Le vie montane dei canti di Luisa Cottifogli in “Come un albero d’inverno”
Voce e natura si uniscono in “Come un albero d’inverno”, il nuovo album di Luisa “Lu” Cottifogli, lavoro di un’artista spiazzante e sempre in movimento, dalla poetica ardita per le sue frequentazioni musicali e i suoi numerosi progetti. Il suo curriculum fa impallidire: lei è una che se ne infischia dei generi e ama frequentare gli ambienti sonori più disparati, dalla ricerca sul popolare al jazz, dal pop al classicismo, dal canto sociale e politico alla video-arte. L’albero racchiude il concetto di ciclo della vita, con la chioma che si protende al cielo e le radici che penetrano nella terra. Non è, quindi, per caso che un’artista che vive tra piante e animali esplori la relazione simbolica tra uomo e albero, con un titolo che evoca anche un passo del Vangelo di Marco, un lavoro che scalda il cuore per l’emozionante canto di Luisa, voce da soprano luminosa e dalle mille sfumature, circondata da pochi strumenti. Un’artista profonda, amabile e intelligente: ascoltiamola raccontarsi.
Luisa Cottifogli: dalla Bassa di “Rumì” ad “Anita Garibaldi”, dal tour con il nuovo “Bella Ciao” alla montagna di “Come un albero d’inverno”. Nella presentazione del tuo nuovo disco fai riferimento alla tua relazione simbiotica con la natura, che in un certo senso è stata il seme da cui si è generato questo tuo lavoro. Vuoi parlarcene?
Sono nata sulle Alpi, e in val di Fiemme, a Predazzo, ho passato i primissimi anni di vita. Poi la mia famiglia si è trasferita prima a Cattolica e dopo a Ravenna. Spesso però tornavamo tutti in montagna per le vacanze, e lì ritrovavo ogni volta il mio luogo del cuore, quello al quale appartenevo, fatto di silenzi, rocce, boschi, odore di funghi e di larici, camminate interminabili per i sentieri assieme a mio padre e poi di arrampicate con gli amici verso le cime. Una sera mio padre mi portò al cinema-teatro di Predazzo: si esibiva un coro alpino, e in quell’occasione rimasi folgorata dall’armonia, dalla possibilità di creare un’orchestra con le voci.
Assieme a lui e a mio zio, che aveva fatto l’alpino, spesso si cantavano i brani della grande guerra, armonizzando ad orecchio. Fin da piccola il mio divertimento era quello di trovare ‘le seconde voci’ a qualsiasi melodia, e infatti agli esordi del mio percorso musicale c’è il coro polifonico Galla Placidia di Ravenna, poi ci sono innumerevoli concerti a cappella in ensemble di musica antica e contemporanea (parallelamente alla frequentazione del Conservatorio e dell’Accademia d’Arte Drammatica), fino ad approdare all’esperienza dell’arrangiamento e della sperimentazione d’assieme con il sestetto femminile Vocinblue e all’esperienza professionale come soprano nel coro del Teatro Comunale dell’Opera di Bologna.
Da artista, la montagna ha significato anche l’incontro con musicisti e alpinisti…
Tornata in montagna per concerti, ho conosciuto persone speciali, con una forte identità culturale e un profondo legame con la propria terra. Da una parte le valli provenzali piemontesi, conosciute grazie alla collaborazione con i Marlevar (gli ex Troubaires de Coumboscuro) a Sancto Lucìo de Coumboscuro. Lì ho conosciuto Sergio Arneodo, poeta, filologo, fondatore dell’associazione Coumboscuro, nata per valorizzare la cultura e l’arte provenzale e poi divenuta un centro internazionale di incontro fra culture minoritarie: i testi delle melodie dei Marlevar, create dal figlio Davi, sono tutti di questo grande poeta. Dall’altra parte la mia frequentazione della Val di Sole in Trentino dove, fra Malè e Vermiglio, nei giri fra gli antichi vòlti paesani (le cantine dove ognuno conserva insaccati, formaggi, vino e miele e dove gli uomini si riuniscono per bere e cantare assieme) ho conosciuto cantori e ricercatori musicali di profonda cultura, ma anche alpinisti e personaggi di montagna che, pur vivendo apparentemente lontano dal mondo, ne sono perenni viaggiatori. Il mitico alpinista Cesarino Fava detto ‘Patacorta’, che si considerava un umile pastore-filosofo ispirato da Pascal, mi ha narrato le sue avventure : dopo la guerra come soldato semplice, la migrazione in Argentina e le grandi ascensioni assieme ai miti dell’alpinismo, la perdita delle falangi dei piedi per congelamento e la lotta per riprendere a scalare (cosa che ha fatto fino alla morte),
la sua meravigliosa filosofia di vita che ha racchiuso in due libri e che appare nel film-documentario girato su di lui da un altro grande alpinista con la passione per la macchina da presa: Elio Orlandi. Di questo gruppo di persone speciali fanno parte Fausto Ceschi e i cantori del coro Santa Lucia di Magras da lui diretti, Alberto Del Pero con i suoi Cantori de Vermeil che hanno riscoperto i canti e la vocalità dei Lingere-minatori: da tutti loro ho appreso tante storie riguardanti la Val di Sole, la cultura musicale che l’ha attraversata nei secoli, le antiche usanze. Con loro mi sono trovata a cantare nei rifugi, nelle cantine e nelle chiese.
