Tanzania Albinism Collective – White African Power (Six Degrees, 2017)

Il ‘Potere’ degli Albini d’Africa. Ian Brennan produce Tanzania Albinism Collective

In “White African Power” (Six Degrees), il celebre e pluripremiato produttore Ian Brennan dà voce alla comunità degli albini dell’isola tanzaniana di Ukerewe: una rivendicazione di dignità che trova espressione in un disco frammentario e ‘disturbante’, ma formidabile per impatto e forza emozionale, mettendo in musica e liriche, dirette e crude, le loro memorie ed esperienze di emarginazione sociale. Il Nyanza, conosciuto come Lago Vittoria, è il lago tropicale più grande del mondo, le sue acque bagnano tre Stati: Tanzania (cui appartiene politicamente), Uganda e Kenya. Tra le circa tremila isole che lo costellano c’è Ukerewe, la più estesa isola interna d’Africa, conosciuta come “l’isola degli albini”. Difatti, qui vive una comunità di persone affette da albinismo, l’alterazione genetica che determina la parziale o mancata pigmentazione di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi, con conseguente ipersensibilità ai raggi solari e seri problemi alla vista. Rispetto al resto del mondo l’albinismo è molto più diffuso in Africa (la patologia è prevalente nell’Africa sub-sahariana e nell’Africa orientale. In Tanzania un abitante su 1400 è albino), dove oltre alle difficoltà derivanti dalla vulnerabilità dovuta alla patologia, i milioni di albini africani devono fare i conti con discriminazioni e violenze perpetrate nei loro confronti in molte parti del continente. 
Forti dei numerosi report e dei dati oggettivi raccolti, le Nazioni Unite hanno messo la questione degli albini nell’agenda, e con la Risoluzione  69/170 del 18 Dicembre 2014 l’Assemblea Generale dell’ONU ha  proclamato il 13 giugno l’Albinism Awareness Day (Giornata Mondiale dell’Albinismo), mentre qualche anno fa a Dar-Es-Salaam (la capitale della Tanzania) è stata formata la Pan-African Albino Alliance, che riunisce rappresentanti degli albini di ventisei Paesi africani. Da secoli in Africa la condizione degli albini è quella di emarginati, di perseguitati, di portatori dello stigma della maledizione e del ‘malocchio’.  In alcune zone i bambini albini venivano sistematicamente uccisi, pratiche discriminatorie e finanche inaudita violenza fisica e psicologica sono ancora fortemente diffuse per le credenze che il sesso con un bambina albina possa curare gli uomini  affetti dall’HIV o che le ossa degli albini abbiano poteri magici. Ciò spinge anche ad amputazioni, omicidi rituali, che favoriscono l’orribile commercio delle parti del corpo e i traffici di organi. Se è vero che negli ultimi anni la situazione in Tanzania sembra essere migliorata, la condizione della comunità appare ancora del tutto intollerabile. Non è la prima volta che la questione dello stigma dell’albinismo viene sollevata: il maliano Salif Keita, albino e nobile fuori casta, ha messo la sua musica al servizio di SOS Albino, così come il cantante zambiano John Chiti, anch’egli affetto da albinismo. 
Ian Brennan, celebre produttore, vincitore di Grammy award ma anche agitatore culturale come pochi nel mondo della popular music, ricercatore di musiche locali in contesti violenti o post bellici e traumatici (Palestina, Vietnam, Cambogia, Malawi, Sud Sudan e altri ancora), accompagnato da sua moglie, la fotografa e cineasta Marilena Delli, ha intrapreso una collaborazione con la ONG britannica Standing Voice (www.standingvoice.org), raggiungendo l’isola dove da bambini molti albini venivano abbandonati dai familiari e che, più di recente, il governo tanzaniano ha scelto come insediamento per una comunità più ampia di albini, per proteggerli dalla violenza ma anche per allontanarli dalla visibilità presso la comunità maggioritaria. Se due anni fa Brennan si era recato tra i detenuti della Zomba Prison in Malawi, ora il suo fieldwork ha raggiunto l’isola del Lago Vittoria per un altro impegno etico-musicale, predisponendo un workshop di scrittura musicale, che vede protagonisti molti albini locali, tutti non musicisti, in un disco licenziato come Tanzania Albinism Collective, a cui è stato messo il titolo amaramente ironico di “White African Power”. Il progetto Collective salirà sul palco del Womad inglese di fine luglio a Charlton Park. Abbiamo raggiunto Ian Brennan, che ha accettato di raccontarci in un’intervista questo progetto che lo ha portato a conoscere una comunità molto vulnerabile che, finalmente, rompe il silenzio. 

