Andrea Capezzuoli e Compagnia – 10 (Rox Records, 2017)

Organettista, cantante nonché arrangiatore e compositore, Andrea Capezzuoli è attivo da molti anni nella scena folk, avendo militato in gruppi come Terantiqua, La Magiostra, Musicanta, Picotage, ‘O Calascione, e più di recente BandaBrisca. A partire dal 2006, insieme al sassofonista Luca Rampini ha dato vita al progetto Andrea Capezzuoli e Compagnia, una formazione a geometrie variabili, con la quale ha inciso diversi album e tenuto numerosi concerti in Italia ed all’estero. Per celebrare i dieci anni di attività con questo gruppo, l’organettista milanese ha registrato un nuovo album intitolato semplicemente “10” che fotografa in modo eccellente la loro capacità di destreggiarsi con disinvoltura tra tradizioni musicali differenti dal Canada all’Irlanda fino toccare il nord Italia, dando vita ad originali incroci ed attraversamenti sonori. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la genesi di questo nuovo album e ripercorrere insieme a lui la sua carriera. 

Com’è nata l’idea di realizzare “10”?
E’ una tappa del gruppo, una sorta di pietra miliare che segna il nostro cammino. Sono dieci anni che il gruppo esiste, nei quali abbiamo fatto tante esperienze belle e non necessariamente belle, ma comunque di cammino. Ci faceva piacere festeggiare questa cosa con un disco.

Come avete selezionato i brani del disco? 
Rappresentano molto del nostro lavoro. Noi prendiamo un po’ delle musiche che ci piacciono e che arrivano dal Canada e quindi dal Québec, dalla Francia e dal nostro estro e gli diamo i colori un po’ particolari del nostro sound con gli arrangiamenti. A scegliere i brani sono stato io, però a differenza dei dischi precedenti gli arrangiamenti sono stati il frutto di un lavoro di gruppo. Alla fine dell’estate, a settembre, per una settimana ci siamo chiusi in casa e abbiamo tirato fuori questi nuovi brani mettendo insieme le idee e tanta musica.

Come si è indirizzato il vostro lavoro in fase di arrangiamento?
Lo stile nostro è quello che senti, ma c’era la voglia di fare incidere i brani nuovi che avevamo suonato già dal vivo, quindi ci abbiamo lavorato su perfezionandoli, limando e pulendo il sound, il tutto con l’idea di fare un disco non solo per ballare ma anche che fosse piacevole all’ascolto. Il nostro progetto ha avuto sempre questa doppia valenza perché non vogliamo fare musica da ballo pura che se l’ascolti in casa ti annoia, ma cerchiamo di creare sempre un percorso con canzoni e storie con le quali raccontiamo la musica tradizionale attraverso il nostro spirito e le nostre idee.

Quanto è complicato far dialogare la tradizione musicale italiana con quella francese o québécois? 
Alla fine non è così difficile perché di fatto sono musiche tradizionali che, sebbene nascano con lingue e stili differenti, alla fine hanno sempre un punto in comune, e spesso capita che una ballata italiana sia simile ad una del Québec. Non voglio dire che sia un lavoro banale e facile, ma certamente è più semplice del tentare il dialogo con altre forme musicali come il jazz. 

In “10” sono presenti anche alcuni ospiti come Michel Esbelin, i fratelli Boniface e Gabriele Ferrero...
Sono tutti amici con i quali abbiamo suonato in mille occasioni. Sono persone con cui ho un rapporto splendido e mi faceva piacere che lasciassero un segno in questo disco.

Quali difficoltà hai incontrato durante la realizzazione del disco?
Sono state essenzialmente economiche! Quando vendiamo il disco a 12 euro la gente si scandalizza ma al gruppo costa moltissimo a partire dallo studio che è quello dove andavano ad incidere gli Intillimani per finire alla grafica che è stata fatta da una professionista. Stiamo ancora pagando i debiti che abbiamo contratto per realizzare questo disco.

Facendo un passo indietro nel tempo. Com’è nata la tua passione per la musica folk?
Mi sono appassionato alla musica folk fin da bambino perché è miei genitori, entrambi ex sessantottini, cantavano canti tradizionali e di protesta e avevano un loro gruppo con il quale suonavano i brani del primo folk revival di Ivan Della Mea e Roberto Leydi. E’ stato abbastanza naturale poi proseguire su questa strada.

