio e la reinterpretazione delle musiche tradizione orale. Con la sua vasta conoscenza del repertorio campano siamo riusciti ad individuare la somiglianza sorprendente tra un basso di armonia di Gaetano Greco della fine del Seicento e il basso per chitarra francese di Antonio Maccarone di Carpino utilizzato nella Tarantella alla “Mundanarë”. Ho collaborato con lui alla traduzione in un ideale dialetto garganico del balletto “Les noces” di Igor Stravinskij. Alcune sue composizioni come “La gatta Cenerentola”, “La cantata dei Pastori”,” L’opera dei centosedici”, “Messa di Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini” hanno segnato in parte il mio percorso compositivo.

Musicalmente parlando, cosa resta del Gargano che hai documentato?
La maggior parte dei maestri della tradizione, nati tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, sono scomparsi e con loro è scomparso un sapere storico che siamo riusciti, in parte, a conservare con i mezzi tecnologici a nostra disposizione su supporto magnetico o digitale. I repertori, i balli e gli strumenti legati al mondo agro-pastorale, quando sono arrivati i primi ricercatori, a partire dal 1954 con la raccolta Lomax-Carpitella, erano già defunzionalizzati. La Seconda Guerra Mondiale ha segnato lo spartiacque tra un mondo arcaico e conservativo e le nuove prospettive offerte del Dopoguerra, in un cambiamento radicale degli usi e dei costumi. L’opera dei ricercatori, in un momento di disgregazione della cultura tradizionale, è stata meritevole in quanto ha conservato la memoria di intere generazioni che altrimenti andava dispersa, in quella che però definisco ‘archeologia etnomusicale’. Tutt’altro discorso, invece, per quanto riguarda i repertori religiosi, tutt’ora funzionali ai vari riti che si svolgono durante tutto l’anno. Nonostante i divieti di alcuni vescovi, dopo il Concilio Vaticano II e l’introduzione delle lingue nazionali nella liturgia, le processioni paraliturgiche e le manifestazioni devozionali si svolgono senza aver subito particolari modificazioni, per la forte resistenza delle confraternite e delle Pie Unioni locali, dove il canto in latino ‘orecchiato’ o in dialetto sono la colonna sonora fondamentale perché il rito possa esplicarsi e sopravvivere.

Partecipano al disco le Cantatrici di Ischitella. Ci parli di loro e del loro repertorio?
Nel 1997, anno in cui le ho conosciute, dopo la liturgia ufficiale, un gruppo di donne sottobraccio si spinse dietro alla statua lignea del Crocifisso di Varano cantando a più voci brani paraliturgici di intensa partecipazione emozionale. 
Mi misi davanti a loro per registrarle, ma alla fine della processione vennero a lamentarsi da me, giustamente, per l’intrusione. Padre Remigio De Cristofaro, mio caro amico, che concelebrava la messa, avvedutosi della diatriba intercorsa tra me e le donne, intervenne prontamente per dirimere la vexata quaestio: calmò le donne, dicendo che ero un suo caro amico e che la registrazione era stata concordata da entrambi. Così si addolcirono nei miei confronti e mi invitarono a pranzare con loro. Nacque allora una profonda amicizia, ed è per questo che le chiamo le mie ‘mamme’ cantatrici di Ischitella. Vittoria Di Stolfo, Libera Cugnidoro e Caterina Candito mi hanno accolto di buon grado nelle loro famiglie: come un figlio adottivo. Il gruppo polivocale spontaneo delle donne di Ischitella, a cui ho dato il nome di ‘Cantatrici di Ischitella’, esegue un vasto repertorio di ninna-nanne, canti sacri, di lavoro, di emigrazione, narrativi, satirici, ecc., a due voci, appresi direttamente dalla tradizione, durante i lavori campestri.

Hai realizzato una considerevole documentazione etnomusicale: come restituirla alle comunità locali? 
Ho pubblicato cinque album per Nota Records, documenti per il Centro Studi Tradizioni del Pugliesi e per altri editori italiani e stranieri. Avrei voluto documentare in libro o in CD tutti i comuni del Gargano, ma le istituzioni locali si sono dimostrate alquanto ‘sorde’ alle mie proposte. Ora sto lavorando alla 24b Lomax-Carpitella, che uscirà con la casa editrice Squilibri di Roma. Nel frattempo, con i miei stage che tengo in Italia e all’estero, con appuntamento fisso durante le giornate del Carpino Folk Festival, cerco di trasmettere ciò che ho imparato dai maestri della tradizione: chitarra battente, canto e balli del Gargano. 

