Martin Green - Flit (Reveal, 2016)

Davvero affascinante questo lavoro di Martin Green, fisarmonicista e mago dell’elettronica con i Lau, band scozzese passata gradualmente ma in pochi anni dall'essere considerata una delle migliori band nu-folk di questo inizio del nuovo millennio al collezionare presenze in festival e rassegne dedicata all’avanguardia. Mente di questa trasformazione è proprio il folletto Martin Green che, in questo ambizioso progetto concepito a quattro mani con Adrian Utley dei Portishead (già produttore del precedente disco di Green, “Crow’s Head”), costruisce un suo piccolo gioiello dove il CD è solo una parte del progetto che ha la sua naturale controparte nello spettacolo dal vivo che comprende elementi cinematografici, di animazione in stop-motion, video-art (tutti appannaggio del pluri-premiato team scozzese Whiterobot) e modernissimi giochi di luce. Eppure già solo l’ascolto del disco sarebbe abbastanza per far gridare al capolavoro. Ingredienti: suoni di sintesi e una trama sonora tanto intrigante quanto scarna, tetra e cupa nella sua declinazione, affidata alle chitarre dello stesso Utley e ai bassi di Dominic Aitchison, membro portante della band Mogwai, ovvero il post-rock ‘at its very best’, poi le voci di Becky Unthank, Adam Holmes e John Smith, insomma le migliori voci che il panorama britannico abbia espresso nei generi folk e songwriting negli ultimi dieci anni. Ma è il concept dell'album (e dello show) a rendere davvero interessante il progetto: Green ha registrato delle storie, storie di emigrazione, «argomento potenzialmente assai infiammabile» (parole dello stesso Martin) e con l’aiuto di alcuni dei migliori songwriter del momento, fra cui la scozzese Karine Polwart (che firma ben quattro brani) e l’americana Anais Mitchell, le ha tramutate in canzoni, alcune delle quali mantengono la struttura della folk song (come “Roll Away” della stessa Mitchell), altre, come le bellissime “Defy the Laws of Motion” e “Smallest Plant”, acquistano una connotazione più politica o affrontano il problema dell'emigrazione in chiave globale, mentre il parlato di “The Living Wind” e “The Suitcase” riporta integralmente le parole di due degli intervistati. Commovente la brevissima “The Singing Sands” che chiude il CD, dove sono le dune della spiaggia da dove è partita la persona ricordata, a riecheggiarne la voce. L’idea del progetto è nata da un’intervista che Green ha registrato con la nonna, perché i suoi figli la potessero ascoltare da grandi, e molte delle storie registrate riguardano la famiglia di Martin e della moglie Inge (fisarmonicista lei stessa, membro della band di Karine Polwart), ma nessuna di queste è citata esplicitamente nelle canzoni che hanno optato per un approccio più ‘generale’. Spesso le bellissime voci di Becky Unthank e Adam Holmes compaiono negli stessi brani, timbri diversissimi e contrastanti, mentre la sola “The Singing Sands” è affidata alla voce cavernosa di John Smith. Un disco apparentemente difficile dal contesto sonoro generalmente cupo, che può inizialmente renderne ostica l’assimilazione, ma un ascolto ‘consapevole’ con un buon impianto, magari con delle cuffie, non potrà lasciare indifferenti e farà scoprire un opera originale e curata in ogni dettaglio.


Gianluca Dessì

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