Con il contributo odierno, desideriamo rendere omaggio ad Arrigo Polillo (1919-1984), benemerito studioso della musica jazz, scrittore, manager, giornalista, avvocato, direttore editoriale, appassionato di pittura, scultura, cinema e amante dei viaggi. Senza risparmio e con passione, diede forte impulso alla conoscenza della musica afro-americana in Italia, distinguendosi come instancabile organizzatore di concerti.
Una vita dedicata al jazz
Nel 1945, Gian Carlo Testoni e Arrigo Polillo diedero vita alla rivista “Musica Jazz”, nella quale lavorò per circa quarant’anni, prima come caporedattore, successivamente come direttore. Centinaia gli articoli scritti. Nel 1954, Testoni, (Giuseppe) Barazzetta e Polillo scrissero la “Enciclopedia del Jazz”. Polillo, in particolare, curò la sezione relativa al jazz moderno (dallo swing al cool jazz), avendo come orizzonte cronologico il periodo compreso tra il 1944 e il 1952. Inoltre, elaborò con Pino Maffei la terza parte, titolata “Gli uomini del jazz” e curò la nutrita “Bibliografia”. Pionieristica per l’epoca, l’Enciclopedia comprendeva una parte dedicata ai “Lineamenti di storia del jazz. Le origini popolari”, scritta dall’etnomusicologo Roberto Leydi. L’opera più nota di Arrigo Polillo è “Jazz: la vicenda e i protagonisti della musica afro-americana”, poderoso testo del 1975, un evergreen aggiornato fino ai giorni nostri (da Franco Fayenz). L’anno successivo, pubblicò gli audiolibri “La storia del jazz” e “Le voci del jazz”.
Di recente abbiamo ascoltato il figlio Roberto, appassionato di fotografia e d’informatica, durante la presentazione di “Swing, Bop & Free”, mostra fotografica da lui realizzata presso lo spazio polifunzionale “Base”(di via Bergognone), inserita in “JAZZMI”, festival che si è tenuto a Milano dal 4 al 15 novembre, al quale hanno partecipato trecentoventi artisti; circa ottanta i concerti e venticinque gli eventi culturali. La mostra è stata dedicata ad Arrigo Polillo il quale, oltre a operare nella carta stampata, contribuì alla realizzazione di numerose trasmissioni radio-televisive e, in particolare, si distinse per l’organizzazione di ben undici edizioni del “Festival del Jazz” di Sanremo, fra il 1956 e il 1966. Altre rassegne organizzò a Milano, Verona, Lecco, Bergamo, Genova. Un’attività intensa che gli permise di entrare in contatto con i musicisti più illustri della musica jazz, dei quali ebbe modo di scrivere anche nel libro “Stasera Jazz”, del 1978. Nel 1989, il suo Archivio personale venne donato dai familiari al Centro Nazionale Studi sul Jazz “Arrigo Polillo” di Siena.
La mostra “Swing, Bop & Free”
Roberto Polillo ha organizzato una visita guidata della sua mostra, durante la quale ha ricordato una serie di aneddoti personali (e non) riferiti ai singoli musicisti. Si considera un appassionato di fotografia. Nato nel 1946, nella vita ha operato soprattutto nel settore informatico sia come manager e imprenditore sia come docente all’Università di Milano e di Milano Bicocca. All’età di quindici anni ricevette in regalo una “Pentax” dal padre, con la quale fotografò i concerti poi recensiti nella rivista menzionata. Per “Musica Jazz” servivano soprattutto ritratti e primi piani dei suonatori. Polillo esercitò come fotografo dal 1962 al 1974, riprendendo perlopiù eventi musicali realizzati in Italia, Svizzera e Francia. La mostra milanese è stata allestita per aree (suonatori di sax, tromba, piano, contrabbasso, voce, direttori di big band). Sparse sulle pareti, sono state riportate frasi celebri, come ad esempio quelle di Miles Davis, “I’ll play it and tell you what is later” (prima la suono poi ti dico cos’è) oppure “Do not fear mistakes, there are none” (non temere errori, non ce ne sono). Di sottofondo alle immagini, musica afro-americana discretamente diffusa, selezionata in due distinte e ragionate play list.
