Concept album raffinato e pregno di ricognizioni storiche, “Cumannanti Giulianu” del trio Velut Luna è come composto da una serie di pagine da sfogliare, guardare e leggere, ascoltare e ripassare. Tutto si incastra dentro un’idea progettuale coerente e definita in dettaglio. In primo piano c’è ovviamente Salvatore Giuliano – il bandito siciliano più famoso e controverso – e poi c’è la serie di trame riflessive sulla Sicilia, l’Italia, l’America. Ma anche il punto di vista di chi guarda indietro a certe dinamiche, non solo storiche, ma soprattutto sociali e politiche. E lo fa in riferimento a una visione musicale volta a rappresentare quelle dinamiche (per quanto possibile), attraverso non tanto un ambito sonoro “locale” e riconoscibile, quanto piuttosto una narrazione (che definirei) partecipata, che evita cioè la prospettiva descrittiva a vantaggio di un linguaggio e di una serie di codici “mobili”, dinamici, vivi. Questi codici sono assorbiti innanzitutto nel dialetto – pieno e inclusivo, portato stabilmente in primo piano come scelta consapevole e soprattutto inevitabile, come strato irriducibile sull’involucro dei contenuti, come contenuto stesso – e poi nella selezione e messa in ordine delle storie. D’altronde se è vero che non ci devono essere limiti alla creatività e che ogni storia può essere riletta e raccontata in mille modi plausibili, è altrettanto vero che l’efficacia dialogica si configura tutta dentro le scelte, le esclusioni, il programma attraverso cui si forma la storia stessa. Sul piano musicale, gli strumenti non sono molti ma ognuno ha un suo peso preciso, programmato. E nel complesso i tre musicisti (Salvo Nigro, Giuseppe Arena, Fabio Currò) riescono a tratteggiare uno scenario non solo convincente ma molto evocativo. Già dal primo brano in scaletta, “Bedda”, nel quale la fisarmonica ricama e arricchisce l’andamento melodico della voce, pieno e aperto, sinuoso. Alla chitarra, mandolino, flauti, tastiere, fisarmonica, percussioni e batteria, si aggiungono alcuni elementi vocali che approfondiscono la narrazione, dando enfasi a passi importanti dell’album, con interventi di testi recitati da Antonio Amico e Grazia Capone (quest’ultima si è occupata anche delle ricognizioni storiche e della scrittura dei testi). Uno dei punti cruciali dell’album è la title-track, nella quale convergono molti degli elementi politici (ed epici) che si rifrangono sulla figura di Giuliano. La musica è distesa, specie nella prima parte, stirata dentro un sottofondo di archi su cui si adagia un canto melodico, deciso e rarefatto. La melodia è reiterata e imperniata con un piacevole effetto sul termine “cumannanti”, nel quale si riflettono costrutti come “la Sicilia tutta insorgerà”, “combattenti de la dignità”, “biniditti sti me muntagne”, ma anche “non c’è prezzu pi la libertà” e “biniditta sta vita amara/puru a menzu a lu mari” ecc. A ben vedere, scorrendo la scaletta, l’epopea di Giuliano è dettagliata attraverso le immagini più rappresentative che la storia ci ha raccontato, in modo più o meno deformato e più o meno cronachistico. Se da un lato, infatti, l’ensemble lavora sulla definizione di un riflesso di memoria – in parte anti-storico e articolato dentro il quadro dei tratti più profondi della figura del bandito – dall’altro si riordinano i fatti storici secondo una serie di prerogative che assumono, giocoforza, un valore politico. In questo senso emergono nella narrazione Gaspare Pisciotta (“A canzuna i Pisciotta”), così come i fatti di Portella della Ginestra (“A stragi da Putredda”) e una parte dell’immaginario separatista riconducibile a Giuliano, così come a una parte della Sicilia del tempo (“Canzuna separatista”).
Daniele Cestellini
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