Deben Bhattacharya – Colours of Raga (Arc, 2017)

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“Colours of Raga”, con la curatela di Simon Broughton, fondatore e direttore responsabile del periodico “Songlines”, inaugura la nuova collana “Musical Explorers” dell’etichetta britannica ARC. La serie intende portare all’attenzione del pubblico ricerche storiche condotte da musicisti e studiosi nel secolo scorso. “Colours of Raga” è dedicato all’opera di Deben Bhattacharya (1920-2001), cacciatore di suoni, etnomusicologo e documentarista bengalese (Cina, Turchia, Siria e altri paesi ancora). Si tratta di un CD di registrazioni del 1954 (solo una risale al 1968) raccolte a Vanarasi/Benares e di un DVD del film “Raga”, della durata di poco meno di mezz’ora, realizzato nel 1969 e presentato da Yehudi Menuhin. Il CD contiene sei raga di musica indostana. La partenza è affidata a “Kedara”, un raga della sera suonato da una coppia di aerofoni ad ancia doppia shenai, accompagnati da percussioni. Il successivo “Todi” (registrato nel 1968) è un raga del mattino, che consente di ascoltare Amiya Gopal Bhattacharya con il suo surbahar, un cordofono tastato simile al sitar ma più grande in lunghezza, dai toni più bassi, dotato di sei corde superiori più tredici di risonanza. Dopo il raga notturno “Khammaj” per sitar e tabla, il sitarista Jyotish Chandra Chowdhury imbraccia la cetra rudravina per interpretare “Miyan ki Malhar”, una composizione destinata alla stagione delle piogge. Si cambia registro con la canzone d’amore in hindi “Bageshri”, per voce, sarangi e tabla. Infine, si ritorna a un raga del mattino “Bhairavi”, eseguito al bansuri, il flauto di bambù, accompagnato dal liuto tanpura e dalle percussioni duggi. Visto con gli occhi di oggi, in un’epoca in cui attraverso il Web possiamo raggiungere qualsiasi latitudine musicale e i concerti di musica indiana si possono vedere con una certa frequenza, il documentario “Raga” potrà sembrare datato con il suo stile divulgativo ed educativo, ma stiamo parlando di una pellicola che risale a oltre cinquant’anni fa, dalle modalità informative ben diverse da quelle di oggi, girato in tempi in cui la massa poco conosceva della musicalità del subcontinente indiano e della sua grammatica compositiva (ricordiamo gli hippy di Woodstock che applaudono Ravi Shankar dopo che ha ‘semplicemente’ accordato il suo sitar pensando che abbia eseguito un pezzo intero), al di là della fascinazione spirituale dei musicisti pop occidentali (Beatles in primis) e al di là dell’uso delle scale e dei microtoni del sistema musicale indiano da parte di compositori jazz e di musica contemporanea. Cosicché si avvertiva la necessità, da parte degli studiosi, di spiegare meglio cosa fosse realmente il continente musicale India, se non «demistificarlo», come scrive Broughton nel note del booklet che accompagna il progetto. Ad ogni modo, il film – la prima delle pellicole di Bhattacharya sopravvissuta all’incuria del tempo – offre uno spaccato di India tra danze rurali, solisti virtuosi, liutai e musica dal vivo. Girato a Jodhpur, Jaipur e Delhi, tra i musicisti che appaiono troviamo Damodar Lal Kabra (sarod), Manju Bhatt (sitar), Bharati (sarangi), Umashankar Mishra (sitar) e una rarità di Halim Jaffar Khan (1927-2017), il sitarista che è stato membro della “trinità del sitar” accanto a Vilayat Khan e Ravi Shankar. Una chicca per cultori e studiosi delle espressioni musicali indiane. Intanto, è in uscita un secondo prodotto, nello stesso formato CD/DVD, con musica devozionale in onore del dio Krishna e il documentario “Krishna in Spring”, opera coeva di Deben Bhattacharya. 


Ciro De Rosa

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