Come sei stato coinvolto in questo progetto con la popolazione albina dell’isola di Ukerewe?
Nell’ultimo decennio, con mia moglie, Marilena Delli, che è italiana-ruandese ed è la fotografa e la videomaker  per i nostri progetti, siamo stati alla ricerca di performer in regioni poco rappresentate del mondo, il che significa, purtroppo, la maggior parte dei Paesi del pianeta. Siamo particolarmente motivati a cercare di fornire una piattaforma per coloro che sono censurati o perseguitati nella propria cultura. Siamo stati davvero fortunati per essere riusciti a lavorare con artisti stupefacenti in Ruanda, Malawi, Sud Sudan, Algeria, Romania, Cambogia, Vietnam e altri Paesi ancora. La persecuzione degli albini è molto grave in Tanzania, così come alcune altre parti dell’Africa orientale, tra cui il Malawi. Le atrocità e la minaccia quotidiana a cui essi sono sottoposti, l’ostracismo, la violenza, lo stupro, l’omicidio e perfino la mutilazione di parti del corpo, che si crede abbiano poteri magici, sono semplicemente terribili. Abbiamo collaborato con la meravigliosa ONG britannica Standing Voice, che ci ha aiutato a entrare in contatto con la comunità di albini nella Tanzania settentrionale. Quando hanno suggerito l’isola Ukerewe come possibilità, sapevamo che, nonostante la sua lontananza che la rendeva logisticamente ancora più difficile e scoraggiante di quanto già non fosse, non c’era altra scelta che andare là per concentrarsi su quella popolazione locale, perché gli albini isolani avevano ancora minori possibilità di essere ascoltati rispetto a quelli della terraferma.
In effetti, nessuno finora tra quelli con cui ho parlato – anche i direttori di media che si occupano delle regioni meridionali o orientali africane – erano a conoscenza dell'esistenza dell’isola fino alla pubblicazione del disco. Questo mostra quanto il luogo sia fuori dalle mappe e dimenticato in termini di copertura mediatica.

Come ha funzionato il workshop?
Nessuno di chi ha partecipato al disco aveva mai scritto canzoni o suonato strumenti in precedenza, tranne un solo uomo che appare in una sola canzone di un minuto. In effetti, siamo rimasti sconcertati  nell’apprendere che molti dei membri del Collettivo erano stati scoraggiati a cantare ‘perfino’ in chiesa, uno spazio in cui, storicamente, le persone sono state autorizzate a esprimersi: anche ai tempi della schiavitù! Ad alcuni di questi membri della comunità di albini era stato negato anche il  livello più rudimentale di libertà. L’impegno con il Tanzania Albinism Collective è stato simile al nostro progetto nella Zomba Prison (che è stato candidato per il Grammy), nel quale abbiamo insistito per poter lavorare con le detenute, che non avevano strumenti e non si consideravano cantautrici. Le donne della prigione di Zomba hanno finito per contribuire a oltre la metà delle canzoni di quel disco (anche se rappresentano meno dell'1% della popolazione totale della prigione). Nel caso del Tanzania Albinism Collective, StandingVoice ha condotto un percorso nella comunità e un gruppo di diciotto persone, di età tra i 24 e i 57 anni, si è offerto volontario per partecipare.
Si sono incontrati settimanalmente per prepararsi al nostro arrivo e gli abbiamo inviato alcuni strumenti in anticipo. Quello che non ci aspettavamo era che durante l’intero periodo di incontri settimanali nessuno mai toccasse gli strumenti: erano troppo venerati. Quindi, la prima cosa che abbiamo fatto quando siamo arrivati, scoprendo quanto era accaduto, è stato il togliere tutti gli strumenti dal loro imballaggio affinché ogni singola persona coinvolta li ha potuti toccare, percuote, scuotere, pizzicare: una sorta di demistificazione. Abbiamo chiesto a tutti i partecipanti di scrivere almeno una canzone come condizione alla loro partecipazione al workshop. In cambio, abbiamo fornito una modesta cifra in danaro e un pasto ogni giorno. L’accordo era che ognuno a sera portasse uno strumento a casa, ma solo impegnandosi a tornare il giorno successivo con almeno una nuova canzone, se non di più. Le canzoni che hanno composto sono migliorate progressivamente con lo sforzo di ogni giorno. Abbiamo registrato circa venti ore di musica in totale e la maggior parte di quelle messe nel disco è venuta fuori nei giorni finali, durante i quali il Collettivo aveva compiuto molti più progressi come autori e ottenuto maggiore fiducia nelle proprie voci, nonostante fossero trascorse meno di due settimane dall’inizio del workshop. L’unica consegna che abbiamo dato è stata di comporre su ciò che volevano, in modo che il mondo conoscesse la loro vita.
Inoltre, come sempre accade in qualsiasi esercizio di scrittura creativa, li abbiamo incoraggiati a entrare nello specifico, di non generalizzare. Li abbiamo anche assicurati che se avessero trovato più comodo cantare nei dialetti locali sarebbe stata una cosa davvero speciale. La cosa importante era che avevano la libertà di esprimere ciò che volevano, in qualunque modo desiderassero. Non c’erano limiti, solo incoraggiamento da parte nostra. Nell’opera sono emersi i temi della solitudine, della paura e della sgomento: «Sono un essere umano», «Hanno fatto pettegolezzi quando sono nato», «La vita è dura», «A chi possiamo ricorrere»?», questi sono solo alcuni esempi. Come dicevo, i testi sono spesso nei dialetti locali di Jeeta e Kikirewe, che ufficialmente sono stati scoraggiati e censurati dopo l’unificazione del Paese nel 1964. Sono stati liberi di comunicare tutto ciò che volevano e in qualunque modo fosse per loro più comodo. Molti non si erano mai allontanati dall’isola nel corso della loro vita.