Da queste esperienze nasce anche il tuo interesse per l’etnobotanica?
Lassù ho incontrato la madre di Alberto, Eulalia Panizza, guaritrice depositaria di antichi metodi di cura popolari e profonda conoscitrice delle erbe curative, studiosa appassionata ispirata dal lavoro del Mattioli, medico fitoterapeuta che nel XVI secolo stilò un trattato che influenzò tutta la fitoterapia popolare trentina. Grazie a lei ho iniziato l’appassionante percorso di conoscenza delle erbe officinali, fra usanze popolari e studio dei principi attivi, oggi conosciuti scientificamente e anticamente intuiti dai guaritori.
Montagna luogo reale e simbolico, che abbracci nel suo rigore invernale. Come mai?
L’inverno è la stagione della meditazione, del ritiro, del silenzio, della pausa nel cammino, del depositarsi dei pensieri che si ricompongono in poesia, è la stagione della morte apparente di piante e animali che vanno in letargo, per poi rinascere a primavera. La stagione nella quale vengono aperte le boccette contenenti i rimedi tratti dalle erbe raccolte nel loro tempo balsamico, quando grazie al sole queste ultime si riempiono dei preziosi principi attivi. L’epoca in cui si cerca il profumo della frutta e il ricordo dei pomodori maturi e del basilico dentro i vasetti di conserva. Il ghiaccio immobilizza, irrigidisce il movimento, come nella morte. Sia nel mio lavoro dedicato al Rumì, viandante della bassa romagnola, sia in “Come un albero d’inverno”, vi sono paesaggi addormentati sotto la neve: qui naturalmente i colori dominante sono il bianco ghiaccio e l’azzurro delle lunghe ombre.
Le musiche di questo lavoro sono nate principalmente d’inverno, ascoltando il disco di Sting “If on a winter’s night”, i canti alpini della SAT e del coro CeT e leggendo le storie di padre Enzo Bianchi (“Ogni cosa alla sua stagione” ), Mario Rigoni Stern, Mauro Corona, Walter Bonatti, le leggende dei Monti Pallidi, la commovente testimonianza dei diari di Pedrotti sulla deportazione in Austria degli abitanti di Trento nel 1915. Le storie scritte e quelle ascoltate dal vivo si sono fuse a quelle sentite sugli Appennini dove abito, nelle narrazioni e nei pensieri dei miei vivacissimi amici ottanta-novantenni. E durante le lunghe camminate attorno a casa ho raccolto, negli anni delle grandi nevicate, le foto che appaiono all’interno del disco.
In copertina c’è un magnifico albero con la neve tutt’intorno...
L’immagine di copertina ritrae la magnifica grande quercia secolare che ogni tanto vado ad abbracciare, sopravvissuta alle guerre e specialmente all’ultima mondiale che dalle nostre parti, sulla linea gotica, ha distrutto uomini e paesi. In quella foto io sono un puntino azzurro nella neve, perché è così che mi sento quando posso immergermi nella natura: in un perfetto equilibrio dove il mio essere ha la stessa importanza di un filo d’erba. L’albero ha profonde radici che affonda nella terra e fronde che eleva verso il cielo, per questo in maniera ancestrale è da sempre simbolo dell’uomo, la vita del quale è eterno dialogo fra inferno e paradiso: nel caso della montagna fra l’inferno delle miniere e della guerra e il paradiso delle vette. Dalle cime è possibile scorgere il mondo secondo un’altra prospettiva, e da qui nasce la filosofia di chi arrampica e fa dell’alpinismo il proprio scopo di vita.
