Danyèl Waro è forse il più noto musicista e poeta dell’isola de La Réunion, dove è nato 62 anni fa a Tampon. Il nono disco della sua carriera artistica è intitolato “monmon”, scritto proprio così, con la lettera minuscola, omaggio a tutte le madri. Waro è esponente di spicco del maloya, considerato il blues de La Réunion, la musica tramandata dagli schiavi nelle coltivazioni di canna da zucchero, salvato da una scomparsa definitiva grazie all’attivismo del locale partito comunista che, negli anni ’70 del secolo scorso, ne ha fatto un cavallo di battaglia nella rivendicazione dei diritti e dell’identità, in opposizione alla cultura francese. Con popolazioni provenienti da Madagascar, Europa, India ed Africa, La Réunion rappresenta un crogiuolo di culture. Oltre che dal governo francese, il maloya venne osteggiato anche dalla chiesa cattolica locale che ne colse aspetti pericolosi sia perché, unito alla danza, serviva anche a raggiungere uno stato di trance, sia per il suo uso in riti collettivi per comunicare con gli antenati. Finalmente riconosciuto nel 2009 dall’UNESCO nella Lista rappresentativa della Francia come patrimonio intangibile dell’umanità, il maloya incarna il grido di dolore degli schiavi del Madagascar e dell’Africa ed oggi è anche oggetto di insegnamento nel Conservatorio musicale dell’isola. Gli strumenti tradizionali che accompagnano la voce sono esclusivamente percussivi: il roulèr (strumento membranofono, un tamburo dalle sonorità basse), il kayamb (strumento idiofono, un sonaglio piatto realizzato con i fusti della canna da zucchero riempiti di semi), il pikèr (idiofono costituito da un cilindro di bambù percosso con due bastoncini), il sati (un bidone in metallo percosso con due bacchette). La lingua creola è il suo linguaggio d’elezione. L’artista è attivo militante per la cultura identitaria de La Réunion e compone i suoi versi a fini rivoluzionari e di protesta, per i diritti, contro la disoccupazione che colpisce la gioventù locale. Figlio di un agricoltore, a sua volta lavoratore dei campi, da ragazzo Waro ascoltava la musica grazie ad una radiolina e, attraverso i dischi della sorella, ha potuto conoscere le canzoni di Brassens, che per lui rappresenta un punto di riferimento forte. Ha debuttato come musicista nel 1975 insieme ad una formazione composta da lavoratori dei campi. Antimilitarista, ha rifiutato di svolgere il servizio di leva ed ha trascorso due anni in prigione, dove ha cominciato a comporre testi in creolo. Nel 1978 sono arrivate le prime incisioni insieme alla decisione di abbracciare la carriera artistica intrecciata al maloya. Nel 1994 ha pubblicato il suo primo album e da quel momento ha partecipato a numerosi, prestigiosi festival internazionali ed ha sviluppato numerose collaborazioni tra cui una delle principali è con il gruppo corso A Filleta.
Con il precedente lavoro “Aou Amwin” del 2010, Waro è stato insignito del Grand Prix dell’Accademia Charles Cros. La recentissima uscita di “monmon” ha la sua forza nel canto e nella sonorità delle parole, messe in risalto dai ritmi percussivi africani in un seducente connubio. Canti responsoriali e cori africani risaltano grazie a melodie toccanti pervase di colori forti e sfumature variopinte, di dolore, gioia e dolcezza. La dinamica vocale gioca un ruolo fondamentale anche grazie alla voce melodiosa e vibrante di Waro che ha improvvise impennate, sorprendenti e intense. “Familia” ci immette immediatamente tra le undici tracce del disco, grazie ai ritmi trascinanti che costituiscono la chiave d’accesso al mondo di Waro e porta l’ascoltatore dritto alla seconda traccia, “monmon”, il cuore melodico e “spirituale” del lavoro. Accanto a “La mauvaise reputation”, celeberrimo brano di Brassens tradotto in creolo da Waro, colpiscono la rilassata e sorridente “Gabryiélé”, l’espressiva, toccante “Panga”, “Fanzan” giocata tra canti responsoriali e ritmo, la dolente “Madanm Baba” che si snoda in momenti musicali diversi. “monmon” racchiude brani scritti in momenti diversi della carriera artistica di Waro che abbracciano circa vent’anni. E’ un lavoro toccante, intimo, sanguigno, che ha il dono dell’essenzialità. Attraverso i suoi caleidoscopici colori ci aiuta a conoscere una realtà tanto lontana. Da ascoltare, con attenzione.
Carla Visca
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