Tenendo conto della quantità e del rilievo internazionale dei musicisti fotografati, di seguito, abbiamo scelto di riportare un’organica sintesi degli interventi di Roberto Polillo, lasciandolo “narrare” come jazzista durante un assolo:- Per “Musica Jazz” c’era costante bisogno di fotografie ed io ero un appassionato. Mio padre mi regalò una macchina fotografica, inizialmente una “Pentax”, ma ben presto una “Nikon F”; un giorno mi disse “… vieni con la tua macchina fotografica ad assistere a un concerto”. Il primo concerto in assoluto che ho fotografato è stato il Festival Jazz di Sanremo, nel 1962. Avevo sedici anni. La prima vera esperienza è stata qualche mese dopo. La ricorderò sempre, era un concerto del quartetto classico di John Coltrane. Indossava lo smoking ed era un fiume, suonava senza interruzione. Nell’immagine selezionata mi sono divertito a fare una doppia esposizione. Guardando le immagini della mostra dovete provare a ricordare il periodo storico. Siamo negli anni Sessanta. I concerti jazz erano molto informali, si fumava in teatro ed io (“raccomandato”) potevo accedere a tutti gli spazi, sul palco, sopra il palco, sotto la batteria (…). Informali erano pure i rapporti con i musicisti. Negli anni Sessanta, negli States, i musicisti di colore non sempre venivano trattati bene, in Europa invece erano considerati delle star anche se scritturarli, all’epoca, non era particolarmente dispendioso. Cinquanta per cento del compenso veniva dato ai musicisti alla fine della prima parte, il rimanente a fine concerto. A volte ne succedevano delle belle, come a un concerto di Sonny Rollins.
Tutti in teatro ad aspettare, ma lui era a Londra. Non aveva capito che sarebbe dovuto venire a suonare in Italia. Normalmente con mio padre ci recavamo all’aeroporto. Incontravamo i musicisti e, sul suo grosso”1800 Fiat” blu, li portavamo in albergo e poi in teatro per le prove. Negli anni Sessanta erano ancora in vita i Grandi maestri “classici”, come Louis Armstrong, Duke Ellington, Count Basie, Thelonius Monk. Loro erano molto attivi, ma negli stessi anni stava crescendo la nuova leva del free jazz. Anni particolari in America. Uccisi due Kennedy a distanza di pochi anni, e poi le figure di Malcom X e di Martin Luther King. Anni di proteste e di rivolte. Diversi musicisti si erano convertiti all’islamismo, come Yusef Lateef, per questo motivo alcuni indossavano tuniche come abiti. A partire dalla fine degli anni Sessanta ci fu anche un periodo di sperimentazione e di fusione, come nella musica di Miles Davis. Comunque dopo gli anni rivoluzionari del Be-Bop (nel dopoguerra), negli anni Sessanta, particolare era la musica di Coltrane, torrenziale, il quale iniziò a svolgere lo sguardo ancora più a Oriente. Tipico il suo “A love supreme”. Io ho avuto la fortuna di poterlo fotografare durante l’unica esecuzione pubblica di quel pezzo. Ricordo che il pubblico a fine esecuzione urlava. Metà perché lo criticava, metà perché era entusiasta. C’è poi quest’altra foto che mi è stata spesso richiesta, perché Coltrane è fotografato in un atteggiamento quasi contemplativo (in realtà stava solo aspettando i bagagli all’aeroporto).