Dedichi il disco a due persone che ti hanno fatto amare la montagna.
Il CD è dedicato a mio padre, piccolo grande uomo che mi ha iniziato alla montagna e anche al canto ‘armonizzato’ attraverso i brani alpini, e al grande piccolo alpinista Cesarino Fava, di cui ti parlavo prima, che ho conosciuto in un mio periodo di crisi, durante un ultimo dell’anno a Malè.
Lui allora mi confidò: ”Guarda, ho provato anche io i dolori d’amore, ma ti posso assicurare che la cosa peggiore nella mia vita è stata perdere le falangi dei piedi!” E in effetti questo allora mi risvegliò dal torpore: io potevo ancora camminare, ero libera di salire qualsiasi cima grazie ai miei piedi, ma anche grazie alla mia voce e alla mia musica.
La tua è voce-strumento: usi diverse tecniche vocali provenienti da diverse parti del mondo…
Non appartengo a nessun genere musicale perché utilizzo gli stili come colori sulla tavolozza di un pittore: quando ho bisogno di un colore vado a tirarlo fuori dalla riserva dei suoni che ho ascoltato nelle varie vocalità del mondo e anche dai suoni della natura e degli strumenti. Questo mi permette di viaggiare anche quando non posso farlo fisicamente, di comunicare messaggi anche solo attraverso i suoni e le timbriche, senza la mediazione dei testi. E poi è un grande divertimento: ai tempi del liceo ero quella che imitava i professori, la cabarettista della classe… ancora più indietro, ricordo che da bambina intrattenevo i miei compagni di gioco riuniti nella lavanderia del condominio, narrando loro storie improvvisate, con colonne sonore “del terrore” per le quali utilizzavo tecniche che solo da grande ho scoperto essere, ad esempio, vocalità armoniche. Poi, una volta entrata in Conservatorio e ai corsi del Teatro Comunale di Bologna per Artista di Coro, e soprattutto andando a lezione presso grandi maestri come Paride Venturi, mi sono dedicata con continuità ad esercizi vocali per apprendere la vocalità operistica, che fino ad allora avevo solo imitato. Significava apprendere una tecnica per potenziare la voce e imparare a non stancarsi, appoggiando i suoni e utilizzando una respirazione diaframmatica. Ho superato varie vicissitudini fisiche (frequentavo il Conservatorio come soprano leggero, lavoravo come soprano nel coro dell’opera, frequentavo l’Accademia d’Arte Drammatica e come attrice l’utilizzo della voce era assai diverso, più da contralto), vicissitudini legate ad un utilizzo ‘sfrenato’ delle corde vocali. Questo contemporaneamente a problemi esistenziali importanti per un’artista: “Cosa sto facendo della mia voce?”, “Qual è il mio percorso artistico?”, “E la mia progettualità?” “Perché canto?”, “Qual è il mio messaggio quando salgo sul palco?”.
Dopo aver vinto una borsa di studio, che mi ha permesso di andare a studiare in India, allora pian piano ho capito dove volevo andare con la mia voce: non mi bastava essere un’interprete e non bastava utilizzare la tecnica per stupire il pubblico o provare al mondo quant’ero brava. Non a caso dall’India (nel mezzo del cammin di nostra vita) in poi sono nati i miei progetti e la mia musica originale e i miei dischi che sono sempre dei concept album, lavori che porto a termine sempre in tempi lunghi, perché devono sedimentare e trovare un filo forte che ne unisca tutte le parti.
Tecniche vocali che significano stretta relazione con il corpo: quanto dedichi all’esercizio della voce?
Tecnicamente parlando ora non passo molto tempo nello studio e negli esercizi vocali, sono molto meno secchiona e meno metodica di un tempo. Paradossalmente faccio esercizio di tecnica quando insegno tecnica agli altri…Il mio lavoro è un work in progress e si svolge poco a tavolino. Gli stimoli più forti alla creazione di musica e progetti possono venire da film, video, libri, spettacoli, fotografie. Le immagini sono molto importanti nei miei suoni: non a caso da anni collaboro con artisti visivi e la luce ha grossa importanza , anche nelle produzioni più piccole. La mia musica, la mia voce è come se fosse sempre una colonna sonora, anche quando non vi sono immagini: è il commento di ciò che io vedo e sento.
