Lucio Villani – Nightbreed. Blue Tales (Felmay, 2017)

Non provate a far girare il disco se avete una finestra aperta da cui entra rumore e luce, perché non funziona. Non provate neanche a fare qualcos'altro, perché Lucio Villani si prende tutto con “Nightbreed”, il suo progetto solista e solo, scuro, denso e profondo. Si prende tutto per darti tutto: contrabbasso infinito, senza limiti di nessun tipo, voce e aria che circola tutto intorno. “È un disco di musica notturna, solo contrabbasso e voce”, ci dice d’altronde dal suo bellissimo sito. E non possiamo certo trasformarlo in qualcos’altro. Possiamo decidere se ascoltarlo o no, ma niente di più. Una volta partito il disco assorbe anche i movimenti di chi lo ascolta, perché non solo il contrabbasso è pieno di curve avvolgenti, ma si insinua dentro una voce sicura e qualche battito e respiro qua e là che fanno il resto. Determinando così quella sospensione che esclude ogni altra cosa: stiamo fermi, seduti, stesi o anche in piedi, copriamoci coi battiti delle corde, spostiamoci appena seguendo il battito di un piede e, sopratutto, ondeggiamo quanto basta per seguire le note strisciate del contrabbasso. In scaletta ci sono tredici brani che, notturni o no, riflettono una cura attenta nella scelta e nell’esecuzione. Tutto scorre con lentezza certosina, per affondare come si deve nella densità di un’esecuzione piena, aggrappata a una sorta di acidità straniante che si riempie di citazioni e atmosfere ben piantate e riconoscibili. Ci si muove attraverso qualche brano tradizionale, Tom Waits, Neil Young, il reverendo del fingerpicking Gary Davis, Trent Reznor e alcuni brani originali. Ma il filo conduttore è “lui”, il contrabbasso espanso che detta ritmo, melodia e regola la visione su un piano alto, dove si respira un'aria fresca e piena, dove tutti i suoni sono inclusi in pochi movimenti, in poche note. Dove ogni passaggio si pone con coerenza in relazione a un insieme regolato per sottrazione, dove anche il fiato e il battito del polpastrello sulla tastiera hanno un significato ritmico e armonico. Tra i brani asciugati da Villani ce ne sono alcuni di una bellezza cristallina, dentro i quali si leggono le note più importanti e si coglie, quasi con sollievo, un nervo robusto e resistente. Un quadro composto con il necessario, da cui emergono alcuni elementi che si configurano come fondamentali, estremamente significanti, che diversamente tenderebbero a mescolarsi e alleggerirsi in un insieme più inclusivo e articolato. Certo alcuni dei brani scelti sono già di per sé di altissimo livello e nelle loro versioni originali occupano i posti alti nelle classifiche degli intenditori. Per quanto riguarda i tradizionali, pensiamo a “Where did you sleep last night”, che grazie al cielo è stata consegnata alla storia da Leadbelly, per poi passare per mani che ci hanno lavorato sù con prospettive più o meno diverse (da Lenegan a Cobain) e che qui riassorbe tutta quella dirompente componente estemporanea che le spetta di diritto e che, in fin dei conti, è la sua vera forza. Villani ce la propone con una intro fluida, lasciando poi lo spazio necessario alla lirica del brano, che il contrabbasso sorregge con un andamento più solido e pieno. La voce zampilla su poche note, che a volte sembrano pilastri impassibili e altre risuonano oltre le parole, rafforzando una linea melodica indimenticabile e mai ridondante. I brani di Tom Waits (“Chocolate Jesus”, “Time” e “Way down in the hole”) sembrano trovare invece una loro plausibile collocazione in uno “strumentario” sintetizzato nel contrabbasso e nella voce. La scelta è coraggiosa e il risultato eccellente: “Chocolate Jesus” mantiene la sua struttura piacevolmente acida e si adegua senza forzature alla nuova struttura. Il contrabbasso riesce a ricalcare l’andamento cantilenoso, processionale, arido e sfuggevole della versione originale. La voce di Villani aderisce - con variazioni significative che introducono cambiamenti melodici apprezzabili - al quadro generale, orientando la struttura generale verso un orizzonte più vagamente jazzato. La scaletta si chiude con “Harvest” di Neil Young, tracciando la linea di un orizzonte perfetto: intimo ma rarefatto e coerentemente astratto, sognante e visionario. Ascoltandola ci sentiamo sottratti del flusso perfetto e morbido della versione originale, ma la struttura generale guadagna in trasparenza e il nuovo andamento, più incoerente e accidentato, diviene addirittura più ipnotico e allo stesso tempo solido e fermo. Di lì a poco compare “We shall overcome”, si alza una nube più piena che stringe e rapisce fino in fondo. 


Daniele Cestellini

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