Progetti musicali in progress e futuri?
Ho intenzione di mettere in disco alcuni miei spettacoli degli ultimi vent’anni dedicati ai diversi repertori che ho affrontato: l’emigrazione; i canti di protesta, i canti e i suoni della del Parco Nazionale del Gargano, le tarantelle del Gargano.  Il prossimo CD-BOOK, dal titolo “Mik Gjergj. Le altre musiche.”,  che sto già registrando, comprenderà brani di altre tradizioni musicali che ho eseguito durante la mia vita: brani classici, blues, rebetiko, canti messicani, albanesi, arabi, franco-provenzali, grecanici...

Tra le tuoi interessi c’è anche la frequentazione dello stato messicano del Chiapas…
Nel 1994 complice la rivolta zapatista in Chiapas, decisi di affrontare un progetto di ricerca in un Paese lontano dall’Italia. Allora la chiamavamo “etnomusicologia-fuori casa”. Mi interessava conoscere una tradizione, attraverso l’osservazione-partecipante, che non aveva subito una decontestualizzazione o una radicale trasformazione. Il Chiapas si prestava al caso mio. La cosa che mi colpì fu la somiglianza della guitara chiapaneca con la chitarra battente del Gargano: stesse posizioni degli accordi, in successione tonica-dominante, stessa tecnica esecutiva, ‘cori’ tripli con corde di acciaio dello stesso calibro. Questo mi ha spinto ad affrontare una ricerca che dura tuttora. Dal 2013 collaboro con il CELALI (Centro Estatal de Lenguas, Arte y Literatura Indígenas) e spero di realizzare al più presto una pubblicazione con CD e DVD allegati, con documenti audio, video e fotografie raccolte in più di vent’anni di ricerca.

Salvatore Villani ha anche la passione per la cucina.  In conclusione, ci dai una ricetta che unisca territorio e creatività come è il tuo disco?
La passione per la cucina è stata una scelta ‘forzata’. Sono il secondogenito e ultimo di due figli maschi. Mia madre siccome voleva una femmina dopo la nascita di mio fratello, sin da piccolo mi ha insegnato a cucinare. Ovviamente mi ha insegnato la cucina contadina del Gargano. Mi ha insegnato a riconoscere le varie erbe spontanee quando vivevamo in campagna negli anni in cui mio padre, tornato dalla Germania, si era rimesso a fare il pastore. La scelta ‘forzata’ nel frattempo si è trasformata in passione per la cucina e mi piace sperimentare piatti con prodotti locali e prodotti provenienti da altri Paesi, soprattutto dove ho fatto ricerca. Oggi li chiamano ‘antichi sapori’, in realtà per me sono sapori che hanno sempre accompagnato la mia fragile esistenza: in base alle stagioni vado in giro per la ‘Montagna del Sole’ a cercare verdure spontanee, ‘sarapudde’, timo garganico, origano, bacche, che mi servono per preparare i miei piatti. Più che una ricetta del mio territorio, vorrei proporvi una ricetta che unisca sapori locali con la quinoa, una pianta erbacea annuale della famiglia delle chenopodiacee, originaria del Sud America. “Quinoa con funghi”. Gli ingredienti sono: quinoa, funghi, aglio, prezzemolo, olive schiacciate di Ischitella, olio evo, sale quanto basta. In una pentola antiaderente, con un dito d’acqua, fate ammorbidire l’aglio tagliato a fettine sottili. Dopo 2 minuti circa aggiungete un po’ d’olio e i funghi tagliati, cardoncelli o galletti spontanei raccolti in campagna, altrimenti champignons o pleurotus, che si acquistano al supermercato, aggiungete anche del prezzemolo e fate cuocere per circa 10 minuti. Aggiungete la quinoa, le olive schiacciate e acqua calda in modo da coprire il tutto. Lasciate cuocere per mezz’ora circa, girando di tanto in tanto con il mestolo. Togliete dal fuoco e versate nel piatto. Aggiungi un filo d’olio di peranzana di San Severo o di ogliarola garganica e il piatto è pronto. Il tutto accompagnato con un buon  Bombino-Fiano delle Cantine Teanum di San Paolo di Civitate. Buon appetito!



