Abou Diarra – Koya (Mix e Métisse, 2016)

Riuscitissimo, felice connubio fra tradizioni africane e sonorità blues è “Koya” del maliano Abou Diarra. Nato nella regione di Sikasso nel sud del Mali, suonatore di kamale‘ngoni e cantante, il musicista è legato alle tradizioni culturali e musicali dei cacciatori mandinka. Il suo strumento, il kamale’ngoni, è un cordofono dell’Africa occidentale, e rappresenta la versione contemporanea (creata negli anni Cinquanta del secolo scorso dai giovani ribelli Wassoulou) del tradizionale donso’ngoni suonato dai cacciatori, antico strumento della cultura tradizionale del Mali datato al XII secolo, che accompagna i racconti della caccia, le preghiere ma anche le pratiche di medicina tradizionale e le cerimonie animiste. Realizzato a partire da una zucca calabash tagliata per tre quarti e svuotata, per realizzare la cassa di risonanza, forata per far passare un manico costituito da legno o bambù su cui vengono montate due serie di corde parallele, il kamale’ngoni viene completato con l’applicazione di una pelle ben tesa, generalmente di capra. La scala è pentatonica, a differenza di altri cordofoni provenienti dalla stessa area d’origine. Dopo una giovinezza difficile in parte trascorsa girovagando a piedi tra Mali, Costa d’Avorio e Guinea alla ricerca di un lavoro – e quindi percorrendo migliaia di kilometri attraverso villaggi remoti e megalopoli-, scoperto l’interesse per il kamale’ngoni grazie all’incontro con Yoro Dialla, Abou Diarra ha finalmente trovato il suo maestro a Bamako attraverso la conoscenza di Vieux Kantè. Il maestro, non vedente lo ha accolto in casa per insegnargli lo strumento; con lui ha vissuto per sette anni assistendolo fino alla morte, avvenuta prematuramente nel 2005. Da quel momento Diarra ha cominciato a suonare per conto suo. Affascinato da jazz, blues, hip hop, con “Koya” Abou Diarra compie un vero e proprio viaggio musicale e spirituale nell’Africa occidentale. Dedicato alla madre, nota cantante, che in “Koya Blues” canta con la sua voce affascinante e un po’ roca, tutto l’album è solcato dal suono del kamale’ngoni, dalla voce trasognata di Abou Diarra, dall’armonica suonata da Vincent Bucher e dalla chitarra elettrica di Nicolas Repac, che riescono a mettere in comunicazione mondi musicali e strumenti appartenenti a continenti diversi e che fanno subito pensare a quanto deve essere vero che le radici del blues sono in Africa. Abou Diarra non è una persona che rincorre il successo, questo album nasce innanzitutto da un imperativo interiore, rimarcano le note distribuite alla stampa: “Tutto ha il suo tempo. Il tempo non era ancora arrivato. Quando è venuto, sono andato avanti” è un’affermazione dell’artista. L'incontro e la collaborazione con il chitarrista francese Nicolas Repac (creatore di alcuni album “africani”, di cui due con Mamani Keita), arrangiatore di questo che costituisce il quarto album di Diarra, è stato decisivo nella maturazione. All’artista maliano è piaciuto il suo tocco morbido alla chitarra e, in effetti, il suo contributo musicale non stravolge e non è aggressivo nei confronti di questa musica. Ben integrato anche l’apporto dell’armonica di Vincent Bucher che incrementa efficacemente e con sensibilità le sonorità blues di quest’album. Semplicemente da brivido la prima delle undici tracce dell’album: “Ne Nana”, in cui il kamale’ngoni, la chitarra elettrica e l’armonica sono in perfetta sintonia stellare e costituiscono il suggestivo tappeto sonoro su cui la voce di Diarra monologa raccontando i suoi viaggi nel Mali, tra i campi e la strada. Con il secondo brano, “Koya blues”, il ritmo incalza e l’armonica prende in pugno con feeling e grinta la situazione. “Tunga”, dagli spiccati accenti reggae, fa decollare il ritmo tra cori femminili ed un lacerante assolo di chitarra elettrica. In un’atmosfera struggente la voce dialoga con il flauto di Simon Winsé in “Djalaba” mentre in Mogo Djigui, suggestivo, torrido, ipnotico strumentale giocato tra percussioni, fiati e sonorità elettriche, viene evocato il canto di uccelli del deserto. Con “Sougou Mandi” il ritmo riparte accompagnato da cori femminili, così come in “Kamalen Kolon” brano fortemente ispirato alla tradizione con innesti di chitarra elettrica ben integrata, cori femminili e battiti di mani. Nello strumentale “Abounicolas” i suggestivi suoni del kamale’ngoni dialogano con l’armonica e le percussioni e in “Ma cherie”, brano ritmato, le chitarre scintillanti e i cori femminili dilagano. In “Djarabi” e “Labanko” interviene, special guest, Toumani Diabate, il grande signore del kora maliano, altro cordofono della tradizione dell’Africa occidentale. Entrambi sono lenti brani meditativi con aperture e arpeggi che fanno pensare alle notti punteggiate da stelle. In “Labanko”, toccante ballata d’amore, si segnalano i superbi cori femminili e le delicate dissonanze melodiche. Chiudono questo CD la versione registrata in radio di “Ne Nana” e di “Djarabi”. Registrato presso lo Studio Canal 93 di Parigi, tra gli strumentisti che contribuiscono a questo emozionante lavoro si evidenziano i componenti della Donko Band che accompagna storicamente Diarra, composta da Amadou Daou alle percussioni e Moussa Koita alla tastiera, a cui si aggiungono qui Daouda Dembelé alla chitarra, Simon Winsé al flauto, Mariam Tounkara alla voce, François Piriou e Jean-Sébastien Masanet al basso, Martin Coriton alle percussioni. Accettazione, profondità, armonia sono le caratteristiche “spirituali” che si percepiscono in questa musica. Dolcezza, delicatezza, respiro sono le modalità. Risparmiando ogni giro di parole, l’invito è all’ascolto di questo gran bel disco. 


Carla Visca

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