Questa volta arrivo ad Aliano che è già sera inoltrata. Risalgo i nove chilometri di curve, sotto una luna piena che azzurra i calanchi, getta ombre sui precipizi. Il mare mosso delle argille. Penso a Chagall, a cosa avrebbe dipinto se avesse visto questi luoghi. Quando attraverso la Lucania, i suoi paesaggi, e i paesi appoggiati con tale grazia sui cocuzzoli mi sembra di attraversare un regno più vicino alle cose prodigiose. Mi pare d’essere in una possibile preghiera sussurrata tra cielo e terra. Il pensiero che a breve incontrerò gli abbracci, i sorrisi, il benvenuto sincero degli abitanti di Aliano mi distrae, mentre guido, dal leggero tremore. Ed eccolo il paese costruito a strapiombo su un costone di terra. Ecco le sue prime case. Le prime luci. Ecco il paese di Carlo Levi e del suo esilio. Paolo Muran, il regista che documenta del Festival tutto quanto accade, ore e ore di girato, e che a volte crolla per la stanchezza appoggiando la testa sulla sua videocamera, è tra i primi che incontro. Già all’opera. La mensa è avviata. Le cuoche di Aliano saranno impegnate nei prossimi giorni a servire centinaia di pasti caldi: la pasta fatta in casa è principessa. So che quando mi affaccerò nella cucina allora sarà davvero iniziata la festa. Da domani, 20 agosto 2016 e fino all’alba del 25, partirà la quarta edizione di “La Luna e i Calanchi”, la Festa della Paesologia ideata e diretta da un poeta che ha eletto in Lucania, in questo luogo mite dell’argine, la dimora ideale per far deflagrare bellezza, poesia, utopia. Per dare un luogo concreto, seppure “provvisorio” a una comunità di destino che faccia esercizio di futuro possibile. Il poeta è Franco Arminio, lo scrittore-paesologo con lo sguardo sempre rivolto all’ Italia interna in un continuo esercizio di stupore per l’inerme bellezza, spesso offesa, delle nostre contrade, che diviene scrittura e dunque pensiero del fare.
Nel settembre 2012 ci fu un primo esperimento, un prologo di quello che dal 2013 ad oggi è divenuto un appuntamento immancabile per le nuove sensibilità che attraversano l’ intero Paese, sempre più fitto di presenze. Tantissimi i giovani quest’anno. Su Piazzetta Panevino, dalla forma concava e accogliente come un ventre, si affacciava allora curioso e timido il paese ad ascoltare Antonio Infantino, me e lo stesso Arminio. “La Luna e i Calanchi” iniziava allora con il passo dell’ospite incerto mentre varca la soglia di una casa in cui è invitato a entrare. Ora la Festa è la Casa stessa. Aliano è un filo di perle di piccole case, ognuna ha all’esterno i forni a legna per il pane. L’antico uso del matrimonio qui prevedeva che fosse la donna a portare la casa, di cui impastava il tetto con l’argilla. Il Comune si sta impegnando per il recupero, l’idea di un albergo diffuso che quest’anno ha risolto l’accoglienza dei tanti ospiti. Niente palchi questa volta, solo balle di fieno, per riposarsi e sostare qua e là. In Piazza Garibaldi dove mettersi in posa per uno scatto fotografico lento (Nicolas Boria), nel Museo del Buio dove ci si stende a guardare le stelle, nella Stanza della Memoria (a cura di Silvia la Ferrara) dove si possono lasciare scritti, biglietti, oggetti, in memoria di un proprio caro o leggere una poesia, suonare, intonare un canto. La famiglia di Ivan, regista e compositore russo, con i suoi tre figli e la moglie in attesa del quarto: intravedo i loro occhi a sorpresa attraverso le creazioni d’argento dell’ artista sarda Valentina Garau. I monili di sorprendente fattura sospesi al soffitto formano una cortina di luce, che si riverbera nella Stanza del Riposo, accanto. Il sonno di Ivan e della numerosa famiglia sembra così toccato da mani di fate. La sezione distaccata della Casa della Paesologia di Trevico trova dimora in queste stanze di Aliano con i bei camini in pietra.