Hai cantato in diverse lingue nella tua carriera: nell’interpretare un canto tradizionale, cosa ti prende, il significato? La phoné? Tutti e due?
Sicuramente la prima cosa che percepisco di un brano è il suono, e quindi di una lingua la sua phoné, tant’è vero che quando memorizzo un canto in una lingua straniera la memoria è legata ai suoni di quella lingua e non ai significati. Ho infatti scoperto che è molto più facile per me cantare a memoria un brano arabo rispetto ad uno italiano.
Ho notato che nel canto tradizionale le melodie sono spesso forgiate sui suoni delle lettere e sui movimenti delle frasi della lingua parlata, come ad esempio sempre nell’arabo, che contiene lettere gutturali le quali causano certi movimenti tipici delle melodie in questo idioma. Poi quando i testi sono belli e sono poesia pura vengo completamente rapita anche da quelli, e allora salta fuori la parte attoriale che mi appartiene. Ma il tutto deve poi rientrare sempre in una visione fonetica d’insieme. La musica, rispetto alla recitazione di un testo, offre la libertà assoluta di giocare con i suoni in modo totalmente astratto, ed è per questo motivo che ad un certo punto del mio percorso vocale ho scelto il percorso della musica invece di quello della recitazione.
Qual è il tuo rapporto con le culture musicali di tradizione orale?
Sguazzo a piene mani in tutti quei colori, viaggio a vele spiegate. Mi sento a casa perché tutte le radici sono le mie stesse radici.
Suoni e natura in sintonia, ma di certo non rinunci all’elettronica. Come ti piace utilizzarla?
Come un trucco che non sia però troppo scoperto, cioè che non faccia mai troppo a meno della dimensione acustica. L’elettronica non deve mai attirare troppo l’attenzione su di sé a scapito del resto. Dev’essere una valorizzazione dei suoni. Personalmente ne faccio un utilizzo funzionale: se ho bisogno di creare un tappeto, un’armonia di voci, una ritmica, adopero un looper (il mio è dell’età della pietra: un Jamman Lexicon che non dà la possibilità di cancellare una traccia quando l’hai registrata e che semplicemente sovra-incide…dal vivo non devi sbagliare mai). Questo per quanto riguarda esclusivamente la voce. Non mi piace però abusare dell’utilizzo di questi strumenti. Per quanto riguarda gli effetti preferisco produrli direttamente con le corde vocali, lo trovo più stimolante. Poi è chiaro che è importante che un bravo tecnico del suono valorizzi la voce con riverberi adatti al brano eseguito e al luogo del concerto. Amo molto anche cantare in acustica negli ambienti consoni, come chiese o sale antiche naturalmente riverberate.
Amo l’uso dell’elettronica in chi mi accompagna a livello strumentale, come ad esempio il chitarrista Gabriele Bombardini, mio compagno di varie avventure musicali. Anche qui però nel rispetto pieno del progetto, del brano e del contesto dove questo viene inserito.
Dal “Bella Ciao” alla collaborazione con il progetto “Secondo” di Claudio Zappi sul liscio di Secondo Casadei: cosa ti coinvolge in progetti di cui non sei l’unica primadonna?
Sicuramente mi affascina incontrare artisti bravi sul palco: più sono bravi e più c’è libertà d’espressione nel lavoro d’assieme. In più è una grande passione lavorare con voci diverse dalle mie, da sempre, fin dalle prime esperienze a cappella nella musica antica e in quella contemporanea. Più gli artisti sono bravi e meno è importante essere “primedonne”, piuttosto è fondamentale cercare un’unione forte perché il risultato sia eccezionale. Questo è quello che provo ad esempio sul palco di “Bella Ciao” quando canto assieme a Elena Ledda e a Lucilla Galeazzi: se le orecchie godono anche il cuore e lo spirito lo fanno di conseguenza. E il pubblico esulta… Poi ci sono progetti dove la partecipazione avviene come ospite, e lì lo stimolo è ancora diverso: ad esempio nel progetto “Secondo” di Claudio Zappi, la voce, oltre a citare le melodie tradizionali, è strumento in mezzo ad altri strumenti, e il suo linguaggio improvvisativo appartiene comunque al jazz…
Come hai proceduto nell’approccio compositivo in “Come un albero”?
