Dalla Sicilia e oltre l’isola: è “Cuttuni e lamé”, il nuovo lavoro di Eleonora Bordonaro, cantante dal grande temperamento, dalla voce duttile, aguzza e volitiva, autrice con il polistrumentista Puccio Castrogiovanni dell’album edito da Finisterre e distribuito da Felmay. Si fa fatica a parlare di esordio per un’artista che è la vocalist dell’Orchestra Popolare Italiana, diretta da Ambrogio Sparagna, che ha fatto parte del Parco della Musica Jazz Orchestra, è interprete di tradizione orale contadina, sacra e profana, compositrice che si spende tra memoria e proiezione sul futuro: il suo è un canto che è soffio antico e vento nuovo. Tra i tanti progetti in cui si è immersa, Eleonora ha partecipato a Skanderband, ideato da Michele Lobaccaro dei Radiodervish; ha dato voce a “Le lingue di Pitrè. ‘Vinni la bedda’. Le donne nella poesia siciliana”; ha lavorato in colonne sonore con il compositore Pasquale Catalano e cantato nelle musiche dei docu-film di Gianfranco Pannone. Nel 2013 ha inciso “La custodia del fuoco” con il Majarìa Trio, unione di espressività tradizionale e pulsazioni contemporanee ed etno-jazz. “Trame streuse di una canta storie” recita il sottotitolo del nuovo disco: in siciliano “streuse” significa bizzarre e originali, “canta storie” perché Bordonaro viene da Paternò, dove ha fondato la Casa Museo del Cantastorie, un centro di produzione e creazione dell’arte della narrazione, dove è anche ospitata un’esposizione permanente sulla pratica dei cantori popolari di scuola etnea.

In fin dei conti “Cuttuni e lamé” non è proprio il tuo esordio discografico: rappresenta il prosieguo o è un nuovo capitolo della tua vita artistica?
Sicuramente è un prosieguo, nel senso che nel corso della ricerca gli interessi si precisano. Quello che avevo fatto finora era lavorare su testi e melodie tradizionali, avendo adattato al mio gusto interpretativo melodie già conosciute o che venivano dal repertorio di Rosa Balistreri. Col tempo ho avvertito la necessità di rinnovarmi: dunque il disco rappresenta una mia evoluzione, una crescita, un affinamento dei miei interessi perché raccoglie testi e melodie tradizionali e brani originali, sebbene suonati con strumenti tradizionali.
Nella mia ricerca è costante l’immagine della donna: è una mia ricerca personale, che mi ha indirizzata da sempre verso un certo tipo di repertori popolari che raccontano una serie di tipologie umane femminili. Tutto il disco è come se scorresse come un film, e soprattutto, come in un film, se passasse da un’inquadratura larga in cui viene inquadrata la donna tradizionale, con gli stereotipi e i vizi che genericamente le sono attribuiti: ciò avviene nei primi brani, come ad esempio “Li Fomni”, che è un testo antico in gallo-italico. Si passa a poco a poco da una camera lontana a un’inquadratura sempre più da vicino; l’indagine diventa sempre più personale: non sono più le donne ma è la donna. Da quel punto in poi diventa l’immagine della vita intima e di me stessa, l’immagine delle mie reazioni, dei miei misteri, delle mie paure e delle mie passioni… Si passa dal mondo generico delle donne all’analisi di una donna che guarda le altre donne e, infine, di una donna che guarda se stessa. Nel disco questo percorso corrisponde al passaggio fluido dai brani tradizionali a quelli originali.
Disco concepito a quattro mani con Puccio Castrogiovanni, il cui lavoro compositivo e di produzione incide molto sul textum sonoro: c’è una ricerca di suono contemporaneo…

Il portato delle forme tradizionali non è messo in secondo piano, l’iniziale “Sentimi Rosa” è una poesia d’amore…
È una poesia d’amore, ma molto violenta! Tutto il disco dichiara le mie origini geografiche, perché vengo da Paternò, è la casa dei cantastorie di Sicilia: quelli che, con la chitarra e il cartellone, andavano in giro per le piazze e il tetto dell'auto era il loro palco. La scuola di Paternò è stata più ricca. È vero che io appartengo a un’altra categoria, ma in qualche modo vengo da quella tradizione, anche se mi sono evoluta. “Sentimi Rosa” è una poesia di Ciccio Rinzinu, un cantastorie, che comincia come una poesia dolcissima, che paragona l’amore di Rosa a quello di Romeo e Giulietta. Ma finisce con una frase che tradotta diventa: “Se non potrò averti come mia sposa / Ti ucciderò e mi ucciderò dopo di te!”. Dirlo adesso fa venire i brividi, perché è un amore violento, ma prima era interpretato come un amore passionale. Però, nel disco non ci sono riferimenti alle donne violate, picchiate: non era questo il mio intento.

In “Tri Tri Tri” suoni con Alfio Antico. Come nasce questo brano?
Mi sono appassionata a una poesia di Mauro Cavallo, un poeta vivente, che è un amico nostro di Modica, affascinate e misterioso, che racconta di morte e di diavoli… Vive nell’antico quartiere ebraico e compone in forma di poesia in una grotta posta accanto a un giardino e dove ha delle poltrone e migliaia di soldatini di piombo. Mauro scrive poesie forti nell’immaginario, ma produce anche tutt’altro tipo di poesie, che parlano di consolazioni familiari, di conforto delle piccole cose. Racconta questa storia, che è “Tri Tri Tri”, di tre fratelli gemelli che portano lo stesso nome, che giocano, litigano, si picchiano e si difendono a vicenda. È una filastrocca allegra e il modo di scrivere di Mauro porta già dentro la musicalità, come per gli antichi aedi. Ho chiesto ad Alfio di accompagnarmi e non poteva che essere lui.