E gli strumenti?
A parte gli strumenti che abbiamo portato, la maggior parte della strumentazione è costituita da ‘strumenti trovati’ nell’ambiente rurale circostante: una mazza, una bottiglia di birra e un chiodo arrugginito, un arco e una freccia, una scopa, una padella, un tavolo da scuola, un bacile di plastica per l’acqua piovana rotto di oltre 6 piedi di altezza, ecc.

Cosa ti ha colpito delle voci dei cantanti?
L’onestà è palpabile. La loro è delicatezza e trasparenza, ma anche un'asserzione sottomessa di dover sopravvivere ogni giorno sottoposta alle molestie che la maggior parte di loro affrontano. Sarebbe difficile confrontare le voci di questo album con quelle che sentite altrove o sui dischi. Certamente, su quest’album non ci sono imitatori di Beyoncé o Them Yorke.

Cosa c’è nell’essenza della loro musica?
Onestà emotiva. Ci è negato nella vita moderna dove tante interazioni sociali sono remote e/o superficiali. Quindi siamo più bisognosi e persino affamati di sentire qualcuno che apre il proprio cuore al mondo. E il coraggio con cui il Tanzania Albinism Collective ha avvicinato questa musica è davvero sorprendente.

Come si sono svolte le sessioni di registrazione?
Sono abbastanza a mio agio a registrare ovunque. Ho una piccola postazione mobile che posso trasportare con entrambe le mani e sulla schiena ed impostare velocemente. In realtà, preferisco la registrazione all’aperto. L’ossigeno è un componente sottovalutato nella musica. La gente deve respirare e sentirsi bene per far sentire gli altri di sentirsi bene. Anche la luce del giorno ha quasi sempre un’influenza positiva.

Quale il tuo ruolo di produttore?
Cerco di essere il più invisibile possibile. Il mio obiettivo è sempre di scomparire nella musica in modo che l'unica cosa che rimane è il suono. Registro da oltre trent’anni anni e all’inizio ho fatto alcuni dei peggiori dischi, ho imparato involontariamente a non fare arte e musica. L’essere in grado di navigare in quei rischi di creatività, mi permette di assistere a volte altre persone nei loro sforzi per superare le trappole del proprio ego e della paura.