Quando comincio un progetto che ho in testa recupero il materiale che straripa dai miei cassetti e tutto ciò che mi può servire: materiale visivo, letture, ascolti di svariate vocalità e tradizioni che possono essere utili ai concetti che voglio trasformare in musica. Nel caso di “Come un albero d’inverno” alcuni brani sono stati composti appunto d’inverno, come Il Giardiniere e Ninnananna nella Neve: buttando giù emozioni, parole, melodie e accordi, poi pensando agli arrangiamenti di ognuno. Ho arrangiato “Ninnananna” per un gruppo maschile a cappella, con la mia melodia tendente al naif e rime quasi infantili, perché tutti nella neve tornano bambini. Salvo poi concludere con una meditazione sulla caducità della nostra vita.
Mentre per la composizione de “Il Giardiniere” sono stata ispirata dalle parole di padre Enzo Bianchi sulla necessità di essere piantatori di alberi e di bellezza oggi per le generazioni che verranno. Per questo brano ho lasciato carta bianca alla fantasia arrangiatrice di Gabriele Bombardini. Ho estrapolato alcuni brani dalla tradizione alpina, riarrangiandoli a cappella per poi potervi giocare assieme ad elementi vocali presi da lontane culture di montagna (“Valcamonica”). Oppure ho preso a prestito suoni vocali e strumentali di altre culture per comporre brani originali, eseguiti sovrapponendo la mia voce (“Coil”, “Permafrost”)… è più forte di me: amo creare colonne sonore vocali senza l’utilizzo di parole, una sorta di musica “descrittiva”, mi piace comporre immagini con la voce. Un brano della Grande Guerra come “Monte Canino” lo canto da anni con il sapiente ed essenziale accompagnamento di Bombardini: qui abbiamo aggiunto la classica interpretazione del coro della CeT. La visione che ho voluto rendere è una giustapposizione fra vecchie immagini in bianco e nero con gli Alpini in marcia nella neve e la mia voce, ‘a colori’, in primo piano e un po’ fuori syncro, che racconta agli ascoltatori di oggi cos’era la guerra per quei giovani soldati, attraverso le commoventi parole del canto. Per “Agnus Dei”, composto vari anni fa per un altro lavoro discografico, era questo il momento di saltar fuori, con gli arrangiamenti suggestivi di Bombardini e l’introduzione affidata alle voci gregoriane dell’ensemble femminile Mediae Aetatis Sodalicium. Anche “Uselivè”, con parole romagnole tratte dal repertorio dei canti alla buera, è stato creato molti anni fa per un altro progetto, ma mai inserito in quel cd: l’ho recuperato per non far mancare simbolicamente gli Appennini nel discorso montano. I brani “Sailing(s)” e “I say goodbye” sono composizioni di Gabriele, nelle quali ho aggiunto i cori. Il brano “Buonanotte Eolo” è una composizione di Gianni Pirollo, incisa anch’essa, piano e voce, per un altro progetto, ma rimasta a decantare per qualche anno. Lo “Yodel” iniziale, che ho composto per poter improvvisare su coro maschile, è una cartolina volutamente stereotipata sulla montagna, tutta baite, gerani e mucche al pascolo; con una modulazione finale introduce però dei dubbi a chi ascolta, preparandolo all’ascolto del CD.
