Mariano Marovatto – Selvagem (Embolacha, 2016)

Ci prepariamo a rimbalzare sopra l’Atlantico con “Sevagem”, il nuovo album del compositore e scrittore brasiliano Mariano Marovatto. Si tratta di un lavoro che segue una produzione discografica articolata - composta da sette album solisti e diverse collaborazioni con altri artisti e in altri progetti - e che abbraccia una visione che include anche la produzione letteraria di Marovatto. Dicevo dell’Atlantico perché le otto tracce raccolte in “Sevagem” sono state selezionate nei repertori popolari brasiliani e portoghesi, non solo (non credo almeno) per sottolineare il legame tra le due aree, ma piuttosto per assecondare la visione panoramica di questo produttivo compositore, nato in Brasile e residente in Portogallo. L’album pone delle questioni interessanti perché, nonostante le matrici musicali, le forme assunte dai brani esulano da caratterizzazioni facili. O meglio non si possono - almeno in una prima fase di ascolto - collocare nell’ambito della folk music, perché sembrano aderire più comodamente a una forma libera, molto personale e inevitabilmente intimistica. Una forma che si definisce attraverso una ricerca nei vastissimi repertori popolari, nella selezione e nella sintesi che se ne è voluta dare. E soprattutto in quella visione che spesso tiriamo dentro le nostre riflessioni sugli album e che, negli esempi migliori, traspare (o almeno ne traspare la parte condivisibile) nei dettagli e nelle relazioni attraverso cui questi si configurano nell’album. Come premessa però è importante sottolineare che la selezione è stata fatta con cura, includendo canzoni di tipo diverso, sia nella forma che nei contenuti, e cercando di definire in modo sufficientemente dettagliato lo scenario dell’immaginario popolare in questione, con tutte le sfumature che lo caratterizzano. “Sevagem” ci informa su alcune possibilità di interpretare i brani tradizionali seguendo un procedimento riferito a due poli innanzitutto: la sottrazione e il ripristino della centralità della melodia della voce (e delle voci). L’alternanza dentro questa prospettiva apre uno spazio molto ampio e, a differenza di ciò che si può immaginare, stabilisce un ottimo equilibrio tra tutti gli elementi chiamati a esprimere la loro forma di rappresentazione. Di qui si arriva diretti anche a qualche sperimentazione per niente scontata, che proietta l’album in una contemporaneità ineluttabile e aderisce comodamente agli spunti che, in modo diverso, emergono dai brani tradizionali. “Chamada de Aricuri” è un buon esempio di questo processo. Si tratta di un brano tradizionale dell’etnia Pankararu, stanziata in alcune aree costiere del Brasile, che Marovatto trasfigura in una sorta di mantra con voci e chitarra, venato da un’insopprimibile vena di requiem (che rimanda alla storia della dominazione, agli effetti dell’acculturazione coatta, alla perdita dell’uso della lingua indigena, al sincretismo ecc.). La rappresentazione di questo breve canto è, nelle stesse parole dell’autore, “animalesca”, come per intendere la scelta di una trasfigurazione cruda, attraverso la quale riordinare e comunicare un disagio e un estremo paradosso storico-culturale. Ci avvolge un suono circolare, introdotto da una chitarra secca a cui si sovrappone la voce bassa e dimessa. Lo spazio sonoro si addensa con “rumori” inquietanti (voci e chitarre), prodotti sulla reiterazione delle poche parole che si susseguono per tutto il brano, fino a spegnersi a unisono. Appena dopo, con “Mineta”, il brano che chiude l’album, si viene colpiti da una luce diversa: la combinazione di voce e chitarra si ripete, ma è più brillante e comunica l’idea del raccordo, della riflessione finale, quasi di una manciata di pensieri che si raccolgono camminando. Il brano è breve e si configura come un contrappunto ideale di “Lampião”, il brano in apertura della scaletta. Che, come ci spiega Marovatto nelle note di approfondimento pubblicate nel suo sito, si inserisce nelle narrative popolari sulle figure più carismatiche che hanno colpito l’immaginario collettivo. L’andamento del brano è vagamente ipnotico, sebbene energico e più denso. 

Daniele Cestellini

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