Giulio Cantore & Almadira - Derive (Bajun Records, 2017)

Nuovo disco per Giulio Cantore, che continua a impreziosire l’orizzonte melodico del nostro panorama musicale. Si intitola “Derive” ed è un’evocazione chitarristica allungata in nove tracce fluide e corpose, nelle quali le corde si espandano in molte direzioni. Il suono - come avevamo avuto modo di notare anche in passato - si estende con coerenza e dedizione poggiando certamente sulle chitarre di Cantore (il quale, lo ricordiamo, è liutaio oltre che cantautore e qui suona classica, baritono, weissborn e cavaquinho), ma attraversa gli altri strumenti, selezionati con precisione e logica “acustica”. A partire dai fiati e dalle percussioni - che convergono nel progetto attraverso il nome di Almadira - suonati rispettivamente da Fabio Mina (flauto, dan moi, duduk, khaen) e Stefano Fabbri (cajon, conga, floor tom, balafon, udu drum, calebasse, djambe, krin, shaker), per arrivare all’armonica, il mandolino, il kartal e il pandeiro (suonati da Marco Liverani, Carl Cappelle, Paolo Veronica e Gianluigi Staffa). Insomma “Derive” è uno spazio concreto di suoni equilibrati, assemblati con delicatezza e attenzione in una narrativa sopratutto musicale, dalla quale emergono parole ma in modo pacato, quasi centellinato da una prospettiva che accoglie sopratutto una musica nuovamente profonda, personale e magistralmente condivisa. Attenzione ho trovato alcune “parole” significative, organizzate in modi interessanti (come ad esempio in “Giochi di parole”) e con esiti melodici molto piacevoli. Ma non credo sia eccessivo ricondurre la visione di Cantore a un flusso sopratutto musicale, che nasce dalle sue mani e che si approfondisce via via che si organizza verso la forma di una o di più canzoni. D’altronde l’attenzione al timbro, alla melodia, al ritmo e all’armonia è così forte che non può non indurre a una riflessione di questo tipo. Una riflessione che non vuole certo sottrarre spazio a una forma di narrazione più articolata che comprenda una trama testuale altrettanto equilibrata, ma che al contrario riconosce un linguaggio che si fa gradualmente più preciso e completo proprio attraverso l’espressione strumentale. La competenza tecnica di Cantore si è ricavata, in modi più o meno diretti o espliciti, un ruolo di primo piano: salta all’occhio fin dal primo ascolto che le forme delle musiche confluite nell’album vadano oltre la scrittura e derivino dalla compresenza di più elementi. I quali riescono a generare una profondità straordinaria a ogni passo, a ogni accordo, a ogni incastro. Che porta con sé - come si può d’altronde leggere anche nel libretto dell’album in una breve introduzione alla sequenza dei brani - sì le “persone” e i “luoghi” ma anche i “legni” (non capita spesso di incontrare un riferimento di questo tipo tra le idee dei musicisti), le “corde” e certamente le “musiche”. Una volta compreso questo insieme di elementi - che assumono un ruolo preminente, specie se si vuole anche indagare qualche idea che può essere ricondotta al processo di produzione dell’album, quando non anche al processo di creazione dei brani, all’organizzazione in un programma organico come “Derive”, alla loro costruzione attraverso la condivisione dell’idea che ne è alla base con i musicisti che li suonano - una volta compreso si può entrare nella scaletta e lasciarsi “attraversare” dal flusso che ne deriva. La delicatezza di ogni strumento è straordinaria e, anche quando convivono prospettive formalmente anche distanti (la morbidezza della chitarra classica, la compostezza della baritono, la sicurezza graffiante della weissborn), il risultato è molto piacevole. Ogni brano porta con sé una dimensione concreta insieme a qualcosa di etereo, evocato con suoni soffusi oppure stranianti (pensate al timbro del khaen, oppure al kartal, ma anche al balafon), confermando l’attenzione a una dimensione profonda e a tratti surreale. Ascoltando più volte l’album - e questo credo possa riconoscersi come uno degli elementi più interessanti - non si cambia idea. Cioè l’esperienza, la conoscenza, la familiarità con i brani non lascia uno spazio maggiore alla concretezza, ma riconduce sempre a quella sensazione di sospensione, a quella piacevole necessità di attenzione, di profondità, di approfondimento, a cui partecipano in modo sicuramente deciso anche i brani più “immediati”, come ad esempio “A mare” oppure “Sansedine”.



Daniele Cestellini

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