Forse c’è una parola per definire il festival di quest’anno: tenerezza, abbandono. Altrove, i grandi assembramenti sotto i palchi, le kermesse estive degli straripanti raduni della musica popolare, dei grandiosi spettacoli. Senza nulla togliere. Qui, però, c’è un’altra aria. Non mancherà di certo la musica: il programma come sempre è fittissimo. Riesco ad ascoltare il balsamico canto della memoria ancestrale dei Fratelli Mancuso, la fisarmonica di Carmine Ioanna che improvvisa con Rocco Papaleo, Beppe Voltarelli ed Edoarda Iscaro. È impegnativa la festa per chi voglia seguire tutto quanto succede fino all’ alba del 25 agosto: laboratori, azioni paesologiche, passeggiata inaugurale nei calanchi, performance, installazioni, cinema della festa, concerti, teatro, parlamenti comunitari, lectio magistralis, letture poetiche, e persino una carovana paesologica che il 21 agosto muove da Aliano per andare nel bosco di Cirigliano e poi alla Grotta di Gorgoglione per concludersi a Guardia Perticara. Un piccolo esodo, che nonostante qualche disagio raccontato a chi non c’era, decentra la Festa, e risveglia l’interesse per i luoghi più nascosti, come la Grotta del Brigante di epica bellezza, cornice possente per l’affondo poetico di Daniel Cundari e Vincenzo Mastropirro, e per “Song of Songs”, dal Cantico dei Cantici, lo spettacolo che ho presentato quest’ anno con Simona Lisi. L’alba, è scritto nel programma, può essere necessaria o facoltativa a misura delle proprie forze, dei propri interessi. Risolve a volte il semplice ascolto di quanto accade intorno. Il richiamo di una voce femminile che si leva tra i tavolini di uno dei bar della piazza. Icona di terra bruna stridente con la plastica dei tavolini. Si accompagna con la chitarra e sgraffia contemporaneamente una darbouka: è Rosalba Santoro, voce della Murgia, grande presenza. L’odore di menta che proviene da una delle stanze più immaginifiche (“Passi” di Maria Cristina Ballestracci, che l’artista santarcangiolese dedica proprio alle cuoche di Aliano) che si affacciano su Piazzetta Panevino.
Una sposa che sta sulla soglia di una casa e “serve” ai propri ospiti, che tornano e tornano, un menu di poesie (“La cameriera di poesia”/Claudia Fabris). Una voce di tenore canta canzoni napoletane affacciato ad un balcone: è il coreano Yoo Sung, applauditissimo. Come sarà arrivato qui, mi chiedo. E penso al lavoro di Livio Arminio, a cui arrivano le proposte artistiche per il festival, alla sua dolce fermezza. Ivan Fantini e Paola Bianchi di cui ammiro una performance improvvisata: la danzatrice e coreografa torinese mi impressiona per l’ eccezionale controllo di ogni fascia muscolare del suo corpo. Danzano tendini e cartilagini. E che dire dell’ecopoesia attuata da un giovane economista che giura di aver danzato con gli elfi. Convegno di visionari e visionarie, cercatori e cercatrici . La postura qui cerca una quiete, una verità dello stare. Appare subito stonato in questo contesto ogni atteggiarsi, ogni giganteggiare dell’io. Lo scorso anno deve averlo compreso anche Vittorio Sgarbi che all’alba dell’ultima giornata s’inerpicò sui calanchi. I pantaloni blu gli s’imbiancarono d’argilla. Scambiammo una battuta al sorgere del sole. Qui i corpi devono farsi melodia. Si aprono le relazioni tra artisti e abitanti, si smussano i mugugni degli insofferenti, pochi per la verità, che mal sopportano gli scossoni alla propria quiete. L’impatto sul piccolo paese nei pochi giorni di fine agosto in cui dura la Festa è forte. Migliaia di persone, i piccoli esercizi fanno fatica a volte a tenere il passo. Gina, di Aliano, che segue il mio laboratorio di canto, mi dirà ad ogni modo che il paese non vede l’ora e che attende impaziente gli arrivi. Il vuoto che poi lascia è tanto. Forse per questo le donne quest’anno mi chiedono con più insistenza di fare l’attività di laboratorio tutto l’anno, di continuare, di non spegnere l’eco della Festa. Così oggi sono tornata a incontrarle. Il paese nella sua quiete è struggente. Le donne sono a casa. Gli anziani seduti al bar. Le voci allegre delle bambine all’improvviso sono una stella cometa che rischiara. Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli, l’immenso affresco della civiltà contadina lucana che richiamò in queste terre Ernesto de Martino e la sua spedizione e diede origine alla moderna etnomusicologia, descrive il paese delle fredde stelle invernali: la neve, il suono dei cupa cupa come un suono cupo di conchiglia e nell’ aria l’odore delle frittelle: La metafora del mare è molto presente in questa edizione con la stanza in cui Franco Lancio - a lui si deve tutta la grafica del festival - allestisce “Isolario” E poi Livio Borriello, scrittore, blogger. Intensi i suoi scritti in mostra nella stanza “Aliano o il nulla”. Le porte sono aperte sui vertiginosi pensieri.
