Heidi Talbot – Here We Go 1,2,3.... (Navigator/Proper, 2016)

Dopo la virata “americana” del precedente “Angels Without Wings”, forse il miglior disco della cantante irlandese ormai scozzese di adozione, che vedeva la partecipazione, fra gli altri, di Mark Knopfler, Heidi Talbot ritorna con un disco che, se da un lato ricalca il precedente con la prevalenza di brani di composizione originale, dall'altro riprende suoni più vicini a quelli dei luoghi natii e elettivi. I violini di John McCusker, produttore e marito della cantante, i flauti e le pipes di Michael McGoldrick (fra l'altro ambedue, in tempi recenti, componenti della band dello stesso Mark Knopfler) e la fisarmonica di Donald Shaw, contribuiscono a dare al lavoro un'ambientazione più ‘celtica’, anche se atmosfere tipicamente americane fanno capolino spesso nello svolgimento della scaletta, come in “Wedding Day” dove l'incedere del brano (con tanto di tromba sordinata) e la ritmica del mandolino ricordano gospel e atmosfere old-time. Il nuovo lavoro vuole essere una sorta di concept-album sul ciclo della vita, con ninna-nanne, giochi d'infanzia, matrimonio, ricordi, e canzoni dedicate a momenti più tristi come la malattia e la morte. “Here We Go, 1,2,3”, titolo ripreso dal ritornello di un canto di chiesa, è un disco rassicurante, gradevole, forse prevedibile, ma sicuramente non brutto: la voce flautata della Talbot agisce costantemente su registri acuti e le strutture dei brani sono sempre riconducibili alla canzone pop; l'estetica non è quella della tradizione, ma piuttosto di una stilizzazione di essa, caratteristica questa di tutta la produzione della cantante di Kill. Per dare un'idea del campionato nel quale ci troviamo, è quello di Kate Rusby, non a caso a suo tempo prodotta proprio da McCusker, o Cara Dillon: voci flebili e intonate, arrangiamenti che di folk vagamente profumano ma che dalla tradizione stanno ben lontani. Non c'è voglia di rischiare, né negli arrangiamenti, né nelle armonizzazioni, e grazie a questo alla fine Heidi Talbot risulta molto più credibile come cantante pop, che non come la esecutrice di quei brani tradizionali che abbiamo ascoltato nelle prime tre incisioni e che di quelle incisioni costituivano sempre gli episodi meno interessanti, così come “The Willow Tree” (ovvero “The Outlandish Knight”) in questo album. Quando lo spessore del materiale la sorregge, il risultato è interessante. Paradigma di tutto ciò la cover di “Mother Land”, brano scritto e reso famoso da Natalie Merchant: pur lontana dalla solennità donata dal caratteristico timbro della cantante americana, la versione della Talbot è assolutamente impeccabile, a dimostrazione che, con un materiale di partenza valido, il risultato finale può essere interessante. Insomma, tutto funziona, molte canzoni del disco (scritte a quattro mani con Louise Fallon, Boo Hewerdine o McCusker) sono più che decorose ma difficilmente sono destinate a lasciare un segno indelebile. Ci sono un paio di tracce più interessanti delle altre, la ballad “Chelsea Piers” con contrabbasso e tromba in bella evidenza e “The Years That I Was Born”, singolo che ha anticipato l'uscita del CD. 


Gianluca Dessì

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