In successione vi mostro gli scatti di Archie Shepp, Dexter Gordon, Eric Dolphy, morto purtroppo molto giovane qualche mese dopo. E poi Wayne Shorter, divenuto particolarmente noto con la “fusion” negli anni Ottanta; Coleman Hawkins, il quale in quel periodo beveva ed era spesso depresso, ma quando suonava era ancora molto in forma. Da una parte c’erano i musicisti che gravitavano nell’area di New York, dalla quale proveniva il jazz più duro, ma negli stessi anni c’era anche il jazz californiano, più soft, di Gerry Mulligan, Stan Getz, Lee Konitz. Stupendi i concerti, ma altrettanto interessanti i dopo concerti, dove nei locali continuavano le jam session tra musicisti. Alcune fotografie della mostra ritraggono proprio questi momenti. Ho voluto stampare questa immagine di Armstrong in grande formato, perché ritrae il musicista simbolo del jazz, almeno nell’immaginario collettivo. Di lui mi è sempre rimasta impressa la frase “se non lo hai , non puoi soffiarlo fuori”. Questa sua foto è del 1967, pochi anni prima del suo decesso. In quel periodo durante i concerti suonava poco, prevalentemente cantava. Altro grande del jazz è Miles Davis. Più volte venne in Italia. In questa foto suonava ancora in giacca e cravatta. Sapete che spesso suonava dando le spalle al pubblico, gli davano fastidio i riflettori e se vedeva che qualcuno scattava fotografie, smetteva e se ne andava. Vi mostro l’unica foto nota in cui suona il sax ed è insieme a mio padre Arrigo. Dietro allo scatto c’è una storia da raccontare. Un giornalista si era intrufolato nel camerino per intervistarlo. S’irritò terribilmente e disse che non avrebbe più suonato. Ci furono animate discussioni. Poi, per stemperare l’ambiente, prese il sax e disse a mio padre:- “ Guarda, adesso ti faccio vedere come suona un sassofonista drogato”. In quell’attimo io scattai. Tra i tanti aneddoti di Davis uno che mi è stato raccontato.
Un giorno una donna aristocratica francese, che era accanto a lui durante una cena di gala ma non lo conosceva, gli chiese:- “Tu che cosa fai?” Lui rispose: - “I change the music!” Affianco a Davis un altro grande della tromba, Dizzy Gillespie, con il suo tipico strumento istoriato a lunga campana . Qui tutta una sezione dedicata ai pianisti, bianchi e di colore. Thelonius Monk era il più taciturno di tutti, andava sempre in giro con sua moglie Nelly, la quale rispondeva per lui a tutte le domande dei giornalisti. Non apriva bocca. Ricordo di un viaggio Milano-Lecco. Silenzio assoluto. Poi, attratto dal moderno tachimetro dell’auto, a un certo punto, fece una domanda (l’unica di tutto il viaggio):- Hanno inventato prima le miglia o i chilometri? Qui alcuni scatti di Bill Evans, molto preparato, suonava un jazz raffinato; il suo un carattere malinconico, conoscete la sua storia. Qui affianco una foto di Keith Jarret, siamo praticamente coetanei. Era molto giovane e non ancora conosciuto. Lo ricordo come persona timidissima. Sapete che in seguito si è distinto per il carattere piuttosto deciso…, basta un colpo di tosse che subito smette di suonare. Almeno, l’ha fatto in diverse occasioni. Grandissimo improvvisatore. Si metteva al piano senza avere mai nulla di scritto, partiva e improvvisava (nella mostra è riportata una sua frase in traduzione libera: “Il jazz è qui e se ne va. Succede. È così semplice devi essere presente”). Poi tanti altri pianisti illustri, come Oscar Peterson.
Aveva una tecnica sviluppata, di lui dicevano che “non era un pianista, ma una macchina da scrivere”. Il tempo passa e in rapida successione vi mostro gli scatti di alcuni vibrafonisti, Gary Burton, Milton Jackson del Modern Jazz Quartet e Red Norvo ritratto con pizzetto e bocca spalancata davanti al Lirico di Milano (...). Nella mostra non potevano mancare i grandi Direttori di big band, come Duke Ellington. Erano incredibili i suoi ingressi. Entravano prima i musicisti alla spicciolata e suonavano, non si capiva bene se erano prove o l’inizio vero e proprio del concerto, ma suonavano. Poi arrivava lui, il Maestro. Sull’orchestra ci sarebbe da dire parecchio. Era molto affezionato ai suoi musicisti che raramente cambiavano, a differenza di quelli di Count Basie (…). Tra i contrabbassisti, nella mostra c’è una (involontaria) mancanza, quella di Ron Carter. L’ho fotografato in diverse occasioni, ma quando ho effettuato la selezione per la mostra non sapevo che sarebbe stato invitato a suonare al JAZZMI. Varie volte ho fotografato Mingus in concerto. Di lui oltre alla musica ricordo il libro titolato “Under the under dog” con il quale voleva far notare la scarsa considerazione per la gente di colore; così bassa che veniva considerata “sotto” agli ebrei, agli italiani, sotto sotto, infine, le persone di colore. Era un musicista impegnato. Vicino a lui altri importanti contrabbassisti: Steve Swallow, Eddie Gomez, Miroslav Vitous, Jimmy Garrison, Charlie Haden (...).