Quali sono i tuoi riferimenti stilistici?
In Italia ne ho pochi a parte Riccardo Tesi che comunque è stato sempre più moderno di me nello stile. Io sono molto tradizionalista. Ho imparato molto da Frédéric Paris che è un organettista francese e fondatore de La Chavannée, gruppo storico per la musica del centro della Francia. Lui è stato per me un guru, un esempio da seguire, e questo ho avuto modo di dirglielo anche di persona quando l’ho conosciuto. Poi c’è stato Marc Perrone e gli organettisti del Québec che è un altro mondo musicale.

Negli anni hai avuto modo di suonare diversi gruppi da Picotage a ‘O Calascione fino a Banda Brisca. Quanto ti ha arricchito questo percorso?
Ho cominciato suonando musica andina e per dieci anni ho suonato il charango e le zampogne. Per altro di recente sono tornato, per hobby, a fare questo tipo di musica che mi piace sempre. In generale amo tutta la musica folk e quando ho avuto occasione di confrontarmi con tradizioni musicali diverse ho cercato di impegnarmi molto. Ho attraversato varie fasi che non si sono cancellate ma hanno lasciato un loro segno. Ho fatto musica napoletana sullo stile della Nuova Compagnia di Canto Popolare perché in quel momento avevo conosciuto alcuni musicisti partenopei che vivevano a Milano. I miei ascoltavano musica folk e sin da piccolo ascoltavo i dischi della Nuova Compagnia di Canto Popolare come degli Intillimani, di Brassens come di Ivan Della Mea e tante altre cose. Mio padre ancora oggi è un grande appassionato di Brassens del quale ha tutta la discografia. Sono state tutte queste musiche che mi hanno ispirato e formato. 
Poi quando a venticinque anni ho cominciato a suonare l’organetto, ho trovato il mio strumento di elezione e ho cominciato ad interessarmi della musica francese e del folk italiano di Baraban e La Ciapa Rusa, ma la folgorazione è arrivata quando ho scoperto la musica del Québec. Ho unito un po’ tutte queste mie passioni ed esperienze e ha preso vita quello che faccio adesso. Nel caso della Compagnia è quella mistura di musiche folk, in altri progetti suono musica balfolk più standardizzata perché mi piace tanto suonare le burrèe, i rondeau.

Come nasce il gruppo La Compagnia?
Nacque un po’ per caso, quando una sera al Folkcaos di Milano mi affidarono una serata e mi dissero semplicemente: “fai quello che vuoi tu”. In quel periodo avevo conosciuto Luca Rampini, che è stato il pianista e il sassofonista del gruppo per diversi anni e che ha partecipato anche ad un brano del nuovo disco, lo chiamai e gli chiesi di suonare. In quell’occasione eseguimmo alcuni brani del Québec che avevo voglia di fare da molto tempo, e poi trovammo il ballerino che ancora lavora con noi ed insegna danza. Poi andammo a Zingaria, che si tiene ogni anno in Puglia, e proponemmo quei brani. La cosa piacque molto al pubblico e da lì nacque l’idea di dare vita ad un gruppo stabile.

Attualmente quali sono i progetti artistici in cui sei impegnato?
Parallelamente all’attività con Compagnia, suono con Bandabrisca, da solo e Sole Luna che è il progetto di bal folk con la violinista Maddalena Soler. Di recente sono andato a suonare con lei in Perù per un festival dedicato alle musiche delle montagne e lì abbiamo eseguito alcuni brani tradizionali italiani e alcuni canti perché non si ballava. Ho anche un progetto estemporaneo di bal Québec con la pianista inglese Nina Zella con Nicola Brighenti che spiega ed insegna le danze. Quando capita mi ritrovo ancora sul palco in duo con Luca Rampini, e poi c’è il progetto che condivido con Michel Esbelin che è un suonatore straordinario di cabrette, la cornamusa dell’Auvernia. 
Amo tantissimo quel repertorio della musica d’Auvernia e ogni tanto ci vediamo e suoniamo con la coppia classica organetto e cabrette o con la cornamusa.

Come nascono i tuoi brani?
Non sono un grande compositore, e non scrivo mai su commissione. Non mi metto mai lì a scrivere perché devo farlo. Quando mi viene fuori una melodia la tengo come il valzer ad undici tempi che chiude “10” che è nata per caso mentre stavo studiando e dopo averla provata dal vivo ho deciso di inserirla nel disco. Altre volte compongono delle cose che mi sembrano bellissime ma dopo due o tre giorni mi accorgo che non mi piacciono affatto.