Salvatore Villani – Vecchio Stile (Nota, 2017)
“Vecchio Stile” non è solo la storia musicale di Salvatore Villani – e già questo basterebbe a farne un lavoro di estremo interesse – ma si configura come esemplare della sua capacità di studioso e artista di far rivivere questi canti e queste musiche. Dunque, il valore aggiunto delle diciotto tracce della scaletta è l’entrare in contatto con diverse fasi del folk revival italiano, della ricerca e della riproposta. Il disco è aperto di gran lena da una tarantella “Mo’ haddà ballà lu rizzë e la cëstunjë” per chitarra battente (Villani), chitarra francese (Ciro Iannacone), mandolino (Mauro Semeraro), organetto (Massimiliano Morabito), inserti di piano jazz (Giuseppe Chiappinelli ‘Pucci’), tamburello (Lorenzo Vaira) e castagnette (Giancarlo Paglialunga). Se la “Mazurka” ci riporta ai tempi dell’orchestrina con cui Villani suonava il liscio, la libera versione in chiave folk-rock-bluesy di “Padrone Mio” di Matteo Salvatore è la prova della dialettica tra memoria e invenzione che anima questo lavoro. La sola voce, accompagnata dalla chitarra battente, ci dona un’interpretazione toccante di “Accomë j’èja fa’ p’amà ‘sta donnë”, che mette insieme una tarantella alla Rurëjanë e la più celebre mundanarë carpinese. Si prosegue con due forme di “”pizzica-pizzica” dal repertorio di Luigi Stifani, una serenata per voce, chitarra francese e mandolino e una “Tarantella di San Nicandro”, già registrata da Lomax negli anni Cinquanta. Entriamo nel cuore dello strumento elettivo garganico: la chitarra battente che accompagna i sonetti insegnati da Antonio Piccininno  (“Alla Rurjanèllë”) e Andrea Sacco (“Povërë corë mijë fëritë fëritë”) dei Cantori di Carpino. Le strofette di Ischitella “Sunë chëtarrë tu sunë a battèndë” aprono un nuovo capitolo della carriera di ricercatore di Villani, portandoci in un’altra località ricca di repertori, visitata da Carpitella nel 1958. Invece, “Maritëmë sta alla ‘Mèrëchë e non më scrivë”, un canto di emigrazione molto diffuso, profuma di Grecia. Ancora dai repertori per chitarra battente, questa volta da Cagnano Varano, proviene il canto di riappacificazione “Cara Nënnèlla mijë facimmë pacë”. Ci spostiamo a Mattinata con il canto polivocale “Më në véchë ripa ripë dillu méra” e a San Giovanni Rotondo con un canto per voce e chitarra battente suonata in stile locale. Tra i tanti testimoni della cultura popolare orale garganica un ruolo importante lo giocano Le Cantatrici di Ischitella con cui Villani (seconda voce) esegue “L’arià di sckëtëddanë”, registrata nella Chiesa Santissima Annunziata di Lago di Varano. Altra chicca del disco è il duetto con Giovanna Marini nello stornello a voci alterne “Fior di limonë”. Dall’inusitata versione “Bella Ciao” di Luigi Stifani, interpretata con la figlia Giovanna, si passa ad una composizione dello stesso Villani “Amico Giorgio”, di ispirazione albanese, featuring l’’ûd di Ruggiero Inchingolo, il bouzouki di Georgios Charalampidis, clarone e clarinetto di Antonella Villani: è un tributo a Giorgio Ruberto (la cui voce si sente nel finale), prezioso informatore di Villani sulla cultura arbëreshë di Chieuti in Capitanata. “Vecchio Stile” è disco di un artista posseduto dal “duende”, un lavoro in tensione tra memoria e creazione, tra trasmissione di espressioni tradizionali e istanze innovative, che non snaturano ma assecondano lo squisito senso melodico di questi canti, che vivono di instabilità ritmica, di quell’off beat e di quella oscillazione della voce verso i quarti di tono che ti afferrano: materiali mirabili di questo lembo di terra pugliese.   


Ciro De Rosa

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