Innanzitutto Gabriele Bombardini, chitarrista, compositore, docente che mi accompagna ormai da molti anni in tante avventure artistiche, sia come strumentista-arrangiatore che come produttore. Utilizza a meraviglia l’elettronica e quindi è come avere un’orchestra e una sala d’incisione a disposizione. Il suo modo di arrangiare e comporre non parte a tavolino, ma dalla continua sperimentazione. Gabriele possiede un’altra dote notevole e rarissima: quella di saper ascoltare con empatia. L’altro strumentista del progetto è il clarinettista-pianista-compositore Gianni Pirollo. Di lui ammiro la scioltezza con la quale utilizza il suo strumento per suonare e improvvisare, passando senza soluzione di continuità e in modo molto espressivo dal linguaggio classico a quello jazz e improvvisativo. Non dice mai una parola in più del dovuto, anche nella vita. Notevoli anche le sue doti compositive: tutto quanto nasce nella sua testa e viene trascritto a mano come una volta: non esiste il computer nella sua musica, neanche nelle partiture orchestrali. Ambedue, Gabriele e Gianni, sono uomini ‘nordici’, silenziosi e meditativi. Oskar Boldre è una voce-strumento, abituato a lavorare con la sua voce e quella degli altri, un “armonico” a tutto tondo fra nord Italia e Svizzera. Come beat-boxer affronta qualsiasi tipo di ritmo e di timbrica percussiva, con una preparazione da percussionista-batterista. Come vocalist è speciale nei suoni armonici e nell’invenzione di suoni personali. Ha lavorato con improvvisatori del calibro dei We Be 3 e sul palco anche con Bobby Mc Ferrin. Poi ci sono alcuni miei ex-allievi dei corsi di improvvisazione d’assieme e tecnica vocale. Peccato non aver potuto metterli tutti nel CD, come nel concerto sperimentale svolto per il Ravenna Festival nel 2012, nel quale con noi sul palco naturale della Pineta di Classe era presente un grande gruppo di allievi e una rappresentanza del coro CeT di Milano: un summit di voci incredibile!
Porterai dal vivo il progetto? Quale la dimensione più adatta per “Come un albero”?
Sì, stiamo pensando a come rendere al meglio il progetto senza un numero esagerato di artisti sul palco. Abbiamo già sperimentato la dimensione live in festival dove potevo avere a disposizione molte voci, ma questi numeri sono fuori portata per far circuitarle agilmente il live. Quindi le alternative sono il concerto con sei artisti (quattro voci e due strumentisti), laddove sia possibile con l’aggiunta del quartetto Armonici Cantori Solandri oppure con la partecipazione di un coro locale che conosca Monte Canino e che abbia intonazione ed elasticità per lavorare assieme a noi in improvvisazioni live dirette da Oskar.
Luisa Cottifogli – Come un albero d’inverno (Visage Music/Materiali Sonori, 2017)
“Come un albero d’inverno” è il nuovo lavoro della straordinaria vocalist, trentina di nascita, romagnola d’adozione. Contemporaneo nel suo utilizzo di espressioni di tradizione orale, l’album si apre con una cartolina dalla montagna (“Yodel”) in cui Luisa Cottifogli gioca con lo stereotipo alpino, cogliendo la possibilità di improvvisare su un coro maschile (Oskar Boldre e gli Armonici Cantori Solandri della val di Sole), e chiudendo il brano con una sequenza inquieta. Segue la title track, capolavoro costruito su voci limpide, canto armonico, beat box, piano, chitarre ed elettronica. Il clarinetto di Gianni Pirollo guida la melodia in “Sailing(s)”, numero delicato e sognante firmato da Gabriele Bombardini, co-produttore dell’album. Con il commovente testo di “Monte Canino” ci trasferiamo in uno degli scenari tragici del primo conflitto mondiale. Alla struttura che rispetta l’armonizzazione corale (esegue il coro CeT di Milano), si aggiungono le coloriture della voce di Luisa e chitarre e pedal steel di Bombardini. “Valcamonica” coniuga diverse espressioni etnofoniche montane. Invece, un organico in trio con voce, clarinetto, chitarra e mandolino si produce nella delicata “Il giardiniere”. Un titolo inconsueto è “Permafrost”, brano che con “Coil” è stato concepito per evocare immagini con la voce, adoperando sovrapposizioni, loop, tecniche vocali inuit (i giochi vocali delle comunità del Canada) e canto difonico. Magistrale “Ninnananna nella neve”, arrangiata per un gruppo maschile a cappella, in cui si innesta la melodia dolce e intima di Cottifogli. La successiva “Buonanotte Eolo” una composizione di Gianni Pirollo per piano e voce. Si cambia registro in “Agnus Dei” finendo nel gregoriano (le voci femminili del gruppo Mediae Aetatis Sodalicium di Bologna). Ancora una virata, questa volta elettrica, per “Uselivè”, proveniente dal repertorio dei canti alla buera romagnoli, un brano che ci riporta al clima di “Rumì”, disco risalente all’incirca a un decennio fa. Tutto va a concludersi in coppia con il polistrumentista Bombardini in “I say goodbye”. Un disco fascinoso, di un’artista coraggiosa con pochi eguali in Italia.
Ciro De Rosa