Avete presente quella pubblicità di un noto brandy dove, durante una festa piuttosto scialba, un famoso dj francese fa cadere del ghiaccio sul vinile e “scratchando” (involontariamente?) nel tentativo di raccogliere il cubetto, trasforma radicalmente il party? Bene, questo spot potrebbe rappresentare perfettamente l’aspettativa comune quando la cosiddetta “musica colta” o “accademica” incontra l’elettronica. “Ginc Remix”, titolo dell’appuntamento dello scorso 24 novembre nell’ambito del 53° Festival di Nuova Consonanza si prestava molto bene a questa ingannevole lettura. L’incontro fra le registrazioni inedite (datate 1980 e 1984) del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e il duo inglese Demdike Stare, però, ha seguito tutt’altro copione.
Il Ginc, fondato nel 1964 da Franco Evangelisti, è passato alla storia come primo e (allora unico) collettivo sperimentale di compositori-esecutori. Non solo il ruolo di ciascun musicista non era definito, ma si avvalevano di strumenti “preparati”, oppure suonati in maniera non convenzionale, oltre a ricorrere a tutte le soluzioni elettroniche dell’epoca: alterazioni, manipolazioni, creazione di suoni ex novo. La parola d’ordine era improvvisazione. La grande dote di questa musica, già all’epoca per certi versi troppo libera, è quella di aver inaspettatamente prodotto oggi un’appassionata riscoperta da parte del pubblico dei giovani. Gli stessi Sean Canty e Miles Whittaker, dj e produttore artefici di una miscela arcana di dub, techno, psichedelia, drone e ambient, ammettono candidamente di essere ammiratori della formazione di Evangelisti e di possedere tutti i loro dischi.
La loro operazione nella serata romana diventa così non un semplice riordinare le componenti dei brani in un altro modo, ma riscrivere, remixare inteso come dare una nuova codifica a un brano. Sicuramente il lavoro diventa più facile quando il materiale di base possiede già una sua carica propulsiva imprevedibile e innovativa, come gran parte della produzione del Ginc. Al pubblico in sala è richiesto di abbandonarsi alle suggestioni e sensazioni sonore piuttosto che a un ascolto razionale e ragionato. Tutto è dominato da un battito cardiaco potente e struggente, con l’effetto di fruscio del vinile che si sostituisce al regolare tintinnio dell’elettrocardiogramma. L’inizio della performance sembra una registrazione di Steven Feld nella foresta della Papua Nuova Guinea, in realtà di naturale non c’è nulla, si tratta invece di voci elettroniche risvegliate dai due stregoni di Burley. Dopo almeno una ventina di minuti d’inquieto rapimento più che di ascolto, spostando lo sguardo sulle persone intorno, nella singolare cornice della piattaforma rossa sospesa del Museo d’Arte Contemporanea di Roma (MACRO), si ha quasi l’impressione di essere in un film di David Lynch. Un ritmo quasi tribale e sonorità distorte avvolgono l’intero uditorio, filtra solamente, come proveniente dal fondo di un pozzo, il suono di un pianoforte. È pura illusione. La sensazione di familiare rifugio che il pianoforte poteva rappresentare scompare quando questi viene riassorbito perdendosi in un’allucinazione elettronica. Sui volti dei presenti serpeggia l’irrefrenabile curiosità di sapere che cosa stanno pensando i maestri e reduci del Ginc, Ennio Morricone, Alessandro Sbordoni, Giovanni Piazza, Giancarlo Schiaffini presenti in sala. I pareri saranno inevitabilmente discordanti e forse anche piuttosto perplessi, difronte a questa improvvisazione sull’improvvisazione, al remix di libertà creativa passata. O più semplicemente davanti ad un’affascinante seconda vita musicale.
Guido De Rosa
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