Inoltre, le cantanti tra le quali spicca Ella Fitzgerald, perennemente preoccupata di non farcela. Anche quando si era affermata, prima di andare sul palco era spesso agitata e doveva essere tranquillizzata (...). Infine i batteristi, praticamente i più importanti della storia del jazz: Art Blakey, Tony Williams, Elvin Jones, Max Roach, Kenny Clarke etc. Fotograficamente ero affascinato dalle batterie, per riprendere i suonatori mi stendevo in tutte le posizioni. Comunque la stragrande maggioranza delle mie foto sono ritratti, perché questi in prevalenza mi venivano richiesti per la rivista “Musica Jazz”. All’epoca si usava solo la pellicola. Come avrete visto tutte le foto sono in bianco e nero. Non è solo una scelta legata al periodo storico. Ritengo che nei ritratti, il B/N dia il massimo della drammaticità. A me interessava evidenziare l’espressione dei musicisti durante l’improvvisazione. Di tutte le foto della mostra solo venti sono state stampate con il digitale, mentre le altre in camera oscura. Un lavoraccio e non so se ne valga la pena, perché è arduo riconoscere la differenza. Ero giovane e studiavo (Polillo è laureato in Fisica). Facevo il fotografo solo per i concerti e sono stato a contatto con tantissimi grandi di questa musica, molti dei quali vennero in Italia grazie alla volontà e all’organizzazione di mio padre, cui ho dedicato la mostra con riconoscenza, avendo maturato nel tempo la consapevolezza di aver approfittato solo in parte dell’opportunità che mi aveva dato, unica e irripetibile, per scattare immagini a suonatori che hanno segnato la storia del jazz.Ascoltando Roberto Polillo il tempo è trascorso velocemente, lasciando la mente dell’uditore carica di emozioni. Efficace è stata la sua presentazione, condotta con sobria vivacità, evitando inutili personalismi. Come già sperimentato con una pubblicazione del 2006, il cui titolo è omonimo a quello della mostra (“Swing, Bop & Free. Il jazz degli anni ’60”, Marco Polillo Editore), tramite gli scatti fotografici, con merito, ha saputo dare risalto all’opera di suo padre, Arrigo Polillo, intellettuale che molto ha dato a Milano. Dietro alle immagini mostrate, si poteva ipotizzare l’intenso lavoro relativo all’organizzazione dei concerti, coordinato da un uomo di grande umanità e di vasta cultura. Uomo distinto, affermato professionista, capace di tessere relazioni internazionali, il quale non sapeva suonare, ma dedicò quattro decenni a favore della conoscenza e della promozione della musica jazz in Italia. Indicativo è quanto scrisse nella “Prefazione” della sua principale pubblicazione in precedenza citata:-“… il jazz non è il prodotto di pochi uomini di genio, ma è la musica di un popolo, a cui hanno dato un contributo di rilievo centinaia di uomini. A questi uomini, siano o siano stati consapevoli di fare dell’arte, oppure no, questo libro è dedicato, con affetto, con spirito solidale e con ammirazione”. Da tempo, era nostro intendimento ricordare Arrigo Polillo, acuto storico del jazz, raffinato e poetico scrittore, dotato di sottile ironia. Ci è sembrato particolarmente idoneo il contesto espressivo di “JAZZMI”, Festival che auspichiamo possa proseguire negli anni a venire, riportando Milano al centro delle attenzioni internazionali anche per quanto riguarda il patrimonio artistico-musicale afro-americano.
Paolo Mercurio
Foto 1,2,3,4,8 di Roberto Polillo
Foto 5,6,7 di Paolo Mercurio
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Suoni Jazz