Lu Trainanà - Diecianni (Autoprodotto, 2017)

Il paesaggio sonoro che si apre facendo girare “Diecianni” de Lu Trainanà è quello subito riconoscibile del centro Italia. Dico questo non per semplificare e generalizzare, ma perché faccio riferimento a una macro area che si può connettere alla diffusione di alcuni repertori, di alcune forme e di alcuni strumenti specifici. Parliamo della struttura dello stornello, di una narrativa molto diretta, di un dialetto mitigato dall’italiano (mai esclusivo), di un immaginario che nelle canzoni popolari più diffuse e cantabili si trasfigura attraverso le immagini di figure precise: “La signora”, “La donna partoriente”, “La montagnola”, “La montanara”, “La bella molinara”, “La palommella” e così via. Tra gli strumenti - che qui si inseriscono in una scena più articolata e contemporanea, grazie al cajon e alle percussioni, ma anche al violino e al contrabbasso - spiccano gli organetti e la fisarmonica i quali, quasi da soli, riferiscono di un repertorio votato al canto e, ovviamente, alla danza. In termini generali l’album è molto piacevole, sopratutto perché è curato sia sul piano della selezione dei brani, sia su quello delle esecuzioni. Queste ultime sono semplici e dirette, ma sempre profonde, con punte interessanti - come in “Vaco pe li stradoni” - in cui il gruppo riesce ad assorbire il meglio della lirica popolare e a trasportarla in una dimensione onirica e densa, ricca di suggestioni e spunti melodici. Come dicevo prima, chi è avvezzo al panorama sonoro tradizionale di quest’area - così diverso da quelli più conosciuti anche dai non addetti ai lavori - riesce a leggere tra le dieci tracce dell’album una sorta di aderenza non solo al patrimonio musicale di tradizione orale, ma anche alle forme che questo assume nella nostra contemporaneità. Si scorgono così alcuni richiami a una forma di socializzazione legata non solo alla festa ma anche al racconto della storia, al racconto del territorio. Al racconto, infine, di alcune categorie tipologiche, estetiche, che nella società contadina rappresentano alcuni tratti archetipici, per curiosità, attrazione, sdegno, vergogna, ma anche per raffinatezza, peculiarità, ambivalenza, ambiguità. Non mancano gli echi de La Macina, il gruppo cardine della riproposizione delle musiche popolari marchigiane, qui agganciato come un vero e proprio tramite con i repertori storici di tradizione orale. Ecco, forse una riflessione che abbraccia l’ensemble di Gastone Petrucci e Lu Trainanà può aiutare a comprendere il carattere di questo album. Si può andare avanti attraverso piccoli parallelismi, tutti però confluenti nell’attenzione alla forma, nella riflessione sul senso dei brani scelti e sul valore (culturale, storico, sociale) che assumono sia in relazione al loro contesto originario di produzione, sia al loro contesto attuale di trasformazione e fruizione. Ho già detto della lirica, che addensa gli elementi migliori delle melodie dell’area e che, grazie alla padronanza dei musicisti, riesce a trovare uno spazio di primo ordine nell’insieme delle produzioni ispirate alle musiche popolari. Allora in questa chiave possiamo attraversare tutti i brani, considerandoli tutti significativi del processo di ricerca dell’ensemble. E, allo stesso tempo, considerandoli tutti rappresentativi degli elementi di cui si è accennato in queste righe. A partire dal primo in scaletta, “No no non canto” e “Tre passi da soldato”, passando per “La portesa” e il riferimento alla storia nazionale con “IL Generale Cadorna”, fino a “Sardarellu”, che suggella il legame de Lu Trainanà con il paesaggio sonoro marchigiano e, in particolare, dell’area maceratese-fermana. 


Daniele Cestellini

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