Sei molto impegnato anche sul fronte della didattica…
Insegno organetto in una scuola di Milano e in alcuni corsi e poi ovviamente tengo anche delle lezioni private. Ho realizzato anche un manuale di organetto che parte proprio dall’ABC e conduce a suonare autonomamente. In Italia non c’era nulla in questo ambito e si trovavano solo libri francesi. Insieme alla Rox Records sono anche riuscito a ristamparlo.

Molto intensa è poi l’attività dal vivo con Compagnia…
Saremo impegnati in estate in vari festival in italia ed all’estero, faremo poi un tour in Germania e Repubblica a settembre e ottobre. Poi ci sono sempre vari concerti in giro e speriamo di vendere anche tanti dischi, perché è un lavoro che celebra anche il nostro modo di essere dopo dieci anni di attività insieme.

Concludendo, come giudichi la diffusione e la popolarità del balfolk in Italia?
E’ una cosa molto positiva perché questo ci consente di suonare molto, cosa fondamentale per chi come me ha scelto la professione di musicista. Sono, dunque, molto contento perché vuol dire che ci chiamano a suonare. Come in tutte le cose però ci sono i pro e i contro. Se, infatti, questo ci consente di presentare il nostro lavoro e di suonare la musica che ci piace, dall’altre essendo un fenomeno molto diffuso, non si può pretendere sempre di suonare di fronte ad un pubblico culturalmente attento perché tanta gente vuole ballare senza stare lì a farsi troppe domande sulla tradizione o su cosa è il folk. Di fatto però il ruolo della musica folk è stato sempre quello e i nostri certamente non ballavano perché avevano una coscienza culturale più profonda, ma perché volevano divertirsi. Il nostro progetto tenta di coniugare l’aspetto del divertimento con quello culturale. Durante i nostri concerti chiediamo, a volte, ai ballerini di fermarsi per ascoltare questo o quel brano, e loro volentieri si godono la nostra musica, senza per forza ballare.


Andrea Capezzuoli e Compagnia – 10 (Rox Records, 2017)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK 

I dieci anni di attività di Andrea Capezzuoli e Compagnia sono stati un continuo crescendo tanto dal punto di vista della maturazione artistica quanto degli apprezzamenti che hanno raccolto con i loro dischi e suonando in Italia ed all’estero. Per celebrare questo primo importante anniversario del loro percorso artistico, hanno dato alle stampe “10”, nuovo album nel quale hanno raccolto tredici brani che nel loro insieme compongono un viaggio sonoro che si dipana tra l’Italia, la Francia ed il Québec, mescolando storie, leggende, canzoni, ballate e musiche da ballo, il tutto impreziosito dalla loro originale cifra stilistica. Il perfetto interplay tra l’organetto di Capezzuoli, il violino di Milo Molteni e le chitarre di Jacopo Ventura guida l’ascoltatore tra suoni, melodie e ritmi europei e nordamericani che dialogano tra tradizione ed innovazione, mentre mazurke francesi e trascinanti reel del Québec si intersecano in modo sorprendente. Aperto dall’evocativo medley tra il traditional “Mamma mia mi voi maridà” e “Reel de accordeonistes” di Macel Messervier, il disco entra subito nel vivo con la ballata narrativa “Andando In Francia” firmata da Capezzuoli su un testo tradizionale e nella quale spicca la cabrate di Michel Esbelin. Si prosegue con l’energica “Gigue du Plateau Mont Royal” e il tradizionale “Re Arduin” proposta in sequenza con “Le ruisseau français”. Se echi di Occitania emergono nell’autografa “Curenta del genio”, impreziosita dal violino di Gabriele Ferrero, la successiva “Hommage a Dorethée” arriva dal repertorio di Phillip Bruneau. Il piano di Nina Zella e il contrabbasso di Rolland Martinez arricchiscono, poi, lo splendido “Set Messervier” in cui si intrecciano “La Belle Epoque”, “Hommage a Edmond Pariseau” e Reel de Ouvriers”. La ballata “Il demonio” apre la strada prima a “Bourrée de ciucat” nella quale giganteggiano Remy e Vincent Bonificace rispettivamente al violino e alla musette 16 pollici. Ne “La guessinette” di Stephen Johnes ritroviamo il sax di Luca Rampini, già membro della Compagnia, mentre la gustosa “San Giaouzé eme Mario” ci conduce verso il finale con “Set Eugene” e il valzer a undici tempi “Teresa è tornata a cantare” che suggella un disco pregevolissimo che non mancherà di affascinare quanti vi dedicheranno un ascolto attento. 


Salvatore Esposito

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