Ci sono le presenze costanti, i continui ritorni. Un’ impresa sarebbe elencarli tutti. Così a caso: Andrea Semplici, reporter, fotografo fiorentino, ora a Matera sulle orme di Mario Cresci, sta fotografando la Lucania, i suoi riti. Ulderico Pesce, artista amato, racconta la storia di Giovanni Passannante. Egidia Bruno “cunta” mentre fa la pasta di casa. Non ho potuto ammirarla, ma conosco il suo lavoro di attrice-autrice. Annalisa Teodorani, poetessa di Santarcangelo di Romagna. È commovente ascoltarla qui tra le argille: il dialetto romagnolo dei suoi versi trova una perfetta risonanza. Quest’anno, a proposito di perfette risonanze, c’è Mariangela Gualtieri. E i giovani dicevo, tanti quest’anno. un nutrito gruppo dall’agro nocerino-sarnese attua la nobile arte del canto sul tamburo. Tammorra e voce a distesa. E c’è un gruppo di studenti dell’Università di Siena per la Scuola di Sociologia. Il laboratorio di cartapesta di Elena Marsico, che realizza i fiori che poi utilizzerò nella performance finale del laboratorio di canto. Le collaborazioni artistiche fioriscono spontanee e durano tutto l’anno. La tarantella lucana (Rino Lo Cantore e Ragnatela Folk di Matera) una notte solleva in piedi tutta Piazzetta Panevino, cuore pulsante, anima della Festa, la gioia si stende come un lenzuolo al sole. Una volta tanto non è la pizzica a far battere i tre quarti sulla pietra, a far muovere le gonne ampie delle ragazze. Un giovane mi invita, mi chiede di insegnargli i passi, la danza. Scambiamo poi due parole: è un geografo di Trieste, PhD a Berkeley, Università di California. Si parla del Sud, di quello che si muove. Si intuisce che c’è una lingua comune, una stessa tensione, che lo sguardo d’ Italia ora è spostato a Mezzogiorno. E a mezzogiorno si spostano i corpi.
Quanto Franco Arminio dice da tempo: non è più Aliano che ha bisogno di Milano, è Milano che ha bisogno di guardare ad Aliano. Tema che il poeta riprende nella “Lettera ai ragazzi lucan”i, manifesto della Lucania interiore: «Cari ragazzi, abitate da poco una terra antica…uscite, contestate con durezza i ladri del vostro futuro: sono qui e a Milano e a Francoforte, guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo….siete i ragazzi e le ragazze del prodigio». Una lettera-manifesto che andrebbe indirizzata a tutti i giovani del Paese. Presenze da Brescia, da Genova, da Venezia, da Milano. Con cauto ottimismo a giudicare dall’intreccio di poesia e pensiero - perché negli affollati “parlamenti comunitari” si parla di strategie dell’Italia interna, del progetto pilota della montagna materna; arrivano Isaia Sales, si conferisce il premio alla carriera a Pietro Laureano, e poi l’atteso Paolo Rumiz, per citarne alcuni – con cauto ottimismo dicevo, sembra chiaro che la dorsale appenninica nutrita di robusta poesia converge ogni anno in uno dei lembi più appartati della Basilicata, si addensa in questi giorni per poi esplodere nei fuochi d’artificio dei ritorni, tutti noi rafforzati nel proprio cammino artistico e umano. Certo i paesi del Sud, della Lucania si svuotano. Me lo farà notare Antonello Faretta, regista di Montedoro, il film interamente girato nel paese abbandonato di Craco, metafora potentissima dell’abbandono e del ritorno al proprio luogo che è ritorno alla radice antropica, proiettato nei Festival di mezzo mondo e a cui ho avuto la fortuna di partecipare come attrice, qui ad Aliano in una affollatissima proiezione. L’abbandono: forse è questa la Caporetto del Sud su cui sta indagando Davide Ferrario, ad Aliano nei giorni del Festival con la sua troupe per girare il suo nuovo documentario dedicato alla Caporetto storica.