Oltre a Alfio Antico e ai Lautari, c’è un altro grande musicista come Mario Incudine, il quale ha composto la musica di “Lamento di Maria” su un testo tradizionale raccolto da Lionardo Vigo: qui entriamo nel mondo straordinario del Venerdì Santo.
Il mio lavoro di ricerca sui testi antichi dura da tanto tempo, sono molto appassionata del venerdì santo, perché sono interessata alla figura della Madonna: è un’immagine femminile che ha bisogno di essere confortata. Durante le processioni dei riti sacri, mi ricordo che da piccola mi faceva commuovere non il Cristo morto, ma la Madonna che lo seguiva, intorno a cui girava l’emozione collettiva. Perché tutti erano lì per la Madonna, per onorarla, per cercare di consolarla, perché lei era ancora viva! Ci sono due pezzi: un tradizionale che è una ripresa di “U mètiri”, già registrato da Alan Lomax, e un altro che è questo “Lamento di Maria”, musicato da Mario Incudine e arrangiato per violini da Adriano Murania che ha suonato violino e viola, mentre ai violoncelli ci sono

Minimale e intenso è “Disisidiru mangiari jancu pani”: bastano voce e marranzano…
Proviene dalla raccolta di Vigo di metà ‘800, ma è più antico. La melodia è ispirata molto liberamente a una melodia dei solfatari; è un intreccio con il marranzano, che è uno strumento completo, che non ha bisogno di niente, nonostante sia così raro sentirlo oggi.
Ci parli del brano che dà il titolo all’album, che è anche un video: un tango in cui esce fuori anche la tua verve teatrale, che fa parte della tua formazione?

Il tuo è anche un lavoro di ricerca della lingua?
Uso un siciliano medio-antico, che è il siciliano che avrebbe parlato mia nonna. Per me, è molto fastidioso sentire canzoni in siciliano attuale che è misto con l’italiano, una contaminazione fin troppo evidente. Perché si può fare altro, con gusto, rispettando la lingua. La vera difficoltà del disco è stato tradurre le canzoni… perché la traduzione non sempre riesce a trasmettere l’originale siciliano.

Le canzoni sono diverse perché è come se chiedessero di essere diverse. “’A partita” racconta di un desiderio di comunicare, la condanna di essere una cosa che non è nella natura. Ho sentito di scegliere un blues sobrio ma profondo, non poteva essere un’altra cosa. Non era una canzone che necessitava di uno sforzo di voce particolare, doveva andare diritta, esattamente come la comunicazione che manca, essere sobria al contrario di quello che stava dichiarando. Invece, “Voci” è sulla mia relazione con la mia voce, un omaggio al perché la voce mi salva sempre la vita. Perché la voce è sempre più intelligente di me, anche se ho sempre pensato il contrario. La voce, cantando le cose, sublima ogni emozione. Infine, “Ucch’i l’arma” è una visione, una fantasia che ho fatto sempre da ragazzina: immaginare delle stanze nella bocca della gente: una grotta, una cucina di legno massello, un negozio di frutta e verdura. Mi capita con tante persone diverse: è il mio metro per valutare la compatibilità con una persona… Ed è una canzone d’amore, una canzone sull’essere confortato, immaginando di essere libero di scorrere su un fiume dentro qualcun altro. Il suono più moderno di tutti: voce e tre marranzani diversi e basta. Poi, c’è la ghost track di Michele Musarra, che ha suonato il basso e ha fatto la parte di registrazione mixaggio.

Nella mia ricerca sui testi di poesia popolare antica ho incontrato le poesie in gallo-italico, una lingua mista portata dai coloni del nord venuti al seguito dei Normanni. Coloni che venivano da Piemonte, Liguria, Lombardia, Francia e che una volta in Sicilia fusero lingue diverse. La lingua si è conservata intatta a San Fratello, nel messinese. Arroccati sui Nebrodi, i sanfratellani parlano questa lingua streusa, che a 20 km da loro non capiscono. La lingua è il centro della loro “identità”, una ricchezza che ti dice chi sei e da dove vieni; ti puoi allontanare, ma sai da dove vieni. Il fascino è fortissimo e stanno facendo una battaglia per mantenere in vita questa lingua che ha un repertorio poetico ma non musicale. L’umore manocuhe viene dalla necessità di giocare, perché le parole sono così violente – il testo è molto feroce contro le donne – ma anche per un’assonanza generica con il francese. Era necessario un arrangiamento che fosse allegro.
Altre due canzoni vengono da poeti della Sicilia contemporanea…
“Lu cielu unni” è stata scritta da due giovani poetesse catanesi, Claudia Barcellona e Francesca Fichera, su una musica di Puccio; il brano è parte della colonna sonora di uno spettacolo teatrale per la regia di Mimmo Cuticchio. “E poi ci su i paroli”, invece, è tratta da una raccolta di Giuseppe Condorelli, poeta di Misterbianco, che ha un modo di scrivere molto dolce e molto intenso; è una poesia d’amore.
In effetti, non ho l’idea esatta di cantare la mia terra: io canto me, e tramite me, canto delle cose che per me sono naturali e che magari altri individuano come caratteristiche di una persona che viene da quella terra. A me interessa il gusto per le cose antiche, ma non è un gusto generico, è un gusto che mi serve a capire chi sono io adesso. Con gli strumenti tradizionali e i suoni acustici mi sento a casa, ma non è il mio intento raccontare la mia terra: gli strumenti vengono da quella terra, la mia lingua viene da quella terra, i temi vengono da me, che vengo da una storia.
Eleonora Bordonaro – Cuttuni e lamé (Finisterre/Felmay, 2017)