Puoi tracciare un terreno comune tra i tuoi progetti precedenti e “White African Power”?
Il terreno comune è che le canzoni devono venire prima: se la musica non sta in piedi da sola, non lo licenziamo, perché una bella storia e una causa non bastano. Come dicevo, è simile al progetto Zomba Prison del Malawi, le canzoni più forti sono venute fuori dai meno esperti come musicisti. C’è la purezza e l’intuizione che spesso le persone troppo scolarizzate non possono raggiungere.

C’è anche un documentario girato da tua moglie…
Le foto e i video girati da mia moglie sono cruciali per raccontare le storie. È estremamente empatica e profonda ed è una continua delizia e un’esperienza di apprendimento vedere il mondo attraverso i suoi occhi gentili.

Nel tuo scritto “How music dies (or lives)” *, ti dichiari impegnato nella battaglia per la democrazia nelle arti “Che fare?” Qual è la cosa più urgente da fare per fare vivere le arti…?
Resistere all’ipocrisia. Idolatrare una figura ribelle che fa soldi dalla propria immagine è una delle azioni più conservatrici in cui ci si possa impegnare: è una pseudo ribellione. Il vero cambiamento è raramente drammatico: accade incrementalmente nel tempo, non nel ‘cataclisma’ di un momento.
Riprodurre la musica per la gioia intrinseca che porta: scrivi canzoni per amici e familiari, per condividere e comunicare e non per fare soldi.  Gli strumenti preconfezionati sono facoltativi. Gli strumenti sono ovunque: le mani, i piedi, le pareti. Abbraccia l’imperfezione come un amico. Ogni persona è un autore di canzoni senza saperlo: tutti parlano in melodia e muoiono in ritmo; ogni individuo sul pianeta ha almeno una buona canzone in sé. È triste pensare che la maggior parte non sarà mai ascoltata in quanto l’etere è intasato da società rock/rap/pop colonialiste. “Hotel Calfornia” è suonato in tutto il mondo ogni giorno, da cinque decenni. Tuttavia, Umm Kulthum è quasi sconosciuta al di fuori della propria regione e Vic Chesnutt è morto seguito solo da una frazione di pubblico di culto. Un tale tipo di deficit culturale si verifica solo quando è il denaro piuttosto che l’amore a spingere la distribuzione dell’arte.

*Allworth Press, New York, 2016



Tanzania Albinism Collective – White African Power (Six Degrees, 2017)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

“White African Power” non è solo una ricerca sul campo e il prodotto di un workshop sul songwriting, ma è una proposta imprevedibile, fatta di musica ‘disturbante’, di espressioni intime che sgorgano dal profondo per denunciare una condizione di emarginazione. Trattandosi di non musicisti, non ascolteremo l’Africa delle produzioni pop né quella che si esprime con moduli hip hop, né tantomeno le delizie afro-rock o neo-tradizionali, perché i ventitré brani del disco – della durata di un minuto o poco più ciascuno – sono frammenti sonori minimali che giungono a destinazione rapidi e diretti: «voci crude infallibili nella loro capacità di colpire il bersaglio», dice il produttore e agitatore culturale Ian Brennan, che invita a realizzare quanto questa musica possieda un’attitudine «punk e avantgarde». Se “Life is Hard”, il brano iniziale, o “Sorrow”, ci portano a conoscere le dolci voci di Christina Wagulu e di Sabina Ladislaus , la canzone corale del Collettivo che dà titolo al disco – dal sottotitolo “We live in danger” – segnata da percussioni metalliche e martellanti, urla tutta la volontà di uscire dalla condizione di reietti. Canto ed elettronica a basso costo (“This World Has Gone Wrong”, scritta e cantata da Mary Leonard, o “I Will Build a Home, Someday” di Elias Sostenes), chitarre distorte e non educate, canti a cappella (“I Am A Human Being”, ancora di Christina Wagulu), melodie soavi e intonazioni iterative (“Unity Is Our Strength” di Neema Kajanja), percussioni e reiterata linea di basso (“Stop the Murders” di Sospeter Kajanja), brani più prossimi all’idea di canzone come “Never Forget the Killings” di Riziki Julius, la denuncia e indignazione espressa in “Stigma Everywhere” di Hamidu Didas, o il canto conclusivo di Thereza Phinias (“Happiness” con la sua scia finale di chitarre distorte). Diciamola tutta: “White African Power” non è un disco qualunque, ma dà voce a una comunità che si fa soggetto attivo uscendo dal silenzio.  



Ciro De Rosa

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