Trascorro un intero pomeriggio con loro nei calanchi sotto la minaccia del temporale. Intono un canto per la raccolta delle olive nella impressionante luce cangiante che movimenta le dune spaccate. Frammenti del festival nel suo film. Apprendo che l’attenzione di Ferrario al lavoro di Arminio e a questa sua creazione e a quanto qui si smuove, è al contrario l’intuizione dei segni di rinascita a Sud. Si avverte un nuovo slancio, sconosciuto. Se si stringono patti miti tra il tempo contemporaneo e il lascito delle civiltà orali, complesse, strutturate più di quanto si immagini, si può colmare il vuoto del senso, lo smarrimento delle generazioni formate a botte di palinsesti televisivi. Lo strazio delle energie più belle che si perdono nei bar. Ritrovare la voce che trae forza dal paesaggio. La voce, appunto. Attendo nei calanchi, che arrivi il fiume di persone che si snoda silenzioso. La tradizionale affollatissima apertura del festival. Alcune avanguardie mi annunciano che il mio momento è vicino. Non so cosa canterò, faccio ipotesi. Intanto si avvicina un uomo alto e gentile, chiede se può fotografarmi. È Adam Victor, scrittore e fotografo inglese-americano. Ora sono tutti intorno a me. In un attimo ho davanti agli occhi l’immagine di un bimbo riverso sulla sabbia, il suo corpicino inerme. E intono un lamento. Improvviso i versi della madre che canta al cielo di mettere ali al suo piccolo, lei che non ha potuto salvarlo, né dargli sepoltura. Le inenarrabili tragedie del mare. Il corto-circuito emotivo non è pretestuoso. Indugiavo nell’ attesa sulle piccole concrezioni marine d cui sono piene le argille. Si dice che in epoca remotissima qui ci fosse il mare. La melodia è il paesaggio stesso, lo racconta più di quanto faccia la storia. Lo diceva Garcìa Lorca che percorreva l’Andalusìa per cercare le ninna nanne. Da tre anni per il festival conduco “Ultime Atlantidi”, un laboratorio di canto lucano di tradizione orale. C’è un filo conduttore sommesso quest’anno. Non mi preoccupo di tessere drammaturgia dei canti e ritmi della scena, di osservare le regole della buona riuscita di una performance pubblica. Quest’anno lavoro sul flusso emotivo, sul disarmo mio, innanzitutto. Chiedo a ogni partecipante – tanti, tante da ogni luogo d’Italia – di dedicare un canto alla memoria di un proprio caro. Rifletterò a lungo su questo lavoro. La comunione rituale del dolore attraverso il canto, ha forse prodotto nel pubblico silenziosissimo una catarsi. La notte prima il terremoto di Amatrice. Dunque, in questa Festa, ogni cosa trova il suo luogo proprio, non si ha paura delle accensioni dell’anima e dei corpi, non si teme il parlare della morte. Si ritrovano le coordinate umane “dove la gente vive più di cuore che di testa, una specie di miracolo” mi scrive Adam Victor. Stringe al petto il suo bambino. La casa non crolla se il tetto è bene impastato, mi dice Ida nel suo giardino di piante spontanee.
Caterina Pontrandolfo
Foto di Andrea Sansone e Adam Victor
Foto di Andrea Sansone e Adam Victor
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